Islam: donne e cittadinanza al cuore di un riformismo possibile

Da Reset-Dialogues on Civilizations

L’ondata di liberalizzazione della primavera araba sembra oggi accompagnarsi alla vittoria politica dei gruppi islamisti che hanno saputo dimostrare la loro capacità di mobilitazione. Questa irruzione del religioso politico nello spazio pubblico non manca di preoccupare alcuni strati sociali e soprattutto le donne. In questo contesto il mio articolo si focalizzerà sul rapporto tra Islam e diritti delle donne e sulla sua capacità di integrare la cittadinanza femminile nel cuore del riformismo religioso.

L’Islam e la cittadinanza della donna

Nel dibattito attuale tra oriente e occidente, e in quello tra islamisti e laici, l’accento sull’Islam solleva una questione fondamentale: l’Islam tollera l’uguaglianza tra i sessi, può accettare la cittadinanza delle donne?

Le risposte a questa domanda materializzano spessp le paure più ancestrali, i fantasmi più deliranti. Talora il contenzioso tra Islam da una parte e cittadinanza delle donne dall’altra appare molto duro. Come tutte le tradizioni religiose, infatti, l’Islam si fa portatore di un messaggio di libertà e di fratellanza in nome di un dio che conferisce a ogni essere umano una dignità inalienabile. Allo stesso tempo, l’intera sharia islamica contribuisce alla preminenza del maschile.

Due discorsi si mescolano dunque tra loro: un discorso sull’uguaglianza e la fratellanza, sulla pari dignità tra uomo e donna nell’Islam, e un discorso sulla differenza che istituisce una disuguaglianza essenzialista tra uomo e donna e che, a dire il vero, completa altre due disuguaglianze essenzialiste, quella tra musulmani e non musulmani e quella tra l’uomo libero e lo schiavo.

Come superare questi paradossi? Come comprendere queste sottili connessioni? Questo articolo si dividerà in due parti: in un primo tempo cercheremo di mettere in rilievo gli accenni alla cittadinanza contenuti nell’Islam. E si tratterà di un ritorno al passato, di un’archeologia delle nostre rappresentazioni.

In un secondo tempo passeremo a evocare il fondamento religioso della disuguaglianza nell’Islam e la difficile costruzione della cittadinanza. Questo discorso sarà proiettato in avanti, verso il futuro, verso il progetto della piena cittadinanza delle donne in terra islamica all’indomani di una primavera araba così promettente.

Per comprendere bene il punto di vista islamico riguardo al ruolo rispettivo dell’uomo e della donna, è necessario porre la prospettiva musulmana nella sua dimensione metafisica. Il Corano considera l’essere umano come un’anima che incontra Dio in questa vita per potere accedere alla conoscenza, obbedire a Lui e guadagnare così l’accesso al paradiso e all’immortalità. Di conseguenza il Corano ritiene che l’uomo e la donna sono uguali davanti a Dio. Su questo terreno, infatti, li considera identici. Nella sura 4 (an nissa) versetto 1 Dio rivelò:

“Uomini, temete il vostro Signore che vi ha creati da una sola anima, e da questa anima ha creato la sua compagna, e da loro due ha tratto una moltitudine di uomini e donne”.

Questo principio di uguaglianza dei sessi si ritrova anche nella sura 49 (al houjourat) versetto 1:

O uomini, vi abbiamo creato da un uomo e da una donna, vi abbiamo divisi in popoli e tribù, affinché vi conosceste tra voi. Il più degno davanti a Dio è colui che più lo teme”.

Attraverso questi passaggi il Corano interpella tanto il credente quanto la credente, esortandoli a fare il bene per il quale saranno ricompensati, e a evitare il male per il quale saranno puniti, per mettere in rilievo un’etica e una morale ugualitarie. La donna è ricompensata o punita in funzione della sua fede o della sua incredulità, della sua virtù o del suo vizio, come viene citato nel Corano “nessuno porterà il fardello di un altro” (sura 6, al anààm, versetto 164).

