Da Reset-Dialogues on Civilizations
«Perché non possiamo risolvere anche i problemi interni attraverso il dialogo?». È una delle domande circolate a Tehran dopo l’annuncio dell’accordo raggiunto a Vienna tra l’Iran e sei potenze mondiali sul programma nucleare. «Abbiamo negoziato con stati con cui c’è una storia di animosità, e abbiamo trovato un accordo. Perché non possiamo fare altrettanto per i problemi interni?», si chiede ad esempio Hossein Marashi, esponente di spicco del partito Kargozaran (la corrente politica dei moderati “pragmatici” vicini all’ex presidente Hashemi Rafsanjani). Parlando con l’agenzia semi-ufficiale Ilna, Marashi si rivolge in modo esplicito al presidente Hassan Rohani: «Chiediamo di aprire un dialogo interno».
Parole simili si possono leggere sul quotidiano Etemad, vicino alle correnti riformiste: «Abbiamo saputo tenere colloqui con il nostro nemico di sempre e trovare un accordo reciprocamente accettabile. Presto o tardi dovremo tenere un simile approccio a livello nazionale», scrive Massoud Pezeshkian, deputato ed ex ministro della sanità nel governo del presidente riformista Mohammad Khatami. Lo stesso ex presidente Khatami, in un discorso tenuto presso la sua Fondazione Baran per il dialogo tra le civiltà, ha parlato di dialogo con il mondo e «anche all’interno».
Non c’è dubbio, l’accordo annunciato il 14 luglio a Vienna ha acceso grandi speranze in Iran. Sui media occidentali, esperti e commentatori internazionali ne discutono le implicazioni globali – come si rimescolano le carte nel Grande Medio oriente con il rientro in scena dell’Iran, le possibili nuove alleanze, la svolta nelle relazioni tra Tehran e Washington, i nuovi equilibri con Russia e Cina, il mercato del petrolio: un terremoto geopolitico. All’interno dell’Iran però l’accordo ha implicazioni che vanno ben oltre la politica estera.
L’euforia vista per le strade delle città iraniane, quando decine di migliaia di persone hanno festeggiato l’annuncio dell’accordo, è eloquente. Come se tutti avessero tirato un grande sospiro di sollievo: via le sanzioni, finite le minacce latenti di guerra, finite le pressioni interne, l’Iran ora sarà rispettato come un paese normale, l’economia decollerà. L’accordo segna un «cambio di paradigma», scrive un corrispondente di Tehran Bureau, blog indipendente sull’Iran (ospitato sul web da The Guardian). Lo spettacolo del presidente Usa Barack Obama che parla dell’accordo dalla Casa Bianca, trasmesso dal vivo alla tv di stato iraniana, è stato un evento: per la prima volta, il capo del “grande satana” sugli schermi ufficiali della repubblica Islamica.
Il giornale Shargh, vicino ai riformisti, ha scritto in un editoriale che il 14 luglio 2015 sarà una data storica per l’Iran quanto l’occupazione dell’ambasciata americana nel 1979, l’inizio della guerra con l’Iran nel 1980 o l’elezione di Mohammad Khatami nel 1997, il presidente che ha segnato le prime aperture politiche e sociali dai tempi della rivoluzione. Secondo Sadegh Zibakalam, professore di scienze politiche all’Università di Teheran noto per le sue opinioni critiche, comincia a crollare «il dogma dell’antiamericanismo» ufficiale (certo, gli oltranzisti continueranno a urlare “morte all’America”, ma gli iraniani comuni, «studenti, scrittori, giornalisti, non credono più nell’anti-americanismo», dice Zibakalam a Tehran Bureau).
Non è il solo a pensarlo. Da posizione molto più interna al sistema, l’ex presidente Rafsanjani ha sempre sostenuto la necessità di distensione con l’Occidente e ora definisce l’accordo un «passo gigantesco»: «È una buona cosa che l’Iran parli direttamente agli Stati uniti. Abbiamo rotto un tabù», ha detto (a The Guardian, 8 luglio: il corsivo è mio).
Tra tanta euforia però si fanno strada due domande. La prima è quella urlata in slogan come «il prossimo accordo è per i diritti civili», sentito per le strade durante i festeggiamenti del 14 luglio: la conclusione positiva del negoziato con le potenze mondiali si tradurrà in aperture politiche interne? La seconda è forse ancora più importante: l’accordo sul nucleare avrà ricadute economiche capaci di migliorare la vita materiale degli iraniani?
Su entrambe le questioni le aspettative dei cittadini iraniani sono alte – forse troppo alte.
