Da Reset-Dialogues on Civilizations
Correva l’anno 1990. Le elezioni amministrative e regionali di quel giugno avevano segnato una straordinaria e inaspettata affermazione del Front Islamique du Salut (FIS), trasformando l’Algeria nel primo paese nordafricano nel quale l’Islam politico sembrava vicino alla conquista del potere. Ventidue anni più tardi, però, lo scenario politico non poteva essere più diverso da quanto era logico attendersi nei primi anni Novanta. In un contesto regionale profondamente segnato dalle cosiddette ‘Primavere Arabe’, forze islamiste più o meno moderate conquistavano (con successive alterne fortune) la maggioranza dei seggi nel parlamento egiziano, tunisino, e marocchino, mentre in Algeria l’Alleanza Verde (una coalizione elettorale di tre partiti islamisti) doveva accontentarsi di un misero 6 %. Cosa spiega questo declino nel voto per gli islamisti in Algeria? Perché il paese che per primo ha visto una larga affermazione elettorale dell’Islam politico è poi diventato così restio ai suoi richiami? Per rispondere a questi interrogativi, sembra per prima cosa importante richiamare la parabola politica del FIS.
Le grandi proteste dell’ottobre 1988, violentemente represse dall’intervento dell’esercito e costate centinaia di morti, aprirono comunque – e per la sorpresa di molti – un profondo processo di liberalizzazione politica in Algeria. Una nuova Costituzione fu rapidamente approvata nel febbraio 1989; la libertà di espressione, di stampa, e di organizzazione furono garantite; ed il monopolio politico dello storico partito di regime, il Front de Libération National (FLN), abolito. Nei mesi successivi ben trentatré partiti vennero formalmente riconosciuti, preparando il terreno per le prime elezioni realmente competitive della storia algerina. Tra le forze che ottennero riconoscimento legale vi era anche il FIS, un fronte largo di gruppi e gruppuscoli islamisti emersi nel paese a partire dagli anni settanta e caratterizzati da grande eterogeneità. In particolare, il FIS era composto da un’ala ‘intellettuale’, personificata da Abbassi Madani, professore universitario che aveva ottenuto un dottorato dall’università di Londra nei primi anni settanta e poteva vantare l’onorifica partecipazione nella guerra di liberazione; e da un’ala ‘giovanile’, rappresentata da Ali Belhadj, giovane imam nel quartiere popolare di Bab el Oued ad Algeri.
Molto è stato discusso in merito alle ragioni che portarono il Presidente Chadli Benjedid ad accettare il riconoscimento formale del FIS, nonostante la Costituzione proibisse partiti esplicitamente religiosi ed etnici. Il suo era probabilmente un tentativo di indebolire gli apparati burocratici interni al FLN (contrari ai suoi tentativi di liberalizzare la sfera economica) attraverso una moltiplicazione delle forze politiche che potevano avere accesso al Parlamento. Tuttavia, la pericolosità della sua scommessa divenne rapidamente chiara. Il FIS emerse infatti come il principale canale attraverso il quale la frustrazione sociale, economica, e politica nei confronti di una piccola élite che aveva concentrato nelle proprie mani un’indicibile quantità di potere poteva finalmente trovare concreta espressione. Dai riots alle urne il passo fu quindi breve. Quando i voti delle elezioni comunali e regionali del giugno 1990 furono contati, un misto di meraviglia ed incredulità attraversò il paese, gelando le stanze del potere. Il FIS aveva raggranellato oltre 4,3 milioni di voti, doppiando il FLN e conquistando 853 consigli comunali sui circa 1500 in palio e 31 dei 48 consigli regionali del paese.
Come ampiamente noto, l’esperimento democratico in Algeria giunse a rapida conclusione nei primi giorni del gennaio 1992, quando i militari decisero di annullare il primo turno delle elezioni parlamentari svoltesi a dicembre, destituire il Presidente Chadli, e concentrare il potere in un direttorio da loro nominato. La ragione che spinse le forze armate ad agire in tale direzione fu certamente la grande affermazione degli islamisti nelle urne. Dei 430 seggi totali solamente 231 erano stati assegnati nel primo turno, ma il FIS ne aveva conquistati ben 188, avvicinandosi ad una maggioranza assoluta che senza dubbio avrebbe conquistato poche settimane più tardi nei ballottaggi. Uno scenario che i militari, abituati a guidare da dietro le quinte il paese, non potevano accettare. Nei successivi anni, tra gruppi islamisti e forze armate divampò così una lunga e sanguinosa guerra civile, costata secondo le ultime stime circa 200,000 vite e conclusasi ufficialmente solo nel 2002. Quando poi l’Algeria tornò sul finire degli anni novanta a svolgere regolari elezioni parlamentari, la forza degli islamisti non raggiunse più i precedenti livelli, toccando il suo minimo storico proprio in un contesto storico che vedeva l’Islam politico conquistare oltre il 70 percento dei seggi in Egitto, il 41 percento in Tunisia, e quasi il 30 percento in Marocco. Cosa era accaduto alle forze islamiste algerine?