Diversi punti significativi cristallizzano peraltro il contributo del Corano alla realizzazione di un nuovo ordine sociale che riconosce alla donna un status onorevole e che costruisce un abbozzo di cittadinanza della donna in seno alla città musulmana.
Tra questi punti si possono citare:

1)      la riabilitazione dell’immagine della donna:

Nella civiltà giudaico cristiana, il mito della caduta giustifica il diritto che gli uomini si sono arrogati di rendere le donne responsabili di tutti i loro mali, di tutte le loro debolezze. Simbolo del peccato, della sessualità e della morte, Eva sarà riscattata solo dall’apparizione della Vergine Maria, che rappresenta l’obbedienza, la purezza e la vita eterna. Il racconto coranico non demonizza Eva e nulla nel testo sacro accusa Eva di avere istigato Adamo ad assaggiare il frutto proibito. Eva non nasce dalla costola di Adamo ed è pari a lui di fronte alla tentazione della disobbedienza, la loro responsabilità è identica. Hanno commesso un errore, si sono pentiti e sono stati perdonati. L’Islam non conosce il peccato originale.

Ritroviamo questa riabilitazione dell’immagine della donna attraverso molteplici figure femminili archetipiche come quella della generosa Assia, sorella del faraone, che ha accolto Mosè, o quella della moglie di Ayub, la cui pazienza e la cui fede sono rimaste leggendarie. Anche Zuleika la seduttrice che cercò di far cadere in tentazione il profeta Giuseppe è rappresentata nel Corano sotto un aspetto umano che le aprirà la via del pentimento e della pace. Lungo tutta la narrazione coranica, donne pie, sagge e coraggiose come Maria, Anna, la madre di Maria, Agar, madre di Ismaele, Balkis, regina di Saba, hanno simbolizzato il Dovere e il Sacrificio.

2)      L’abolizione dell’infanticidio delle fanciulle:

Nell’Arabia preislamica, alcune tribù arabe praticavano l’infanticidio delle fanciulle in base alla semplice supposizione che potevano essere fatte prigioniere durante le guerre intertribali e causare quindi vergogna e disonore ai loro clan. Il Corano ha peraltro descritto bene questa attitudine misogina nella sura 16, l’Ape, versetto 58 e 59: “Quando si annuncia a uno di loro la nascita di una figlia nel suo focolare, il suo volto si adombra di colpo e manca poco che non esploda di rabbia! Non osa più mostrarsi alla gente tanto è afflitto da questo annuncio. Dovrà accettare la novità, nascondendo la sua vergogna, o dovrà seppellirla sotto terra? Quanto è meschino il loro giudizio”.

I versetti coranici che mettono fine a questa pratica furono rivelati sotto forma di decreti solenni che condannarono rigorosamente questi assassinii e istituirono il diritto alla vita come diritto inviolabile. E nella sura 81 l’Oscuramento (At-Takwir) possiamo leggere i versetti seguenti: “Quando alla fanciulla sepolta viva sarà chiesto per quale misfatto è stata uccisa”.

3)      L’istituzione di un nuovo ordine familiare:

Nella cultura preislamica e in quell’epoca di transizione tra il matriarcato e il patriarcato esistevano diversi tipi di sistemi familiari e differenti modi di ripartire e di qualificare la discendenza: il matrimonio di gruppo, la poliandria, la poligamia, eccetera. In questa diversità antropologica la poligamia era predominante e il Corano l’ha trattata in modo flessibile e graduale. Un primo versetto introduce alcuni limiti, lasciando agli uomini un’impressione di libertà di scelta:

“Sposate dunque le donne che saranno di vostro gradimento, siano due o tre o quattro; ma se temete di non essere giusti, prendetene una sola”. (Sura Le Donne, versetto 3).

Utilizzando una pedagogia progressiva, il Corano ha proceduto a una vera e propria rottura con l’ordine stabilito: ha istituito nuove norme sulla poligamia e ha limitato a quattro il numero delle spose. Inoltre, imponendo la condizione e la regola dell’equità, ha costretto l’uomo a una scelta molto più limitata.

Un altro versetto della sura delle Donne, il 129, ricorda che è impossibile assicurare un trattamento paritario a tutte le spose, e questo a prescindere dalla buona volontà del marito.

“Non potrete mai trattare in modo equo le vostre mogli se siete poligami, per quanto ne possiate avere il desiderio più vivo”.

4)      L’istituzione di un nuovo regime di successione a favore della donna:

Il Corano ha istituito il diritto della donna all’eredità e questo ha rivoluzionato gli antichi regimi di successione. Difatti, mentre nell’Arabia preislamica la donna non poteva aspirare alla successione e faceva parte dell’eredità in caso di decesso del marito, il Corano ha riconosciuto alla donna la sua qualità di erede, in quanto madre, figlia, sorella e sposa. Un primo versetto, il numero 7 della sura delle Donne, introduce questa nuova riforma:

“Agli eredi maschi è assegnata una determinata porzione di quello che hanno lasciato loro genitori e parenti; e anche alle donne è riservata una parte della successione dei loro genitori e parenti, qualunque sia la quantità”.

