Iraq, il folle “califfato” di Al Baghdadi
che i musulmani non possono accettare

Da Reset-Dialogues on Civilizations

L’Iraq come stato unitario ormai non esiste più. Il Nord curdo è incamminato verso un’autonomia sempre più ampia che prima o poi si trasformerà in indipendenza esplicita; il Sud sciita finirà per gravitare sempre più accentuatamente verso l’Iran; il centro sunnita ospita il neonato sedicente “califfato” proclamato dall’ISIS, l’organizzazione jihadista-qaidista che mira a una riscrittura del quadro politico del Levante. Un altrimenti poco noto personaggio, Abu Bakr al-Baghdadi, si è proclamato “califfo” di questo preteso nuovo stato sunnita.

Il termine “califfo” (khalifa) significa letteralmente “vicario” o “sostituto”. È utilizzato due volte nel Corano, la prima in riferimento ad Adamo (Q. 2:30), la seconda in riferimento a Davide (Q. 38:26). In entrambi i casi si parla dei due patriarchi come dei “vicari” di Dio sulla Terra, soprattutto per quanto attiene Adamo, padre del genere umano; in nessuno dei due casi tuttavia l’intento è esplicitamente politico. Il termine califfo ha assunto una valenza politica quando si è trattato di sostituire il Profeta defunto nelle sue funzioni di capo della comunità musulmana (le funzioni religiose di messaggero divino erano evidentemente morte con lui).

Il califfato evoca non solo l’epoca d’oro dell’Islam, quando questa civiltà era in rapida espansione e diffondeva una fulgida luce civile e di pensiero, ma evoca soprattutto l’unità della Comunità musulmana (umma), il privilegio di essere stata scelta e guidata da Dio. Si tratta di un vero e proprio mito, di cui il califfato è stato tradizionalmente il simbolo. Soprattutto il tempo dei primi quattro successori del Profeta Muhammad (morto nel 632), cioè Abu Bakr (r. 632-634), ‘Umar (r. 634-644), ‘Uthman (r. 644-656) e ‘Ali (r. 656-661), i cosiddetti “califfi ben guidati” (khulafa’ rashidun), è considerato dai sunniti come il tempo ineguagliabile della grandezza e della perfezione dell’Islam, per cui cercare di riprodurlo ha il senso di riprodurre le circostanze eccezionali del prevalere dell’Islam come religione, come sistema politico e come cultura. Vero è che le dinastie succedutesi dopo i “califfi ben guidati”, cioè gli Omayyadi di Damasco (r. 661-750) e gli Abbasidi di Baghdad (r. 750-1258), hanno rappresentato un arretramento dell’ideale e hanno vissuto una progressiva decadenza. Ma la mitologia del califfato è sopravvissuta alle tempeste della storia.

Tuttavia, dal punto di vista del pensiero politico, la teorizzazione del califfato è avvenuta tardivamente rispetto all’evolversi dell’istituzione. I due autori che hanno costituito le pietre miliari, insieme ad altri pensatori che non è il caso di ricordare qui, sono Ibn Hanbal (m. 855) e al-Mawardi (m. 1058). Il primo è il teorizzatore o forse meglio il sistematizzatore dell’utopia retrospettiva dell’eccellenza e della precedenza. Secondo questa concezione utopica, l’epoca dei califfi ben guidati è stata appunto quella della perfezione dell’Islam, il modello cui rivolgersi per costruire il futuro della politica; e inoltre i califfi ben guidati si sono succeduti in ordine di eccellenza e di perfezione morale, per cui Abu Bakr era migliore di ‘Umar e così via (questa idea è respinta dagli sciiti secondo i quali il migliore era ‘Ali ed ‘Ali avrebbe dovuto diventare califfo del Profeta immediatamente dopo la morte di Muhammad).

Dal canto suo, al-Mawardi è stato il primo sistematico teorizzatore della dottrina del califfato sunnita nel celebre Al-Ahkam al-Sultaniyya (Le istituzioni del potere). Le dottrine di al-Mawardi rappresentano tuttora la più compiuta delineazione della teoria e si fondano sui seguenti capisaldi: 1) il califfo deve essere maschio, libero, pubere, sano di corpo e di mente; 2) deve essere qurayshita cioè appartenere alla tribù del Profeta Muhammad; 3) deve essere dotto in scienze religiose, deve insomma essere un ‘ulema, in grado di emettere pareri giuridici e religiosi; 4) deve saper guidare gli eserciti in battaglia; 5) deve essere eletto per libera scelta della comunità (ikhtiyar) attraverso i suoi rappresentanti che sono poi gli stessi ‘ulema.

