Da Reset-Dialogues on Civilizations
(Du Gwercan, Makhmur) Se l’inizio dell’avanzata verso Mosul può essere identificata con il primo movimento dell’esercito iracheno, allora qualcosa è ufficialmente cominciato il 24 marzo scorso. Al momento si tratta di un’avanzata di pochissimi chilometri dalla linea del fronte, supportata, anzi preceduta, dall’alto, dagli attacchi aerei americani, alla quale però ha già fatto anche seguito una ritirata, dopo la perdita di 4 uomini e il ferimento di altri trenta. Le truppe irachene, inizialmente in due battaglioni, erano state inviate nell’area di Makhmur, 80 km a sud est di Mosul, a metà febbraio, ma da allora, e fino alla fine di marzo, non hanno intrapreso nessuna azione offensiva; anzi, al contrario, sin da subito hanno subito un attacco dopo l’altro da parte dello Stato Islamico.
“Il problema principale – racconta il generale di brigata peshmerga ad Aliawa, Elme Hasan – è che i soldati sono stati inviati tutti insieme senza che la base fosse stata prima attrezzata anche per garantire una maggiore possibilità di controllo e di protezione. Pochi fra loro sono di origine curda e conoscono il territorio, la maggior parte arriva dal sud del paese, e ha grosse difficoltà persino a trovare il modo di raggiungere la famiglia nei giorni di licenza. E poi un altro errore è stato quello di concentrare uomini e mezzi nello stesso luogo, rendendoli facilmente bersaglio dei daesh, che oggi hanno la capacità di mappare il territorio dall’alto, grazie all’uso dei droni.”
Un lancio di razzi quasi quotidiano, soprattutto dal villaggio di Nasr, sei km senza intoppi in linea d’aria dalla base irachena, circa due dalla linea del fronte e dagli ultimi avamposti curdi di quel tratto di terra; diversi uomini infiltrati, a più riprese, fin dentro la sede del comando. La notte del 14 marzo quattro membri di daesh sono entrati eludendo i controlli e uno di loro ha fatto in tempo a farsi esplodere, provocando otto vittime fra i soldati. Altri due miliziani sono stati uccisi prima che potessero fare lo stesso, e il quarto è stato identificato solo l’indomani, ed è rimasto per ore in mezzo ai soldati. Lo schema di questi attacchi è sempre lo stesso: partono i razzi, e nella confusione qualcuno si infiltra. Il problema è che non c’è un vero sistema di controllo, e spesso gli stessi militari si trovano a sospettare, a ragione, del proprio collega.
Una presenza, quella irachena, che almeno inizialmente ha destabilizzato anche l’esercito curdo: prima lo Stato Islamico non aveva interesse ad attaccare con frequenza i peshmerga, come loro non avevano, né hanno ancora, interesse ad avanzare da soli nei villaggi sunniti, fuori dal Kurdistan, con un’accoglienza imprevedibile e senza un reale accordo con lo stato centrale per il futuro controllo del territorio. Ora, davanti ai continui attacchi, seppure soprattutto mirati contro gli iracheni, non si può certo fare finta di nulla, perché i razzi e gli attentatori suicidi sono comunque cresciuti nell’area sotto il controllo curdo. Quindi il problema diventa comune. Un altro aspetto sul quale ci sono stati giorni e giorni di incontri fra i vertici curdi e iracheni nella zona, insieme agli americani, riguarda il dopo Mosul: a chi spetterà cosa? Già solo Qayyarah, la prima città da liberare a ovest di Makhmur, 30 km circa sull’altra sponda del Tigri, non è un obiettivo congiunto nella road map della ripresa di Mosul. “Se fossimo noi ad entrare a Qayyarah – confidava i primi di marzo il comandante dell’area, Najat Ali Saleh – sicuramente non saremmo accolti come liberatori dalla popolazione civile, araba sunnita, che si aspetta l’arrivo dell’esercito iracheno e non dei curdi, che potrebbero un domani accampare qualche diritto a cui loro non vogliono rinunciare. È molto complicato qui, non si tratta solo di intervenire contro daesh, ma di capire come e chi deve farlo, anche in funzione di un prossimo futuro”.
Il 16 marzo un battaglione iracheno si è spostato dalla base centrale, e per la prima volta alcuni soldati si sono stanziati accanto ad una base peshmerga. Il loro comandante, che ha deciso di restare anonimo, ha raccontato che la collaborazione fra i due eserciti è imprescindibile. “Io sono curdo – dice – e per me è più facile rapportarmi con i peshmerga perché con molti di loro abbiamo lavorato insieme nel 2003, ma tanti soldati arrivano dal sud, non conoscono il territorio e avevano chiesto di non essere mandati qui, ma non sono stati ascoltati. È anche capitato che dopo la licenza alcuni di loro non siano mai rientrati. Non è una situazione facile.” Dopo quasi un mese, la stessa sera, una strategia comune ha cominciato a prendere forma con il primo pattugliamento notturno congiunto, con postazioni mobili di controllo.