Questa riforma è confermata nella sura della Giovenca, dove possiamo leggere al versetto 180_181:

“In articolo di morte vi è prescritto, se lasciate un bene, di fare testamento a favore di vostro padre e vostra madre e dei vostri parenti nel modo che è riconosciuto più conveniente. Si tratta di un obbligo per coloro che temono Dio”.

Questo riconoscimento del diritto della donna al patrimonio familiare apre la strada al riconoscimento del suo nuovo status in seno alla città musulmana. Di fatto il Corano, permettendo alla donna di disporre interamente dei suoi beni, le ha accordato una personalità giuridica attraverso il regime di separazione dei beni.

5)      L’abolizione dell’antica pena della lapidazione:

Per chiarire la problematica della lapidazione occorre ricordare che nelle società antiche l’adulterio, in quanto violazione dell’appartenenza carnale esclusiva che definisce giuridicamente il consorzio coniugale, è sempre stato represso.

I rapporti tra una donna sposata e un altro uomo sono sempre stati riprovevoli perché apparivano come un’usurpazione su un diritto di proprietà del marito sulla moglie. È anche un oltraggio al capitale simbolico dell’uomo, al suo onore. Infine è un torto contro la famiglia nella quale la donna era stata integrata, spesso considerato come una violazione a un obbligo di purezza.

Nel Corano, prima fonte di legislazione, non si trova alcun versetto che menziona la lapidazione. Le pene da infliggere ai colpevoli variano in base alle circostanze dell’atto, così come allo stato matrimoniale degli amanti. Se i colpevoli sono sposati, le sanzioni coraniche sono le seguenti:

a) la flagellazione inflitta con 100 colpi di frusta (Sura La Luce, versetto 2)

b) la detenzione a vita o fino a una data imprecisata (Sura Le Donne, versetto 15)

c) la reprimenda fisica o morale e la disapprovazione sociale (Sura La Giovenca, versetto 16)

d) la procedura della maledizione liaan, quando un marito constata l’infedeltà di sua moglie ma non può fornire quattro testimoni oculari (Sura La Luce, versetti 6, 7, 8, 9).

D’altra parte l’Islam ha concesso alle donne alcuni diritti inalienabili tra i quali citeremo:

Il diritto al sapere e all’istruzione:
Il Corano raccomanda tanto all’uomo quanto alla donna di cercare di acquisire il sapere. La prima Sura 96, Al ‘Alaq (L’aderenza), conferma questa raccomandazione: Leggi, in nome del tuo Signore che ha creato, ha creato l’uomo da un grumo di sangue. Leggi, poiché il tuo Signore nobilissimo è colui che ha insegnato all’uomo ciò che non sapeva.

Il diritto al lavoro:
La donna ha il diritto di lavorare e di esercitare un’attività remunerata. Nel versetto 32, sura delle Donne, possiamo leggere: “Agli uomini tornerà una parte di ciò che si sono guadagnati e alle donne tornerà una parte di ciò che si sono guadagnate”.
Il versetto 124 conferma queste tesi: “Uomini o donne che fanno qualche opera pia e che sono credenti, saranno coloro che entreranno in Paradiso e non saranno toccati neppure da una fibra di dattero”.
Una delle spose del profeta, Zeineb bint Jarch, lavorava, conciava il cuoio e faceva l’elemosina. Per questo godeva di uno status particolare all’interno della sua comunità.

Il diritto alla proprietà:
La donna può disporre liberamente del suo denaro, delle sue proprietà e dei suoi averi nei limiti del lecito. Il Corano concede alla donna una parte dell’eredità lasciata dal padre, dal marito o dai fratelli e il marito non ha alcun diritto di tutela sul suo patrimonio.

I diritti matrimoniali:
La donna ha il diritto di scegliere il proprio marito liberamente. Nessuno le può imporre un matrimonio contro la sua volontà. Molte donne, come Razzia bint Jabeur e Assia bint Nooman, hanno rifiutato il Profeta Maometto e lui ha rispettato la loro volontà.
La sposa ha il diritto di essere sostentata dal marito, vale a dire che deve essere nutrita, vestita e alloggiata in modo appropriato al suo rango e alla sua classe sociale.

I diritti politici e civili:
In seno all’Islam la donna gode di tutti i diritti politici. Questo riconoscimento si basa sulla sura del Pentimento, versetto 71: “I credenti e le credenti sono amici gli uni degli altri. Pretendono ciò che è conveniente e proibiscono ciò che è riprovevole”.