La risposta a questo interrogativo si trova, a mio modo di vedere, in tre elementi. Per prima cosa non può in alcun modo essere sottovalutato il limitato grado di apertura e competitività che le elezioni in Algeria hanno avuto negli ultimi quindici anni. Nel tentativo di aumentare il proprio grado di legittimità, infatti, la giunta militare decise il ritorno a qualche grado di parlamentarismo nella seconda metà degli anni novanta. A partire dal 1997, le elezioni in Algeria sono così diventate regolari, ma certamente né free né fair. Attraverso la moltiplicazione dei partiti di opposizione, la cooptazione di alcuni di questi, il loro limitato accesso ai media, e la presenza di vere e proprie frodi elettorali, il regime è sempre riuscito a far uscire dalle urne il risultato voluto. Ovvero, una maggioranza dei seggi concentrati nei due partiti dell’establishment (il ‘vecchio’ FLN e il più recentemente creato Rassemblement National Démocratique (RND)).
In secondo luogo, mentre negli altri paesi nordafricani (la Libia è esclusa da questa analisi per la presenza di un intervento militare internazionale che ne ha alterato profondamente lo scenario politico interno) l’Islam politico ha trovato espressione in una precisa e ben riconoscibile forza partitica, l’Algeria è stata teatro di una straordinaria frammentazione nel campo islamista. In parte, questa era già emersa nel corso dell’esperimento democratico nei primi anni novanta. Nel tentativo infatti di attenuare la forza del FIS dopo il sorprendente successo di questo nel giugno del 1990, l’entourage di Chadli aveva – più o meno esplicitamente – favorito la costituzione di altri due partiti nel campo dell’Islam politico. Hamas, poi divenuto il Mouvement de la société pour la paix (MSP), diretto da Mahfoud Nannah, e il Mouvement de la Renaissance Islamique (MRI), guidato da Abdallah Djaballah e forte soprattutto nella zona di Constantine. Queste due forze avevano congiuntamente raggranellato il 7,5 % delle preferenze nel primo turno delle elezioni parlamentari del dicembre 1991, non riuscendo, comunque, a conquistare alcun seggio. Il ritorno ad elezioni legislative nel 1997 aveva poi segnato, anche grazie all’assenza del FIS (che rimaneva illegale), un loro discreto successo, con il MSP che conquistava quasi il 15 % delle preferenze ed il MRI che non giungeva lontano dal 9 %. Cinque anni più tardi, in un contesto di crescente competitività nel campo islamista, visto il formarsi per iniziativa di Djaballah del Mouvement pour la Réforme Nationale (MRN), il supporto ottenuto dalle tre forze dell’Islam politico era sceso al 17 percento, per poi calare ancora cinque anni più tardi attorno al 15 percento. In un simile contesto, il MSP, il MRI, e il MRN hanno quindi deciso di dar vita, in vista delle elezioni del 2012, ad un’alleanza elettorale (definita ‘verde’), mentre Djaballah, deluso dalla torsione centrista del ‘suo’ MRN, fondava il Front de la Justice et du Développement (FJD). Il verdetto delle urne è stato però impietoso con l’Alliance de l’Algérie Verte ferma al 6 percento ed il FJD poco oltre il 3 %.
L’ultimo aspetto da considerare è quello meno tangibile, ma probabilmente anche il più interessante. Stiamo parlando infatti del fallimento delle forze islamiste nel rappresentare una contro-narrazione a quella proposta dal regime ed una seria e reale alternativa politica. In un certo senso, sembra quasi che la carta islamista – giocata dalle masse nel post-ottobre 1988 in funzione anti-regime e dalle conseguenze disastrose per il successivo sviluppo preso dagli eventi – non rientri più tra le opzioni che vengono considerate plausibili. Si badi bene, non si tratta qui di una lontananza ideologica o programmatica tra la popolazione ed i partiti islamisti. Dopo tutto, non si dovrebbe mai scordare che il FIS – una forza largamente pro-mercato e pro-iniziativa privata – riuscì ad avvantaggiarsi di proteste che erano animate da un forte rimpianto per l’epoca ‘socialista’ di Boumedienne, messa in soffitta dalle liberalizzazioni economiche di Chadli. Si tratta piuttosto della presenza di una cornice di senso e di un discorso pubblico generale che rende più probabile l’uscita da una crisi sociale ed economica in una direzione politica piuttosto che nelle altre. E dopo quanto successo negli anni novanta con la crudele guerra civile ed il supporto che il MSP ha costantemente accordato alla compagine governativa non sembra poi tanto strano che gli islamisti abbiano poca capacità di rappresentare una percorribile alternativa per un’Algeria che sembra sempre più vicina ad un nuovo punto di esplosione.
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