In età contemporanea la teorizzazione del califfato è stata ripresa e rinnovata dal siro-egiziano Rashid Rida (1865-1935) che nel 1922 ha pubblicato il Califfato o imamato supremo (Al-Khilafa aw al-imama al-‘uzmà). Il libro anticipava di poco l’abolizione del califfato ottomano, l’ultimo sopravvissuto nel mondo islamico, da parte di Mustafa Kemal Ataturk. Rida recuperava alcuni princìpi classici, come l’origine qurayshita del califfo e la sua expertise in scienze religiose, ma li inseriva nell’orizzonte di una profonda trasformazione del pensiero politico islamista in reazione alla modernità. Dopo Ridà, la rivendicazione del califfato è diventata un leit-motiv delle organizzazioni di islamismo politico, a partire dai Fratelli Musulmani, nati in Egitto nel 1928 per opera di Hasan al-Banna (1906-1949). In ogni caso, si è trattato sempre di una rivendicazione universalista, trans-nazionale, che mirava a una composizione pacifica delle variegate anime del mondo islamico.

Questa necessaria ricostruzione storica dimostra in maniera evidente che le pretese al califfato del jihadista Abu Bakr al-Baghdadi sono largamente illegittime e infondate. Non solo non è né qurayshita né un ‘ulema, non solo non è stato eletto dalla libera scelta della comunità ricevendo l’approvazione e il giuramento di fedeltà (bayʻa) del popolo, ma soprattutto il suo obiettivo non è il ricompattamento universalistico della umma, ma la sua lacerazione settaria. I jihadisti contemporanei, infatti, aspirano a scatenare una fitna interna alla comunità, un “dissenso” o meglio “discordia”, che consenta loro di fare piazza pulita dei loro nemici, di imporre la loro visione integralista dell’Islam, di condannare come peccatori e anti-musulmani tutti coloro che non ne condividono le idee.

Da questo punto di vista è ovvio che la maggioranza dell’opinione pubblica sunnita, così come – e questo è più importante – la maggioranza degli ‘ulema sunniti, guardi con sospetto, o addirittura con aperta ostilità, alle pretese di Abu Bakr al-Baghdadi e dell’ISIS. D’altro canto, è altrettanto ovvio che i jihadisti cerchino di reprimere e di conculcare i diritti (delle donne), i cosiddetti falsi musulmani (tutti quelli che non la pensano come loro), le minoranze (gli sciiti – la questione dei cristiani, sebbene mediatica, è marginale nel contesto locale). La fitna, la discordia e il caos che le organizzazioni jihadiste progettano di diffondere nel Levante, si pone un passo avanti della strategia dello scomparso Bin Laden. Il suo jihadismo pretendeva di unire sotto la bandiera del Profeta tutti i sinceri musulmani nemici dell’Occidente sia pure attraverso il terrorismo. La strategia dell’ISIS è di gettare il Levante nel caos per destabilizzare gli stati e le monarchie e così favorire una presa del potere violenta a prescindere dal consenso comunitario.

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Nell’immagine: Il leader dell’ISIS Abu Bakr Al Baghdadi

  1. Affermare come si fa in questo ben informato e preciso articolo che la questione dei cristiani sia marginale e mediatica (nel contesto locale, per carità) è però una mezza verità detta in modo abbastanza ambiguo. Vale solo se partiamo dal presupposto inesplicito che ciò che è centrale nella vita politica di una comunità coincida con le sue componenti più robuste e capaci di giocare un ruolo decisivo su un territorio. Vale solo se intendiamo la politica come rapporti di forza. Ovviamente partendo da questo presupposto non si può dire che la questione cristiana sia significativa, dato che gli assiri, i caldei, i siro-ortodossi e siro-cattolici sono stati ridotti in Iraq alla quasi totale estinzione dopo 17-18 secoli di presenza cospicua e influente in quelle terre. Ma ricordiamo ancora che fino al 2003 i cristiani erano in Iraq una minoranza più che rilevante? A mio avviso dunque liquidare la loro estinzione come “mediatica” mi sembra un lapsus da correggere. Stiamo parlando del più grande esodo di massa di cristiani dall’epoca del genocidio degli Armeni. Il punto è poi anche un altro. Insieme alla fine delle chiese cristiane in Iraq c’è il problema dell’immenso patrimonio d’arte, per non parlare dei manoscritti e dei libri a stampa conservati nelle biblioteche ecclesiastiche e monastiche del nord-Iraq, sulla cui sorte ora non si sa nulla di veramente certo. é notizia circolata ieri che il monastero di Mar Behnam, con tutto ciò che contiene, è caduto in mano jihadista. Questo non è un problema “marginale” o “mediatico”, perché coinvolge la preservazione di un patrimonio culturale di eccezionale rilevanza per la storia del Cristianesimo e delle relazioni tra Cristianesimo e Islam, ed è rilevante anche a livello locale, soprattutto nel lungo termine. la liquidazione delle minoranze impoverisce culturalmente proprio il tessuto di una società, inserendola in una spirale di marginalità e irrilevanza internazionale.

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