Da Reset-Dialogues on Civilizations
Cengiz Aktar, professore di relazioni internazionali presso l’Università Bahcesehir di Istanbul, giornalista e scrittore, studioso dei rapporti tra Turchia e Unione Europea, da anni in prima linea per il riconoscimento del genocidio armeno, è uno dei promotori e primi firmatari della lettera scritta dagli “accademici per la pace”.
Un appello firmato inizialmente da 1128 professori di 89 università, tra cui Noam Chomsky, David Harvey e Immanuel Wallerstein, che sancisce la richiesta al governo AKP di porre fine al conflitto nel sud est del Paese con il PKK, definito senza mezzi termini «un massacro, una strage», nel quale i firmatari della lettera «non vogliono essere coinvolti».
La diffusione della petizione, l’aumento del numero delle adesioni, ha scatenato la reazione dei presidente Recep Tayyip Erdogan, che ha definito i firmatari dell’appello «sedicenti accademici dalla parte di chi vuol dividere il Paese», invitandoli a prendere una posizione chiara in un conflitto nel quale «o stanno con il governo o stanno con i terroristi».
La tesi d’accusa della procura di Izmir (fascicolo poi trasmesso a Istanbul) ruota attorno alla presunta violazione dell’articolo 302 del Codice Penale Turco, previsto per colpire la “messa in discussione dell’unità della nazione e dell’integrità territoriale del Paese”. Si tratta del medesimo articolo sul quale è stata basata la condanna all’ergastolo del leader del PKK, Abdullah Ocalan. L’indagine va avanti in altre città del Paese, dove la tesi del procuratore ruota attorno alla violazione dell’ articolo 31, che fino alla riforma del 2008 puniva il “vilipendio alla turchicità”, poi riformato su pressione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in “vilipendio della nazione turca e della Repubblica di Turchia” e all’accusa di “propaganda a favore di organizzazione terroristica”. Sono più di mille i nomi iscritti nel registro degli indagati, decine i professori arrestati e poi rilasciati, molti dei quali sono stati già sospesi dal proprio incarico.
In una intervista «per gli amici di Reset», il professore ha accettato di discutere della situazione politica turca e delle polemiche seguite all’appello per la pace e del recente attentato che ha sconvolto Ankara, causando la morte di 28 persone.
Dopo l’attentato, il presidente Erdogan è tornato ad attaccare gli accademici, affermando che «questi cosiddetti illuminati hanno messo le armi in mano ai terroristi». Si tratta di esternazioni che possono presagire una nova stretta nell’indagine nei confronti dei professori universitari?
«Questo è possibile, ma non c’è paura, abbiamo già visto quello che può accadere», ha subito specificato Aktar, «purtroppo questo è il linguaggio, duro, del nostro presidente», un linguaggio dietro il quale c’è l’atteggiamento di Erdogan «secondo cui chiunque ha un’idea diversa dalla sua, diventa un nemico della nazione o un terrorista», mentre «lui può dire qualsiasi cosa a chiunque». Allo stesso tempo ci tiene a specificare di non amare la definizione di “intellettuale”.
«In un momento così difficile come quello che sta attraversando la Turchia, credo che sia un dovere di chi nelle università insegna alle generazioni future quello di chiedere alla politica di sedersi attorno a un tavolo, per porre fine a morte e violenza, perché magari quella intrapresa non è la direzione giusta».
Più che le minacce, sono altri gli elementi che preoccupano Cengiz Aktar: «Il 50% del Paese è schierato a favore del presidente». Secondo il professore, «avere il 50% della popolazione immersa in una condizione di ignoranza, in cui crede a ogni cosa che dice Erdogan, è tipico di qualsiasi regime autoritario». Il più grande problema nel lungo termine è che in Turchia passa la percezione che «il 50% schierato con il presidente sia costituito di buoni cittadini, mentre il 50% che non ne condivide le idee e la politica è fatto di nemici della nazione». Sono questi, secondo Aktar, i motivi per cui «L’Europa deve capire la deriva autoritaria intrapresa dalla Turchia».
L’intenzione della “lettera per la pace” era quella di portare l’attenzione su di un conflitto che lo scorso luglio è ripreso dopo una tregua di due anni e mezzo, e che da allora ha visto morire circa 6 mila miliziani PKK, 400 membri delle forze di sicurezza turche e più di 200 civili, mentre due località si trovano sotto coprifuoco dallo scorso 15 dicembre. Una situazione aggravata dagli attacchi effettuati sabato dall’esercito turco verso la base aerea di Maniqa, a 13 chilometri dalla frontiera turca di Kilis, pochi giorni dopo che i bombardamenti russi l’avevano riportata sotto il controllo dei curdi siriani. «Siamo già in guerra con i curdi turchi, il governo vorrebbe allargare il fronte ai curdi siriani», con questo fine «il governo turco ha voluto utilizzare l’attentato di Ankara» considerando che premier e presidente «non hanno avuto esitazioni» nell’indicare nell’Ypg l’organizzazione responsabile per l’attentato di Ankara.