È utile vedere le reazioni espresse finora in Iran all’accordo di Vienna. Il commento dell’Ayatollah Ali Khamenei è stato come sempre scettico nei toni e positivo nella sostanza. Il Leader supremo, prima autorità dello Stato, «ha espresso il suo apprezzamento per il duro lavoro e i diligenti sforzi dei negoziatori», diceva una nota dell’ufficio di Khamenei già il 17 luglio, dopo una cena privata di Iftar (la rottura serale del digiuno durante il Ramadan) a cui era stato invitato il presidente Rohani. Nel discorso pubblico tenuto poco dopo il Leader ha tenuto toni animosi («le nostre relazioni con gli Usa non cambiano»), ma nella sostanza ha dato il suo appoggio all’accordo (del resto, senza l’appoggio di Khamenei il negoziato non sarebbe mai arrivato a questo esito).
Un totale appoggio è venuto anche da Ali Larijani, attuale presidente del Parlamento (lui stesso ex negoziatore nucleare durante la prima amministrazione Ahmadinejad) e capofila di una delle più potenti correnti conservatrici vicine al Leader: non solo ha dichiarato che l’accordo apre spazi politici per la Repubblica Islamica; ha anche dato un colpo preventivo agli oltranzisti in parlamento, dicendo che «l’accordo andrà valutato nei suoi aspetti tecnici … senza dare ascolto alle maldicenze politicamente motivate».
L’attuale legislatura iraniana è dominata dai conservatori, tra cui deputati che hanno fatto il diavolo a quattro contro il negoziato. Mercoledì 22 luglio il parlamento ha formalmente ricevuto il testo dell’accordo (il Joint Plan of Action) e ha istituito una commissione parlamentare “di verifica”. Il parlamento iraniano però non è chiamato a ratificare l’accordo. Inoltre, la settimana scorsa 203 deputati (su 290) hanno firmato una dichiarazione che ringrazia i negoziatori per i loro sforzi. Le critiche così sono ridotte a chiacchiericcio politico.
Nessun commento esplicito è venuto finora dai vertici militari, le Guardie delle Rivoluzione e l’Esercito. Sorprendente invece il giornale Keyhan, da cui vengono di solito gli attacchi più feroci contro l’amministrazione del presidente Rohani. Il suo direttore Hossein Shariat Madari, che si fregia del titolo di “rappresentante della Guida suprema”, aveva accusato i negoziatori di «alto tradimento»: ma dopo il pronunciamento del Leader supremo ha adottato toni molto più cauti («o Shariat Madari ha cambiato idea, o si è reso conto che i suoi sforzi per opporsi erano futili», ironizza un corrispondente da Tehran sul sito di politica internazionale Lobelog). Anche Vatan-e Emrooz, altro giornale ultraconservatore che aveva scritto contro il negoziato, ora parla di accordo «equilibrato». E dire che nelle settimane passate era stato evocato perfino il famigerato Trattato di Turkmenchai del 1828, quando la Persia dovette cedere alla Russia zarista i suoi territori nel Caucaso meridionale (sui fantasmi della storia nel dibattito politico iraniano si legga la studiosa Farideh Farhi).
Insomma: la posizione del presidente Rohani è rafforzata dalla conclusione positiva dell’accordo. Ma le pressioni interne non sono finite, al contrario. Lo schieramento riformista, che ha sostenuto la sua elezione, scalpita: il presidente ha dato priorità al negoziato internazionale, va bene, ma ora deve tener fede alle sue promesse e rimettere in libertà i detenuti politici, mettere fine agli arresti domiciliari degli ex candidati sconfitti Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi e di Zahra Rahnavard. «È tempo di risolvere le questioni interne e promuovere l’unità nazionale» scrive Ebrahim Yazdi, già ministro degli esteri del primo governo di transizione rivoluzionario, in una lettera aperta al presidente Rohani. Ora che l’accordo è fatto, il presidente non avrebbe più scuse, dice Mohammad-Reza Khatami, già capo del Fronte della Partecipazione, il partito riformista (sciolto d’autorità da Ahmadinejad), al quotidiano Etemad: «I riformisti criticano il presidente sia sul fronte della politica interna, sia su quello dell’economia».
La pressione degli oltranzisti però non verrà meno. La distensione con l’occidente favorirà aperture interne, nel medio termine: ma a breve le forze più oltranziste attaccheranno oppositori e dissidenti, per dimostrare che non hanno perso il controllo. Ed è proprio ciò che si aspettano intellettuali, cineasti, documentaristi: un giro di vite sulle libertà civili, come è successo ogni volta che un governo tenta aperture politiche.
