Da Reset-Dialogues on Civilizations
Sarà ancora una volta una prova di determinazione, di fiducia e di coraggio quella che dovranno affrontare gli iracheni chiamati alle urne il 30 aprile per rinnovare i 328 seggi del Consiglio dei Rappresentanti, il Parlamento iracheno. Più di 21 milioni gli aventi diritto al voto, 14 milioni quelli che si sono registrati per circa 9000 mila candidati (6425 uomini e 2607 donne, come comunicano dal quartier generale della Independent High Electoral incaricata di svolgere tutte le pratiche legate al voto). Un groviglio di numeri in cui non sarà facile districarsi. Sulla scheda ci saranno infatti 107 simboli, frutto di coalizioni fra i 276 gruppi che si sono registrati per partecipare alla corsa. Anche se alla fine saranno forse sei le liste in grado di riunire i maggiori consensi. La prima, l’Alleanza per lo Stato di diritto, capeggiata dall’attuale premier Nouri al Maliki, alla ricerca del suo terzo mandato, sembra la favorita anche perché l’enorme frammentazione, che non aiuta la creazione di una alternativa reale, faciliterà la riconferma dello status quo.
Insieme a quello di al Maliki ci sono, infatti, altri nomi noti che abbiamo imparato a conoscere nel corso di questi dieci anni: quello di Muqtada al-Sadr, leader di al Aharar, ad esempio, conosciuto per aver guidato l’Esercito del Mahdi contro le truppe straniere a partire dal 2003, e quello di un altro veterano come Ammar al Hakim, a capo della Coalizione dei cittadini (Muwatin), ma già leader del Supremo Consiglio Islamico dell’Iraq. Il suo cognome è quello della famiglia che occupa un posto di primo piano nella politica irachena da decenni, prima con suo nonno, poi con lo zio, assassinato nel 2003 a Najaf, e infine con suo padre. Oltre ai tre grandi gruppi sciiti, ci sono però anche i sunniti della Coalizione Nazionale (Wataniyya) rappresentati da Iyad Allawi, primo ministro durante il governo provvisorio, ba’athista della prima ora, benché egli sia di origine sciita, e poi quelli del Fronte iracheno per il dialogo nazionale guidati da Saleh Muhammed al-Mutlaq, di Fallujah. E ancora i curdi con il presidente Massoud Barzani, leader del Partito Democratico del Kurdistan.
Raggruppamenti su base settaria e religiosa che confermano le previsioni, e i timori, dell’inviato delle Nazioni Unite a Baghdad, Nickolay Mladenov, su una scelta che non sarà effettuata sulla base dei programmi politici. Del resto, poco o nulla è cambiato nel Paese negli ultimi anni in tema di riconciliazione e di unità nazionale e stupirebbe se, in queste condizioni, avvenisse diversamente. E sebbene ci siano problemi urgenti, come la situazione economica, il braccio di ferro sullo sfruttamento del petrolio del Kurdistan, la disoccupazione, la mancanza di strutture primarie, di energia elettrica, acqua corrente e di sistemi fognari funzionali, restano le divisioni settarie a condizionare la vita degli iracheni. Da qui infatti derivano soprattutto i problemi della sicurezza. Questione con cui, ora e ancora, gli elettori che si recheranno alle urne e gli eletti, poi, saranno chiamati a confrontarsi.
A spaventare sono i più di 1600 morti nei primi tre mesi dell’anno a causa di attacchi e attentati, registrati dalle Nazioni Unite a cui si aggiungono altri 600 del mese di aprile riportati in questo caso da Iraqi Body Count, l’organizzazione che dal 2003, anno d’inizio della guerra, ha tenuto il triste conto. Senza considerare che in questo computo mancano i dati relativi alla provincia di occidentale di Al Anbar, la più grande del Paese, zona sunnita al confine con Giordania, Siria e Arabia Saudita, dove dall’inizio dell’anno i militanti dell’Isis, lo Stato islamico di Iraq e del Levante (attivo anche in Siria), già conosciuto come al Qaida in Iraq dal 2004, hanno preso il controllo della zona, sfruttando il malcontento della popolazione locale verso il governo a maggioranza sciita.
Da allora sono in atto intensi combattimenti con le forze irachene che hanno lasciato sul campo un numero non ben definito di vittime. La missione dell’Onu in Iraq, l’UNAMI, ha calcolato, senza però avere modo di verificarlo pienamente, l’uccisione di 643 persone, solo da gennaio a marzo. Ramadi e Falluja sono da sempre le città più problematiche della zona, e proprio qui a causa della situazione sul terreno non è stato possibile allestire i seggi, privando così una parte della popolazione del diritto di voto: popolazione che difficilmente avrebbe dato fiducia al fronte sciita, guidato dal primo ministro al Maliki, anche perché la scelta di un’offensiva su larga scala viene interpretata dai civili, che più di tutti ne fanno le spese, come una sorta di punizione collettiva decisa dal governo. Proprio su questo Osama al-Nujaifi, che oltre a essere lo speaker del Parlamento guida la coalizione sunnita Moutahidoun, ha cercato di richiamare l’attenzione delle Nazioni Unite, accusando l’esecutivo di un “deliberato e ingiustificato silenzio” su ciò che sta accadendo ad al Anbar.
Questo per quel che riguarda la turbolenta provincia. Resta però l’incognita anche di altre aree, come quella di Mosul, di Diyalah e di Tikrit, città natale di Saddam Hussein; per non parlare di Baghdad dove dal 1° aprile, data d’inizio della campagna elettorale e dell’escalation di violenze, non c’è stata tregua. L’attacco più pesante, dal punto di vista simbolico, è stato registrato il 20 aprile all’Università Imam Kadhim, anche se la cronaca non ci risparmia ogni giorno pesanti bollettini di guerra. In tutto il Paese. Del resto, il 2013 è stato l’annus horribilis, con il maggior numero di morti dal 2008. Questo il contesto in cui il 30 aprile si terranno le prime elezioni politiche dopo il ritiro delle truppe americane; un test non soltanto per il primo ministro al Maliki, per le forze politiche interne, o per gli alleati esterni, ma soprattutto per la società civile.
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