Da Reset-Dialogues on Civilizations
Arrivato alla sua decima edizione, in Iran il mensile Zanan-e Emruz (“Donne d’oggi”) è stato costretto a interrompere le pubblicazioni per ordine del Tribunale di Tehran, Ufficio per il controllo della stampa.
L’annuncio risale ad aprile e la notizia in sé non dice nulla di nuovo: negli ultimi quindici anni decine di testate giornalistiche hanno visto le proprie licenze concesse e poi revocate, seguendo le alterne vicende politiche interne. Certo, negli ultimi due anni, con l’elezione del presidente Hasan Rohani, il clima sociale e politico è drasticamente cambiato: libri censurati da tempo ora ottengono l’imprimatur, film messi al bando tornano nelle sale, escono nuovi giornali. Ma la censura non è scomparsa, anche se si sono spostate le “linee rosse”, i confini di ciò che è ammissibile. I mass media sono sempre stati un terreno di scontro politico; sulle redazioni si è allentata la pressione del governo, ma resta quella di altri poteri. Nella peculiare architettura istituzionale dell’Iran, la magistratura (e la tv di stato o i servizi di sicurezza) sono poteri che il presidente eletto non controlla: così può accadere che un governo parli di libertà d’espressione mentre un giudice chiude giornali o arresta attivisti per i diritti umani. Più un governo tenta aperture democratiche, più le correnti oltranziste attaccano su diritti e libertà di espressione, i terreni preferiti dalla “ortodossia” rivoluzionaria.
La vicenda del magazine femminile però dice qualcosa di nuovo sulla società iraniana.
Quando Zanan-e Emruz è arrivato nelle edicole, nel giugno 2014, sembrava un segno tangibile delle aperture del governo Rohani. Il nuovo magazine infatti è la riedizione di quello fondato nel 1992 da una coraggiosa giornalista, Shahla Sherkat. Allora si chiamava Zanan (“donne”) e ha rotto parecchi tabù: nell’Iran in piena ricostruzione dopo la lunga guerra Iran-Iraq degli anni ’80, quel giornale scriveva di questioni come la parità di diritti nel matrimonio e nel divorzio, le discriminazioni sul lavoro, la violenza contro le donne, le relazioni tra donne e uomini, la partecipazione politica. Discuteva di cinema e di letteratura, pubblicava articoli di intellettuali e attiviste politiche – dalla giurista Mehranguiz Kar all’editrice Shahla Lahiji, alla regista Rakhshan Bani-Ettemad, a molte figure di rilievo del nascente movimento delle donne iraniane. Zanan ha messo all’ordine del giorno politico le questioni delle donne, cercando interlocuzioni in parlamento. Ha anche allevato una nuova generazione di giornaliste che poi hanno cambiato il panorama nei media.
Quella prima esperienza si è conclusa nel gennaio 2008, terzo anno della presidenza di Ahmadinejad, quando la magistratura ha chiuso Zanan accusando le sue giornaliste di mostrare il mondo femminile in una «luce oscura» che «minaccia la salute spirituale, mentale e intellettuale dei lettori e la sicurezza psicologica della società». Segno del tempo: molti altri giornali legati alle correnti riformiste sconfitte da Ahmadinejad erano già stati chiusi, e le organizzazioni indipendenti della società civile erano sotto tiro: in particolare l’associazionismo femminile, un noto Centro di documentazione delle donne, o i gruppi che avevano promosso la campagna per “Un milione di firme” per abrogare le norme del diritto di famiglia che discriminano le donne.
Nell’ultimo anno qualche “organizzazione non governativa” delle donne ha ripreso le attività, segno inequivocabile del nuovo clima. Note attiviste degli anni ’90 sono state chiamate alla testa di istituzioni ufficiali come le fondazioni per le donne e per il welfare. Anche il ritorno in edicola del magazine delle donne era un segno: erano sei anni che Sherkat chiedeva la licenza per un nuovo giornale, dopo la chiusura del vecchio Zanan.
Ora invece torna la censura. Anche se nella sua seconda vita Zanan-e Emruz ha tenuto un taglio più sociale e meno di dibattito politico, non ha potuto evitare un nuovo intervento d’autorità.
Questa volta la pietra dello scandalo è stato un numero speciale, uscito nell’ottobre 2014, sulle relazioni tra donne e uomini nella società che cambia, in particolare su quello che in Iran è chiamato “matrimonio bianco”, la convivenza tra persone non sposate. Il tribunale per la stampa ha accusato il magazine diretto da Shahla Sherkat di «incoraggiare il fenomeno a-sociale e irreligioso noto come matrimonio bianco».
