«Anche se non siamo d’accordo sulla situazione in Yemen o su quella in Siria, possiamo comunque lavorare insieme per porvi fine». Lunedì 17 luglio il ministro degli esteri iraniano, Mohammad Zarif, ha inviato un messaggio preciso all’Arabia Saudita, arci-nemico di sempre. Parole che tratteggiano la strategia diplomatica di Teheran sotto il moderato Rouhani.
A due anni esatti dalla firma dell’accordo sul nucleare, con la Casa Bianca costretta ad ammettere a denti stretti che la Repubblica Islamica sta rispettando l’intesa, l’Iran si sta ritagliando giorno dopo giorno un ruolo del tutto nuovo nella regione, figlio delle vittorie segnate negli ultimi anni a partire dalla Siria. Riyadh rincorre, accende nuovi fuochi – dopo quello yemenita, ora quello qatariota – ma ha il fiato corto. Ad approfittarne è l’Iran, ormai sul sentiero che potrebbe condurlo definitivamente fuori dall’isolamento internazionale. Non più Stato-pariah ma interlocutore credibile per le crisi internazionali e regionali e soprattutto partner commerciale stabile.
Perché Teheran, per anni soggetto a sanzioni punitive ed embarghi, ha saputo non solo sopravvivere ma anche emergere come potenza regionale, sia sul piano militare che politico. E ora l’accordo sul nucleare con il 5+1 apre praterie economiche su cui non poche multinazionali sognano di farsi una corsa.
A fare gola sono tanti settori commerciali, con un popolo di 80 milioni di persone che guarda al mondo fuori: turismo, nuove tecnologie, prodotti alimentari, trasporti, ricerca. I tentativi statunitensi di allontanare gli investitori da Teheran, introducendo nuove sanzioni a 16 enti e individui iraniani e mantenendo quelle vecchie, non spaventano più: seppure Trump insista nel definire l’Iran «la minaccia più seria e pericolosa», a garantire stabilità ci sono gli altri partner dell’accordo, i paesi europei, la Cina e la Russia che della Repubblica Islamica non hanno paura né intendono seminarla. Dopotutto l’Italia ha 25 miliardi di dollari in contratti congelati con l’Iran e Berlino undici.
Basti guardare agli ultimi accordi siglati dalle case automobilistiche europee, come Peugeot e Renault, alla caccia di nuovi mercati; o a quello stipulato dalle italiane Ferrovie dello Stato, cinque miliardi di dollari per una ferrovia ad alta velocità lunga 135 km tra le città di Arak e Qom e un secondo tratto Teheran-Hamadan di 320 km. E poi ci sono Eni, Enel, Saipem, Finmeccanica con investimenti miliardari nel paese e tante altre aziende pronte a partire: a metà luglio l’ambasciata iraniana a Roma ha tenuto l’Iran International Oil, gas, energy and petrochemical Summit e organizzato almeno 400 incontri business-to-business con società nostrane.
E se sul piano militare Teheran dice di non avere necessità (il 19 luglio le Guardie rivoluzionarie hanno annunciato l’autosufficienza nella produzione di missili, droni, bombe intelligenti e sistemi radar), il settore più allettante resta sicuramente quello energetico. Petrolio e gas iraniani attirano i colossi internazionali e non solo. Il colpaccio è stato segnato il 3 luglio: la compagnia francese Total ha firmato con l’iraniana Petropars e la cinese Cnpci un accordo ventennale da 4,8 miliardi di dollari per lo sviluppo del giacimento South Pars, «un punto di svolta – l’ha definito il parlamento di Teheran – per i legami tra Iran e Unione Europea e un segnale per le società internazionali».
Un giacimento strategico dal punto di vista prettamente economico: 335 miliardi di metri cubi di gas naturale e 290 milioni di barili di condensati, nel quale Teheran intende coinvolgere anche il Qatar, presa succosa per gli Ayatollah dopo la rottura con i paesi del Golfo. Ma strategico anche per il potenziale che porta con sé: l’Iran necessita di circa 100 miliardi di dollari per sviluppare i 50 giacimenti di gas e petrolio che possiede e dunque deve attirare i giganti stranieri.
A metà luglio ha così siglato con il Giappone un memorandum d’intesa per la ristrutturazione delle attrezzature del giacimento Salman nel Golfo Persico, volto ad un aumento della produzione di gas naturale. A firmare l’accordo – il primo progetto offshore giapponese nel paese – sono state la Noc (la compagnia petrolifera di Stato di Teheran) e la Toyo Engineering. Salman – controllato al 70% da Teheran e al 30% da Abu Dhabi, estendendosi nelle acque territoriali degli Emirati Arabi – produce al momento 60mila barili di greggio al giorno, per una riserva totale di 500 milioni di barili, e 2,2 milioni di metri cubi di gas.
E poi c’è la Russia, che con Teheran condivide anche la strategia militare e politica in Siria, entrambi stretti alleati del governo di Damasco a cui – con finanziamenti, uomini e armi – hanno garantito la sopravvivenza alla guerra civile e oggi la graduale avanzata sul territorio a scapito delle opposizioni legate al fronte sunnita. Lo stesso giorno della firma dell’accordo con il Giappone, la Repubblica Islamica annunciava un altro memorandum d’intesa con Mosca per i giacimenti petroliferi di Shadegan e Ragsefis, accordo che segue ad altre quattro intese con altrettante società russe, tra cui Gazprom.
Alla base stanno una serie di incontri preparatori che prevedono investimenti russi da 10 miliardi di dollari nel settore industriale iraniano e altri 20 in quello energetico. Denaro fondamentale per un governo – quello di Rouhani – che da due anni presenta l’accordo sul nucleare come lo strumento per aumentare il tasso di occupazione attraverso l’apertura ai mercati stranieri.