Questa regola fondatrice ci consente di interpretare il Corano come un progetto femminista che accorda alla donna tutti i diritti di cittadinanza a pieno titolo. Alle origini dell’Islam i diritti politici concessi alle donne erano simili a quelli concessi all’uomo. La donna musulmana si è distinta nella direzione degli affari dello Stato, sia a livello della decisione politica, sia a quello della pianificazione strategica.

Venerata all’interno della sua tribù, la prima sposa del profeta gli ha saputo fornire tutto l’appoggio psicologico e tutto il sostegno logistico di cui lui aveva bisogno per diffondere la nuova religione della quale lei fu la prima adepta.

Khadija, madre dei credenti, e molte donne della tribù Quraysh sono divenute adepte della nuova religione anche quando era ancora segreta. Hanno partecipato alla lotta clandestina in territorio nemico. Alcune hanno abbracciato la nuova religione prima dei loro genitori, come Umm Habiba, la figlia di Abu Sufyan, e sono state perseguitate dalle loro stesse famiglie.

Dopo la migrazione a Medina e l’istituzione dello Stato musulmano, le donne giurarono fedeltà al Profeta al pari degli uomini. Il fatto che le donne partecipassero a questa forma di elezione indica diverse cose. Innanzitutto dimostra che la donna ha una personalità indipendente e non è una semplice subordinata dell’uomo: ella presta giuramento di fedeltà come lui. In secondo luogo, con il suo giuramento di fedeltà la donna si impegna a obbedire a Dio e al suo Profeta e su questo piano gli uomini e le donne sono uguali. In terzo luogo, dimostra che le donne prestano giuramento di fedeltà al profeta in base a due presupposti: da una parte in quanto inviato di Dio, dall’altra in quanto capo politico e militare.

In questa stessa prospettiva, le donne hanno partecipato al Jihad. Roubay bint Mouawwidh raccontava: “Noi partecipavamo alle campagne del Profeta. Portavamo l’acqua ai soldati, li servivamo e portavamo i morti e i feriti a Medina (riferito da al Bukhari)”.

Nessiba bint Kaab si batté al fianco del Profeta nella battaglia di Uhud e non lasciò la sciabola che dopo avere subito tre ferite. Il Profeta la teneva in grande stima e diceva di lei: merita più considerazione degli uomini.

Il profeta ha nominato Samara el Assadya Mohtasib (sindaco) della Mecca. Il califfo Omar ibn el Khattab offrì a Echiffa bent Salman lo stesso incarico a Medina.

I biografi del profeta e le raccolte della tradizione riferiscono il ruolo preponderante di un’altra personalità femminile: Umm Salama. Attivamente coinvolta nella cosa pubblica, Umm Salama accompagnava spesso il profeta durante le sue spedizioni militari, condivideva le sue preoccupazioni strategiche e svolgeva la funzione di consigliera politica in occasione di trattative spinose (episodio di Hudaybiyya).

Un’altra figura femminile, Aisha, la sposa adorata del profeta, ha avuto un ruolo determinante nella storia politica dell’Islam. Esperta di scienze politiche, perfetta conoscitrice delle strategie e delle tattiche militari, abituata alle procedure di persuasione e di negoziazione, Aisha ha partecipato alla gestione degli affari pubblici durante i due primi Califfati. Ha contribuito inoltre alla destabilizzazione del terzo califfo Othman ibn Affan rifiutando di sostenerlo pubblicamente e di prestargli soccorso nel momento in cui era assediato dai suoi oppositori.

Aisha organizzò con astuzia un’opposizione armata, che degenerò in una sanguinosa guerra civile: la Grande Discordia. La battaglia è conosciuta con il nome di Battaglia del Cammello, perché il combattimento più feroce ebbe luogo attorno al cammello che portava il baldacchino di Aisha.

Si noterà anche, con riferimento alla storia minore, che quando Omar ibn el Khattab, principe dei credenti, domandò la mano di Atika Bint Zaid, la donna pose come condizione del matrimonio la libertà di assistere alla preghiera comune alla moschea. A quell’epoca la moschea era, come un tempo l’agorà greca, un luogo comune di dibattito e di discussione pubblica. Dopo l’assassinio del Califfo Omar, il consiglio di Stato si riunì nella dimora di una donna compagna del profeta: Fatima bint Qais, dei Quraysh.