Forse è proprio questo che dice quanto sia cambiata la società iraniana. Pare ovvio che uno stato morale non ammetta convivenze non santificate dal matrimonio. Meno ovvio è che questo sia un comportamento ormai diffuso, minoritario certo ma non così raro. L’articolo in questione (poi ripreso dalla Bbc) diceva che spesso ormai giovani coppie scelgono di vivere insieme prima di decidere l’eventuale matrimonio – una cosa impensabile anche solo pochi anni fa.
È un comportamento contrastato, certo (in quel servizio giovani coppie spiegano di aver cambiato casa parecchie volte, alla domanda dei vicini “ma quando vi sposate?”). È anche perseguibile dalla legge (relazioni sessuali extramatrimoniali ricadono nelle leggi contro adulterio e fornicazione). Eppure è così, e non solo negli strati alti della società. Le famiglie lo approvano o ci si rassegnano – così come si rassegnano a vedere giovani che scelgono di non sposarsi affatto, donne che vivono sole senza sposarsi o magari dopo una separazione. Secondo Ali Akbar Mahzoon, capo del Dipartimento statistiche del Registro civile, l’Iran ha 11 milioni di giovani in età da matrimonio che non sono sposati (tra 20 e 34 anni per gli uomini, tra 15 e 29 per le donne): il 46 e il 48 per cento rispettivamente di uomini e donne in quella parentesi di età non si sposa. Anche i divorzi sono in crescita vertiginosa: il 20 percento dei matrimoni, o uno su 5, finisce con un divorzio, secondo il Registro civile del governo iraniano: ovvero sono triplicati in quindici anni.
Matrimoni “bianchi”, divorzi, donne alla ricerca di vite indipendenti: sono segni di una rivoluzione silenziosa avvenuta nella società iraniana. Possiamo trovarne qualche indicazione nei dati dei demografi.
L’Iran è un paese giovane, eppure la popolazione invecchia. Due terzi dei 75 milioni di iraniani hanno meno di 35 anni, ma la “piramide” delle età si restringe alla base (i bambini tra zero e 5 anni, e tra cinque e 10): insomma, nascono sempre meno figli. Questo significa che la popolazione è cresciuta molto tra gli anni 1970 e ’80, ma poi ha rallentato in modo drastico e oggi la famiglia tipo non mette al mondo più di due figli, spesso uno solo. Tra il 2006 e il 2011 la popolazione iraniana è aumentata del 1,3% annuo, un ritmo paragonabile a quello italiano. Il tasso di fertilità (il numero di figli che una donna partorisce nell’arco della vita) è 1,7: solo poco più che in Italia. (Tutti i dati citati qui sono dell’ultimo censimento generale della popolazione, 2011).
In parte questo è il risultato di deliberate politiche di “salute riproduttiva” avviate negli anni ’90, con un forte accento sia sulla pianificazione familiare, sia sulla salute delle madri e dei bambini. In effetti tutti gli indicatori di salute riproduttiva sono migliorati negli ultimi vent’anni: la mortalità infantile è crollata (da 65 per mille nel 1990 a 22 per mille nel 2011), e così quella materna (da 150 a 21 per ogni 100mila nati vivi), secondo i dati ripresi dal Undp, il Programma dell’Onu per lo sviluppo. Questo testimonia di un efficiente sistema di servizi sanitari di base, equilibrato tra zone rurali e urbane, osserva la Banca mondiale nel suo “overview” dell’Iran. Inoltre, contro quel che ci si potrebbe aspettare in un paese governato in nome di principi religiosi, oggi il 73 per cento delle donne iraniane tra 15 e 49 anni usa qualche mezzo anticoncezionale, e il 59 per cento ne usa uno moderno (in Italia le cifre corrispondenti sono 63 e 41) – questi sono dati del Unfpa (State of the World Population, 2013).
Tutto questo allude a trasformazioni sociali e culturali profonde. Oggi l’Iran è un paese per quasi tre quarti urbanizzato, dove la popolazione rurale continua a calare. Ed è un paese istruito. L’Iran post rivoluzione ha mandato a scuola tutti, bambini e bambine, poveri e ricchi, città e campagna: il tasso di istruzione dei giovani ha raggiunto il 77 per cento nel 1995 e il 99 per cento nel 2009, con una sostanziale parità tra donne e uomini. Anche l’istruzione universitaria è molto alta, e la percentuale delle ragazze tra i nuovi iscritti supera stabilmente il 60 per cento (in una delle sue boutades, l’ex presidente Ahmadinejad qualche tempo fa aveva chiesto “quote maschili”).
