Cosa porta giovani ragazze e ragazzi europei alla fascinazione per il jihad e verso la radicalizzazione? Cosa li spinge a farsi reclutare tra le fila dei combattenti dell’Isis? Un tema delicato e di grande attualità affrontato anche dal cinema. Di seguito vi proponiamo l’analisi di due film – uno francese, l’altro olandese – dedicati al tema e con tre ragazze come protagoniste:
“Layla M.” di Mijke De Jong (2016, Paesi Bassi)
di Federica Zoja
Inclusione, radicalismo, integrazione, islamismo politico, multiculturalismo. C’è tutto questo nella pellicola “Layla M.” (2016, regia dell’olandese Mijke De Jong, produzione Topkapi), non ancora distribuita in Italia ma accolta con entusiasmo, fra gli altri, ai festival di Toronto e Philadelphia.
Interpretato dalla giovane Nora el-Koussour, fresca di diploma presso la scuola di Arte drammatica di Rotterdam, la vicenda è innanzitutto un “roman d’apprentissage”, ma non solo.
Layla è una 18enne in cerca di se stessa e in contrapposizione con i propri riferimenti affettivi, di cui non condivide il modo di vivere: nata ad Amsterdam da genitori marocchini, non dovrebbe avere nulla di cui lamentarsi, almeno agli occhi dello spettatore che ancora non la conosce. La famiglia è benestante e integrata nel tessuto sociale olandese. Layla e il fratello Youn studiano, fanno sport, frequentano i coetanei, hanno la fortuna di guardare al futuro con la leggerezza di chi può scegliere.
Eppure Layla è arrabbiata. Ribolle di una furia che ha radice in quella terra di mezzo in cui si sente confinata: non abbastanza olandese per gli olandesi – lei, velata con l’hijab, percepisce nella vita quotidiana atteggiamenti razzisti e discriminatori che invece Youn non sente (eppure presto taglierà la barba, coltivata esclusivamente per amore della sorella, in modo da non essere più identificato come musulmano radicale) – e non abbastanza marocchina perché lontana da quei Paesi arabi in cui sogna di trasferirsi.
Per saperne di più, con la foga di una teenager qualsiasi, Layla “divora” tutto quanto il web le può fornire: video di predicatori radicali, forum in cui si discute di Palestina e Siria, immagini di civili inermi dilaniati da bombe occidentali, lezioni di arabo classico coranico. Un mix letale, non filtrato, potentissimo per fascino.
Intanto, il suo Paese di adozione è alle prese con il rischio terrorismo e tiene d’occhio i giovani musulmani che manifestano tendenze radicali: è in questo braccio di ferro con lo Stato che Layla, diventata potenzialmente “pericolosa”, sente finalmente di appartenere a un gruppo. Il suo linguaggio si trasforma: sempre più spesso, nelle liti familiari, un nuovo “noi” (noi arabi, noi musulmani veri, noi bistrattati e discriminati, noi che non abbiamo niente a che fare con questa terra) si scontra con il “voi” (voi che avete rinnegato le vostre radici e la vostra fede, voi che non capite l’inganno e state perdendo la strada).
Il padre di Layla avverte la minaccia: anche lui è un musulmano praticante, ma la ragazza è sviata nel suo cammino di credente da interpretazioni parziali, irragionevoli. «Smettila di recitare sure, devi prendere il Corano nel suo insieme!», le urla un giorno a tavola.
La madre, invece, opta per un approccio più morbido, cercando di mantenere un canale di comunicazione aperto.
Il problema è che nessuno – neanche l’amato fratello Youn – riesce a farsi ascoltare. Chi ha preso sotto braccio Layla nella sua ricerca di identità è più “attraente”: le offre verità assolute, scogli a cui aggrapparsi senza discutere, risposte nette ai quesiti della vita.
Singolare la rappresentazione del mondo scolastico, una gigantesca fabbrica di esami e selezioni, del tutto disinteressato all’individualità degli studenti.
Così, alla ricerca di un “vestito” tutto personale da indossare, la ragazza dai lunghi capelli neri finisce per coprirsi sempre di più, strato dopo strato, e per passare dal gioco del jihad scimmiottato nei Paesi bassi (dove comunque, pure alle riunioni salafite si reca in tutta libertà in bicicletta) a quello combattutto in Medio Oriente.
Il Caronte della situazione è Abdullah, prima compagno di preghiera nell’appartamento di un “iniziato” più anziano (Zine, che presto svanirà nel nulla perché braccato dalla polizia per la sua attività di reclutatore di combattenti, ndr), poi suo sposo nel nome di Allah.