Questi episodi storici nei quali la donna musulmana ha partecipato alla gestione della città e ha contribuito alla genesi della politica islamica dimostrano che l’Islam non si oppone affatto ai diritti civili delle donne.

Illustrando questi frammenti della storia della donna nell’Islam e mettendo in rilievo questa memoria femminile, ci si rende conto che essere musulmani oggi significa innanzitutto fierezza di riallacciarsi a un’immensa tradizione intellettuale e creatrice. Ma significa anche tristezza legata al sentimento di declino, di malessere, di terribile fallimento. Come non essere impressionati dalla differenza tra teoria e pratica, tra la posizione della donna alle origini dell’Islam e la sua situazione attuale in alcune regioni?

Lo sviluppo di certi movimenti integralisti ha generato involuzioni che hanno rimesso in discussione i diritti laici, ma anche alcuni diritti garantiti dall’Islam. Ovunque il rispetto dell’Islam e l’osservanza delle regole delle Sharia sono invocati per giustificare la discriminazione e gli attacchi ai diritti delle donne. La politicizzazione della norma religiosa e il discorso islamista conservatore giocano un ruolo importante nella resistenza all’evoluzione della cittadinanza in generale e dello status della donna in particolare. La religione continua a essere utilizzata per giustificare concezioni e pratiche che costituiscono un oltraggio alla dignità della donna e una negazione dei suoi diritti come essere umano.

I meccanismi della non cittadinanza

L’origine e la fonte di tutte le discriminazioni che ancora vengono invocate nel nome dell’Islam è il rifiuto dell’uguaglianza tra uomini e donne. Tale rifiuto è giustificato da un versetto coranico che stabilisce: “Gli uomini sono superiori a loro (vale a dire alle donne)” (Sura 2 versetto 228). Questo versetto incarna ciò che Virginia Woolf chiama “il potere ipnotico della dominazione”.

In effetti questa predominanza maschile che è diventata inerente all’Islam può essere osservata a tre livelli: a livello delle istituzioni, a livello delle rappresentazioni e a quello delle legittimazioni.

A livello delle istituzioni possiamo notare una segnatura maschile di alcuni uffici religiosi. Così i rituali religiosi, almeno quelli pubblici, mettono in scena il maschile e designano l’uomo come mediatore del sacro. A questo livello rimarchiamo che il tentativo di Amina Wadud, docente di Studi Islamici all’università del Commonwealth della Virginia, di femminilizzare alcuni uffici religiosi e di guidare una preghiera mista a New York il 18 marzo 2005 è stato accolto molto negativamente negli ambienti musulmani.

Sul piano delle rappresentazioni assistiamo a un predominio della cultura patriarcale a spese della parola innovatrice. Decine di “Hadith” misogini, dalle origini dubbie, come ha dimostrato Fatma Mernissi nel suo libro Le donne del profeta. La condizione femminile nell’islam, stigmatizzano la donna e la rendono responsabile di tutti i mali. (Gli Hadith, parole e discorsi del profeta, sono diventati un secondo riferimento per i musulmani; ma la loro proliferazione nei secoli successivi alla morte del Profeta pone la questione della loro autenticità, questione che ha attirato l’attenzione di numerosi eruditi dell’Islam sin dai tempi dell’imam Ashaafi’i nell’anno 204 dell’Egira).

A livello della legittimazione, se come ha detto Pierre Bourdieu nei suoi scritti sulla dominazione maschile “la forza dell’ordine maschile è dovuta al fatto di apparire come una giustificazione”, ciò non vale nel caso dell’Islam. Ci sono due tipi di legittimazione che sono frequentemente invocati.

Il primo è il riferimento alla natura: c’è una natura femminile, una disposizione naturale alla maternità, all’affettività, all’irrazionale.

Ciò consente di presentare come naturale l’esclusione di alcuni diritti e di certe funzioni riservate agli uomini. Senza dubbio questa invocazione della natura, come hanno già dimostrato gli studi di antropologia, di psicologia culturale e tutta la letteratura di genere, è una costruzione sociale, ideologica, una naturalizzazione del sociale.

La seconda legittimazione è la più pericolosa, ed è il riferimento ai testi sacri e alle Scritture. La negazione della cittadinanza delle donne, per tutti i conservatori musulmani, si basa sulla trasformazione delle norme religiose in regole giuridiche per farne il fondamento di una legge intangibile.

Questa mistificazione utilizza un meccanismo dogmatico: è la decisione arbitraria di tenere conto nell’esegesi e nell’interpretazione degli enunciati normativi soltanto “dell’accettazione generale dei termini utilizzati indipendentemente dal contesto”.