Un elemento della rivoluzione silenziosa sta proprio qui. L’Università statale è gratuita (quelle parastatali, come la Libera Università, hanno costi comunque contenuti). Per accedere bisogna superare un esame di ammissione; l’esame è nazionale, quindi lo studente troverà posto in un ateneo nella propria città o altrove, secondo il punteggio raggiunto. Ogni anno accademico dunque decine di migliaia di giovani donne e uomini della provincia iraniana lasciano la famiglia e vanno a studiare a Teheran o in un’altra città diversa dalla propria, dove vivranno nel pensionato universitario. Famiglie tradizionaliste o “occidentalizzate”, più o meno abbienti, fin nella provincia più remota, manderanno figlie e figli a studiare lontano, cosa una volta ovvia solo nelle classi alte e molto istruite. Dopo la laurea qualcuno continuerà con il dottorato; altri/altre troveranno un lavoro, magari restando in città, condividendo appartamenti con altri giovani. L’Iran post-rivoluzionario ha creato generazioni di giovani altamente istruiti, emancipati, divoratori di internet, grandi utenti dei social media, inseriti nel mondo globale, più o meno immersi in valori religiosi ma tutti con grandi aspettative di benessere, di vite indipendenti, di libertà.
I “richiami all’ordine” delle autorità religiose dello stato suonano fuori tempo, in questo quadro. Certo, da qualche tempo illustri esponenti del clero ripetono che gli iraniani dovrebbero fare più figli. Qualche tempo fa il ministro della giustizia Mustafa Pour Mohammadi (un membro del clero), ha dichiarato che l’aumento dei divorzi è un pericolo per la società e «non favorisce il sistema islamico».
Ma è difficile convincere giovani donne che il loro ruolo è sfornare figli, così come è impossibile intervenire per vie di legge a impedire che un matrimonio si rompa – di solito per motivi economici, adulterio, o perché lui è tossicodipendente, o alcolizzato, o violento, o per incompatibilità, aspirazioni divergenti (si pensi alla storia di Una separazione, il film di Asghar Farhadi). La legge in Iran garantisce solo al marito il diritto di chiedere il divorzio (una moglie può chiederlo però se dimostra che il consorte viene meno ai suoi doveri verso la famiglia, è violento, o altrimenti in colpa). Sempre più spesso però si presentano al giudice coppie che si sono già messe d’accordo sulla separazione.
Quando Zanan-e Emruz ha scritto di matrimoni bianchi in effetti ha solo affrontato una delle realtà di oggi in Iran. Anche sui giornali più tradizionali si parla a volte di matrimoni bianchi o di divorzi e donne sole: ma per dire che sono la rovina della famiglia, che una divorziata cade inevitabilmente nel “peccato”, che una casa abitata da una donna sola è un luogo di perdizione. Lo scorso novembre nel dibattito è intervenuto lo stesso Leader supremo, per bocca del capo del suo ufficio, Mohammad Mohammadi Golpayegani: ha dichiarato che bisogna intervenire «senza pietà» contro il fenomeno delle coabitazioni. «È vergognoso per un uomo e una donna vivere insieme senza essere sposati», dice, «prima che chi sceglie questo stile di vita cancelli una generazione legittima con una illegittima».
Lette in uno dei bei giardini di Shiraz o di Isfahan, pieni di gruppetti in gita – o anche a passeggio nelle conservatrici Yazd o Mashad, o tra giovani che si affollano nelle scuole superiori e nei corsi di lingue straniere in ogni cittadina di provincia, o riempiono i cinema e gli internet café in tutto il paese, o cambiano casa quando i vicini cominciano a impicciarsi delle loro vite – simili dichiarazioni suonano come una battaglia persa, un potere che cerca di fermare un fiume in piena con esili cartelli di divieto.
Per il momento, l’establishment conservatore può solo censurare il magazine che discute, senza demonizzarle, scelte e aspettative di giovani donne e uomini in una società che cambia. Shahla Sherkat spera ancora di riprendere le pubblicazioni: il tribunale ha sospeso la licenza di pubblicazione il suo mensile, ma non l’ha revocata. «Sono convinta che riuscirò a convincere il tribunale che non ho violato nessuna legge», ha dichiarato Sherkat lo scorso aprile. L’udienza per trattare il caso di Zanan-e Emruz però non è ancora stata fissata. Ma forse, più ancora dei matrimoni bianchi, a spaventare il potere è proprio un giornale che indaga con curiosità la società che vive al di fuori dai registri ufficiali.
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