La fuga d’amore si rivela quasi subito alienazione: Layla e Abdul seguono l’itinerario da lui fissato in modo unilaterale, attraverso i campi di addestramento militare nelle Ardenne fino alla periferia di una città belga. Poi, la partenza per la Giordania, dove solo una breve parentesi sembra dare senso alle domande di Layla: il volontariato in un campo profughi di confine risponde alla necessità della ragazza di fare del bene, di dedicare la propria vita agli altri, di mettere in pratica gli insegnamenti del Profeta.
Ma Abdul è ormai su un’altra strada: a lui non basta l’attivismo, né politico né sociale; e per questo è preda facile di Zine, effettivamente reclutatore di combattenti e anche di shuhada’ (martiri). Il «demonio che ha rovinato tutto», secondo Layla, infine consapevole.
«Tornare a casa» si rivela il primo pensiero della ragazza quando il marito le dice addio prima di immolarsi in un attentato. E così farà la ragazza.
A questo punto, però, tocca a noi spettatori–cittadini europei trarre conseguenze ed elaborare riflessioni.
Arrestata all’aeroporto olandese, Layla piange ma non dice niente alla polizia che le rivolge domande sulle sue attività in Medio Oriente: non è dato sapere quanto sia ancora contigua all’ideologia che l’ha sedotta e stravolta negli ultimi mesi. La sua omertà la dice lunga sulla complessità di un eventuale processo di deradicalizzazione.
Ammesso però che sia pentita, che cosa si aspetta da quella società occidentale prima rinnegata e infine di nuovo desiderata?
«Un po’ tardi per piangere..», dice l’agente che la sta interrogando. La sua è l’ultima battuta di tutto il film.
Per i centinaia di Abdul partiti per i fronti mediorientali e mai più tornati è ormai troppo tardi, ma per gli altri trapezisti del multiculturalismo, seconde e terze generazioni di migranti in cammino verso la piena cittadinanza europea, tutte le possibilità sono ancora aperte.
“Le ciel attendra” di Marie-Castille Mention-Schaar (2016, Francia)
di Anna Tito
È davvero coraggioso, dal tema scottante e attualissimo il film di Marie-Castille Mention-Schaar Le ciel attendra [Il cielo aspetterà], presentato al Rendez Vous Film Festival che si svolge dal 5 al 9 aprile a Roma: un film dedicato al reclutamento di due “francesissime” adolescenti da parte degli agenti del Califfato islamico. Pensato all’indomani dei massacri del 13 novembre 2015 a Parigi, la regista lo definisce un “film d’urgenza, nato da un istinto, una pulsione”. Prima ancora che uscisse nelle sale, il 5 ottobre scorso, il ministro dell’istruzione Najat Vallaud-Belkacem ha raccomandato il lungometraggio (105’) agli insegnanti, in quanto “strumento pedagogico” di contrasto e prevenzione del fenomeno.
La storia, tragica e di bruciante attualità, verte sul percorso di due ragazze appartenenti alla classe media e arruolate attraverso facebook o più in generale tramite social media dai fondamentalisti islamici, con l’inevitabile dramma che si apre nelle loro famiglie. Sonia e Mélanie hanno una vita agiata e in apparenza serena: scuola, amici, divertimenti, libri, genitori attenti e amorevoli. Ma qualcosa si incrina in loro e ne consegue una ribellione – contro il loro ambiente, le istituzioni, la Francia, il mondo occidentale – che le famiglie non riescono a intercettare, vivendo con profondo smarrimento la radicalizzazione di cui non avevano mai avuto sentore. Le ragazze ricercano un paradiso che il radicalismo islamico offre loro insieme a un percorso di follia, rivoluzione, utopia.
Dopo Les héritiers [proiettato in Italia con il titolo Una volta nella vita] del 2014, la regista torna sul tema degli adolescenti ribelli sotto la scottante angolatura del processo di radicalizzazione dei giovani francesi. Entrambe le protagoniste, Noémie Merlant (Sonia) e Naomi Amarger (Mélanie) – già interpreti di Les héritiers – vengono a confermare il loro talento e si calano con molta naturalezza nei panni di queste fanciulle tormentate che si lasciano reclutare nell’organizzazione dello Stato islamico, senza avere mai frequentato in precedenza né moschee né predicatori.