Appena tre giorni dopo, intorno alle otto del mattino, un soldato americano è rimasto ucciso, e un altro gravemente ferito, nella base centrale irachena di Makhmur, a seguito di un attacco lanciato sempre da Nasr. Nel pomeriggio è arrivata la risposta americana, un attacco aereo ben più intenso di quelli fatti fino a quel momento. L’ultima settimana di marzo è cominciato l’attacco su Nasr e gli altri piccoli villaggi vicini, ma in pochi giorni la situazione non si è risolta a favore dell’esercito, che secondo una fonte peshmerga, oltre alle vittime e ai feriti, ha perso anche quattro mezzi blindati durante la ritirata.
Intanto la situazione sta peggiorando anche in città a Makhmur, ormai luogo di confine, dove approdano sempre più numerosi gli sfollati che in questi giorni sono riusciti a lasciare i villaggi controllati ancora dall’Isis: 132 persone sono arrivate la notte del primo aprile, altre 280 sono giunte quattro giorni dopo. Si tratta spesso di giovani uomini, molti ex militari dell’esercito iracheno rimasti senza lavoro sotto daesh e costantemente minacciati, contadini e qualche ex impiegato comunale che ha perso tutto. Arrivano anche intere famiglie, con bambini piccoli a seguito e qualche anziano. Sfidano prima i controlli nei loro villaggi per uscirne, poi i campi minati che devono attraversare di notte, e infine il rischio di essere scambiati per miliziani o infiltrati dai peshmerga, che prima della linea del fronte li interrogano e li perquisiscono per verificare che non trasportino armi o esplosivo. E solo dopo li accompagnano nel campo per sfollati allestito in città.
Ahmed, arrivato tre settimane fa con la moglie e i quattro bambini, ha resistito finché non gli è stata confiscata anche la casa. “Facevo l’agricoltore – racconta – ma non riuscivo più a lavorare. Purtroppo ho assistito anche a tanti episodi terribili. Mio fratello è stato ucciso da alcuni miliziani daesh perché aveva provato a ribellarsi. Ma si viene uccisi davvero per poco, con loro. Basta una sigaretta per strada, una tassa non pagata. Non c’era più futuro per noi, il problema è che ora dovremmo ricominciare tutto da capo, e non so ancora dove”. Tutte le persone che transitano da questi container confermano di aver incontrato anche molti stranieri fra i membri dell’Isis: ci sono locali, ovviamente, ma anche siriani, egiziani, libanesi, cinesi ed europei. Il generale Mahdy, uno dei comandanti di battaglione, è convinto che non mentano: “intercettando le conversazioni radio – dice – spesso sento anche parlare in russo, non solo in arabo. Non si tratta di persone del posto, ma di una rete internazionale, questo è chiaro, ne abbiamo le prove quotidianamente, dalle testimonianze e dalle informazioni che raccogliamo sul campo”.
Fra i peshmerga c’è chi ha già combattuto a Shangal (Sinjar), come Salh che è anche rimasto ferito e ha rischiato di perdere l’uso del braccio destro, quando un proiettile gli ha trapassato la spalla. Ha subito un intervento delicato, è rimasto tre mesi in ospedale, e poi è tornato al fronte, questa volta a sud di Mosul. Moltissimi peshmerga hanno anche prestato servizio nell’esercito iracheno fra il 2003 e il 2006, hanno lavorato con gli americani, e qualcuno ha imparato a parlare in inglese. Alcuni fra i più giovani, hanno fatto esperienze all’estero, e sono tornati solo per arruolarsi, come Fuad, cinque anni in Germania e sei mesi in Italia, che parla quattro lingue e non si fida degli iracheni. “Sono scappati una volta – dice – proprio quando dovevano difendere Mosul. I daesh sono arrivati con poche armi in mano, il resto glielo hanno lasciato loro, mezzi militari compresi. Chi mi assicura che quando sarà il momento non succederà la stessa cosa anche oggi, due anni dopo? Noi siamo sempre stati qui, non certo per lo stipendio, ma perché abbiamo voglia di difendere la nostra terra.”
Che gli stipendi non siano una motivazione lo conferma Hiva Mirkhan, giovane parlamentare del KDP, Partito Democratico del Kurdistan, e membro della Commissione Finanze: “il problema è il sostentamento dei peshmerga, non solo la paga mensile, visto che non viene mai corrisposta regolarmente, ma anche i finanziamenti per le loro necessità al fronte. Soprattutto in una fase cruciale come questa. Finora i maggiori contributi sono arrivati dai civili, che donano quello che possono, ma il problema va risolto a monte, con il governo centrale.” Uno dei tanti, della Regione autonoma e di Baghdad.
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