Quello che conta, dicono gli esegeti conservatori, è “l’accettazione generale del termine e non la specificità della causa”. Ciò significa che questi enunciati, che concernono la poligamia, lo Hijab, il divieto per la donna musulmana di sposare un non musulmano, il diritto del marito di correggere e di picchiare sua moglie devono essere considerati come principi di portata generale, atemporale, universale, valida per tutte le situazioni, anche se si sa perfettamente che traggono origine da una causalità, che i Fuqaha chiamano “asbab ennouzoul” e che consente di relativizzare e di avere così un approccio storicistico al testo sacro. Questo meccanismo ci ha impedito di avere una lettura “vettoriale”, secondo i termini del pensatore tunisino Mohamed Talbi che, al di là della lettera e della congiuntura, cerca l’intenzione del Legislatore, Dio in questo caso, per potervi meglio aderire.

Le osservazioni dimostrano la difficile costruzione della cittadinanza delle donne nell’Islam. Ciononostante, sotto la spinta della modernità e parallelamente alle trasformazioni che inficiano lo status delle donne, l’accesso di queste ultime alla cultura teologica universitaria costituisce un importante fattore di rinnovamento. La Zaytuna, dove oltre il 60 per cento degli studenti sono donne, opera per sconfiggere i pregiudizi sessisti, gli stereotipi misogini e per generare un nuovo sguardo sull’altro. La scuola di teologia femminista e “l’Islam femminista” procedono alla critica del linguaggio religioso e dei suoi presupposti androcentrici e pongono il problema dell’interpretazione dei testi. La loro azione per decostruire la disuguaglianza si divide in diversi momenti essenziali.

Innanzitutto si tratta di riformulare la cittadinanza dal punto di vista del genere e di mostrare la necessità di concepire le lotte per i diritti delle donne come lotte per la cittadinanza, che riguardano l’insieme della società e non semplicemente gli “interessi di una minoranza”.

In secondo luogo va ridefinita la separazione pubblico/privato, quel divario che pone fisicamente le donne e gli uomini in sfere reciprocamente esclusive e determina anche l’attenzione accordata ai diversi interessi e bisogni. Da molto tempo le soluzioni pubbliche e/o politiche eludono i problemi familiari, domestici e sessuali. Per contrastare l’idea che i problemi privati esulano dal quadro della politica, le femministe affermano che le questioni relative alla sessualità, alla riproduzione e ai “torti privati” come la violenza domestica reclamano un’attenzione pubblica.

Occorre decifrare le tracce della storia dimenticata, occultata e censurata delle donne nell’Islam, degli studiosi, delle Fuqaha eccetera. Occorre portare alla luce i conflitti di interpretazione per superare le letture letteraliste che cancellano la storia. Occorre diffondere e incoraggiare la trasmissione di questo sapere femminista. Infine occorre superare le divergenze tra femministe laiche e islamiche e lavorare per coinvolgere nuove generazioni di donne musulmane.

La cittadinanza delle donne è una garanzia dei diritti umani e un contributo alla democrazia. La sua negazione non è soltanto una violazione dei diritti umani, è anche una scommessa suicida per l’avvenire.

Secondo il Rapporto arabo sullo sviluppo umano 2002, infatti, il confronto dei fattori di sviluppo in uno studio effettuato su 192 paesi indica che il peso del capitale naturale, come la ricchezza del sottosuolo o la pluviometria, non supera il 20 per cento, quello del capitale materiale, infrastrutture, edifici, macchine, conta per il 16 per cento mentre il fattore che gioca il ruolo più importante, il 64 per cento, è il capitale umano e sociale. A essere determinante è la compiutezza dell’individuo che gode della sua piena cittadinanza.

Traduzione di Francesca Gnetti

Iqbal al Gharbi ha presentato una versione precedente di questo articolo in occasione del convegno “Pour un lexique du dialogue: Les promesses de la démocratie entre réformisme civil et réformisme religieux” organizzato da Reset-DoC a Tunisi il 25 giugno 2012. Vai alla pagina del convegno

Iqbal al Gharbi è professore di Psicologia e Scienze dell’Educazione presso l’Istituto di Scienze Religiose dell’Università di Zeytuna a Tunisi

BIBLIOGRAFIA

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Immagine: Ritratto di donna persiana su ceramica, epoca safavide (1501-1736), Museo di Resa Abbassi, Teheran

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