«Non credo che l’atmosfera politica si aprirà», non a breve, ha dichiarato giorni fa Faezeh Hashemi, già deputata, dirigente politica che ha preso posizioni vicine ai riformisti (e figlia dell’ex presidente Hashemi Rafsanjani). Come i riformisti, i dissidenti, i fautori di libertà democratiche, anche lei auspica aperture interne. Ma osserva che nel governo di Rohani ci sono figure che gli sono state imposte e non lavorano sulla sua linea: «Se vuole rispettare le promesse fatte agli elettori, deve fare un rimpasto, ripulire la sua squadra. (…) Ora che la questione nucleare è risolta deve mettere all’ordine del giorno il rilascio dei detenuti [politici], le garanzie di libertà, prevenire gli atti illegali compiuti da gruppi di pressione che creano ostacoli extra-legali», ha detto Hashemi al giornale web Rooz Online. Ma ha difeso il presidente Rohani dalle critiche: «Sappiamo come è distribuito il potere nel sistema [della Repubblica Islamica]. Sappiamo dove è concentrata l’autorità e chi ha potere in altri quartieri». Un riferimento a magistratura, servizi di intelligence, apparati di sicurezza e controllo interno, i centri di potere che il presidente Rohani non controlla («non li controlla, ma può lanciare avvertimenti istituzionali, prendere posizione»).
«Coloro che si oppongono al negoziato e lo chiamano tradimento, in realtà hanno interesse nelle sanzioni» osserva però Faezeh Hashemi. Si riferisce al sistema di intermediazioni e corruzione fiorito proprio a causa delle sanzioni, che hanno permesso ad alcuni di accumulare grandi ricchezze. E questa è la seconda domanda di questi giorni. L’accordo sul nucleare porterà a rimuovere le principali sanzioni contro l’Iran probabilmente alla fine del 2015: la ragionevole previsione di un commentatore economico come Bijan Khajepour è che si tornerà alla relativa apertura nelle relazioni commerciali con il mondo (non necessariamente con gli Usa) vissuta alla fine degli anni ’90 e primi ‘2000. Questo porterà sviluppi positivi per lo sviluppo dell’economia: ma si tradurrà in lavoro e benefici immediati per tutti gli iraniani? Forse la sfida decisiva per il governo Rohani è proprio questa. Nell’immediato infatti la disoccupazione resta alta, dopo anni di stagnazione. E molti si chiedono come sarà investito il denaro che rientrerà nel paese (gli assets iraniani congelati in banche straniere ammontano a centinaia di miliardi di dollari), come governare l’assalto di investitori stranieri che già si preparano a invadere l’Iran.
Negli ultimi anni, nota ad esempio Khajepour, l’Iran ha investito molto nella capacità industriale interna per compensare le sanzioni internazionali – l’ayatollah Khamenei l’ha chiamata “economia di resistenza”. Come se la caveranno le industrie nazionali quando, smantellate le sanzioni, potranno commerciare più agevolmente con l’estero – ma subiranno anche la concorrenza internazionale? Ora molti chiedono che il governo mantenga politiche di protezione dell’industria locale. Khajepour cita il capo della Camera di Commercio di Tehran, che chiede di mantenere almeno per un paio d’anni il controllo sulle importazioni (imposto negli ultimi anni per equilibrare import e export di prodotti non petroliferi). Il governo dovrà investire nelle infrastrutture – in particolare nei trasporti: porti, strade, ferrovie, aeroporti – per permettere lo sviluppo interno e intanto creare lavoro. Ancora: lo stato dovrebbe cominciare a ripagare il debito interno (lo stato iraniano è indebitato con le banche per circa 35 miliardi di dollari e con le aziende private per circa 31 miliardi), così che il denaro rientri nel circolo del credito e degli investimenti interni. E dovrà «definire il ruolo delle istituzioni economiche semi-statali», le aziende affiliate con fondazioni militari e religiose rivoluzionarie – un altro dei poteri paralleli della Repubblica Islamica. Questione spinosa, Rohani ha cominciato a toccarli quando ha decretato la tassazione sulle fondazioni rivoluzionarie (ma la cosa è ancora all’esame del parlamento, e difficilmente sarà approvata da questa legislatura).
Soprattutto, sostiene Khajepour, il governo dovrà fare molta attenzione a «gestire le aspettative» di una popolazione iraniana convinta che basti togliere le sanzioni per risolvere tutti i problemi del paese. Ma conclude: «La buona notizia è che c’è una squadra capace» al governo.
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