Tutto ha inizio in una periferia parigina all’alba di un giorno qualsiasi, quando la polizia fa irruzione nella villetta di Catherine (Sandrine Bonnaire) e Samir (Zinedine Soualem), ateo di origine maghrebina, per arrestare Sonia, che si apprestava a raggiungere il jihad in Siria. I genitori vengono a sapere, increduli, che la figlia stava per commettere un attentato. Ha inizio allora la loro lunga e dolorosa lotta contro la “stregoneria”, che si era impossessata della ragazza convincendola che il jihad avrebbe protetto la sua famiglia da un mondo catapultato verso l’autodistruzione e garantire così, con il suo sacrificio, un posto in paradiso ai suoi cari. Privata di ogni mezzo di comunicazione, rabbiosa e violenta, Sonia arriva a rubare un cellulare per visionare nuovamente un video islamico.
In una zona opposta della città, altrettanto periferica, Mélanie sedicenne senza storia, cresciuta dalla madre divorziata Sylvie (Clotilde Courau), trascorre le sue giornate fra la scuola, gli amici, le lezioni di violoncello e il volontariato. Finché non inizia a chattare con un “principe”, agente del Califfato, che non conosce ma che trova le parole di cui evidentemente la ragazza avvertiva il bisogno, tanto che riesce a farle il lavaggio del cervello: prigioniera dell’amore per il “principe” e priva di qualsiasi pensiero autonomo, si sente ormai pronta a tutto. Anche in questo caso, devastati dai sensi di colpa per non essersi accorti di nulla, i parenti assistono sgomenti alla metamorfosi della ragazza. Mélanie, che qualche settimana prima si esercitava al violoncello sulle note di Bach, sotto il letto nasconde il niqab e il tappetino e si collega a filmati di leoni che uccidono degli animali per nutrire il branco, metafora che viene ad avvalorare la necessità della morte dell’altro.
Come ci si disintossica da una droga, Sonia si avvia lentamente verso la guarigione, mentre al contrario Mélanie sprofonda inesorabilmente verso l’intossicazione senza ritorno. Partirà per il Califfato e non se ne saprà più nulla, mentre Sonia torna alla ragione: per lei quel paradiso promesso dopo il martirio e nuove stragi, quel cielo a cui si approda dopo l’orrore, può attendere. Di qui il titolo del film.
La sceneggiatura – di cui è coautrice la stessa Marie-Castille Mention-Schaar insieme a Émilie Frèche – si basa sui racconti delle jihadiste pentite fuggite da Raqqa, dei responsabili delle associazioni che si adoperano per contrastare il reclutamento dei giovani da parte dell’organizzazione dello Stato islamico, nonché delle famiglie colpite dal fenomeno. Ha contribuito non poco Dounia Bouzar, esperta del cosiddetto processo di “deradicalizzazione”: quest’ultima interpreta nel film in maniera magistrale il proprio ruolo, quello di un’antropologa responsabile di un Centro di prevenzione delle derive settarie legate all’Islam (il CPDSI), struttura che ha diretto fino a pochi mesi orsono e volta al “dereclutamento”. Ha autorizzato le riprese di scene reali, da documentario, che vedono a confronto fra loro genitori sgomenti e adolescenti convertiti.
La regista ha voluto per protagoniste due ragazze perché ha ritenuto più misterioso il fenomeno dell’arruolamento femminile. E destinando il suo film essenzialmente a un pubblico di adolescenti, ha scelto di fermarsi prima di mettere in scena l’elemento più raccapricciante delle iniziative dei radicalizzati: l’adesione alla barbarie. Intende dissipare una credenza molto diffusa, ovvero che cadono nelle grinfie dei procacciatori dell’Isis quasi esclusivamente i soggetti deboli, emarginati e residenti in quartieri degradati.
Le ciel attendra ci permette di scoprire tutti i trucchi utilizzati – specie via Internet – per arruolare i giovani che sono alla ricerca di un ideale e che però ben poco conoscono dell’Islam: se ne trova conferma nella scena in cui Mélanie, convertita, si sente praticante migliore della sua amica musulmana la quale, seppure velata anch’essa, predica un Islam fondato sulla spiritualità e la tolleranza: “Per Allah, la maniera in cui preghi conta meno di quanto senti nel cuore”.
Pur alternando scene scioccanti, dure, come quella in cui il padre di Sonia la priva della sua intimità anche nella stanza da bagno per evitare che preghi ad altre di pura tenerezza in cui si assiste ai ripetuti, protettivi abbracci materni, Marie-Castille Mention-Schaar ci propone un film sull’amore, quello dei genitori spesso incapaci di comprendere i segnali della crisi, e poi di liberare i figli dai messaggi che la rete inserisce con prepotenza nelle loro menti stravolgendone il desiderio di giustizia e la necessità di ribellione.
La premiazione del film avverrà il 4 maggio durante la seconda edizione del Festival dei Diritti Umani alla Triennale di Milano