Una visione che non coincide con quella di Cengiz Aktar: «Quando parliamo del Pyd-Ypg bisogna tenere presente che si tratta dell’unica forza che ha combattuto concretamente l’Isis, una realtà accettata da tutti, meno che dalla Turchia». Al contrario i fatti di Ankara sono stati «l’occasione per il governo per accusare Ypg e giustificare i bombardamenti in Siria». Peccato però che gli elementi addotti a favore di questa tesi non abbiano convinto nessuno, tantomeno il Consiglio di sicurezza Onu, dove comunque la Russia avrebbe posto il veto. Accuse prive di fondamento, il professore definisce «impossibile» che Ypg sferri «un attacco di queste dimensioni, nel cuore del Paese, dopo non aver sparato neanche un singolo proiettile verso il confine». Accuse dietro le quali si cela l’intenzione di Ankara di far pressione perché «Ypg sia incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche indicate nella risoluzione 249 del 20 novembre, nella quale figurano Isis e altri gruppi islamisti». Un tentativo che Aktar definisce «vano», in quanto «Ypg ha rigettato qualsiasi coinvolgimento nell’attentato e nessuno nella comunità internazionale ha intenzione di cambiare la propria posizione». (L’attentato sarebbe poi stato rivendicato da un gruppo estremista curdo-turco, Tak, sul quale sono in corso indagini ndr).
Rispetto alla Siria il governo di Ankara si è sempre detto pronto a un intervento di terra, ma solo nell’ambito di una coalizione internazionale, dopo i 28 morti di Ankara chiedo al professore se è possibile che questa posizione cambi.
«Non cambierà nulla, l’esercito turco non è in grado di condurre da solo un’operazione al di fuori dei propri confini nazionali senza supporto di altre nazioni».
«C’è una differenza sottile tra PKK e Pyd-Ypg. Erdogan vuole sfruttare questa prossimità per far valere i propri interessi in Siria in chiave anti curda. Ma a rendere questo gioco complesso ci sono Usa, Russia e UE, che considerano il Pyd-Ypg un alleato, lasciando la Turchia isolata moralmente, militarmente e politicamente».
Una situazione talmente critica da rilanciare l’importanza dell’appello per la pace, secondo Aktar «è sempre un dovere degli accademici cercare di far riflettere l’opinione pubblica e riportare la Turchia su una via che non sia quella della guerra, che sembra essere l’opzione preferita da parte del governo».
Lo scorso 12 gennaio un kamikaze dell’Isis si faceva esplodere a Istanbul, nel cuore turistico di Sultanahmet causando la morte di 10 turisti, un fatto grave, risultato, secondo Aktar, delle politiche intraprese negli ultimi mesi: «Il governo si è concentrato sul PKK per fini elettorali e ha lasciato fare l’Isis; dopo l’attentato di ottobre ad Ankara l’AKP ha deciso che era il momento di fare qualcosa, ma era troppo tardi e il fenomeno era fuori controllo».
Aktar stima che ci sarebbero «2700 turchi affiliati all’Isis, attivi all’interno del Paese», una minaccia incombente che getta un’ombra sul futuro di un Paese che per prevenire altri attentati «dovrebbe forse rivedere le proprie priorità e le proprie politiche».
Sia in veste di accademico che di giornalista, Aktarsi è occupato a lungo dei rapporti tra Turchia e Ue, seguendo da vicino il processo di integrazione europea. Interrogato sul ruolo dell’Europa l’accademico non ha dubbi: «A Bruxelles interessa solo tenere lontani i rifugiati siriani, stanno chiudendo gli occhi sui curdi, sulla libertà di stampa e sui diritti umani e non si rendono conto che potrebbero presto ritrovarsi dei rifugiati turchi a bussare alla loro porta».
Secondo Aktar la recente riapertura dei negoziati, legata ai 3 miliardi di dollari promessi dalla Commissione europea alla Turchia per accogliere i siriani in fuga, non cambia nulla nel processo di integrazione, poiché alle condizioni attuali «la Turchia non entrerà in Europa,non prima di 15-20 anni».
«L’Ue sfrutta la Turchia sui rifugiati e riapre capitoli negoziali di poco conto, ma quando l’emergenza sarà finita allora riaprirà gli occhi sui tristi eventi di questi giorni e il processo di integrazione si bloccherà da solo».
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