Da Reset-Dialogues on Civilizations
Dicono che non sia cambiato. I concetti sono gli stessi di quando viveva a Londra. In esilio. L’influenza sul suo paese, però, è tutta diversa. Lui è Rashid Ghannouchi, uomo forte della Tunisia post-rivoluzionaria, presidente di Ennhada, partito di maggioranza relativa nell’attuale assemblea legislativa. Le elezioni parlamentari del 26 ottobre e le presidenziali del 23 novembre sono alle porte. Ma lui, dal 28 settembre al 1 ottobre, ha trovato il tempo per spendere alcuni giorni negli Stati Uniti. Il tour è cominciato a Washington, insieme al vice di Kerry, William Burns, ed è continuato nelle principali università americane, per finire al World Leaders Forum della Columbia University, dove Reset-DoC lo ha incontrato. Ha parlato di quello che rimane della stagione iniziata con la caduta di Ben Alì e della speranza di stabilizzazione democratica dell’unico paese arabo superstite delle primavere.
Per Ghannouchi fanno cinque. Dal suo ritorno in Tunisia dopo l’esilio, il 30 gennaio 2011, due settimane dopo la vittoria della rivoluzione, Ghannouchi ha fatto visita agli Stati Uniti per ben cinque volte. La sua narrazione di un Islam democratico ha suscitato e continua a suscitare moderata speranza. L’idea che non solo non esista un’eccezione arabo-musulmana, ma l’Islam possa essere un pilastro per la democrazia, è uno dei concetti chiave di Ghannouchi.
Una settimana fa, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Obama ha detto che la nuova costituzione tunisina è un modello di compromesso tra istanze laiche e religiose. Ghannouchi si è appuntato la citazione e parte proprio da lì: “Il motivo per cui la Tunisia si appresta a vivere le sue seconde elezioni democratiche, in meno di tre anni, è dovuto a cinque fattori – dice – il rifiuto del monopolio del potere da parte del partito di maggioranza (il suo), la coesistenza tra partiti con valori politici molto distanti, l’esercizio del consenso, l’inclusività e la democratizzazione del nuovo esercito repubblicano.”
Il leader di Ennahda dice di non voler concedere interviste, ma una volta che l’abbiamo avvicinato non ha esitato a rispondere a tutte le nostre domande. E prova a rassicurare. L’articolo 6 della nuova costituzione è un manifesto del suo messaggio: “lo stato tunisino si impegna a diffondere i valori della moderazione e della tolleranza e a prevenire l’odio e la violenza”.
Ma questo non ha impedito a oltre duemila giovani tunisini di arruolarsi nelle fila dell’ISIS e a molti altri di abbracciare gli ideali del Califfato. Ghannouchi dice però che la Tunisia è in prima linea nella lotta al terrorismo: “Dal 27 agosto 2013 il gruppo Ansar al-Sharia fa ufficialmente parte della nostra lista nera. Abbiamo arrestato decine dei suoi leader, smantellato le sue cellule, impedito attacchi violenti. Se non ci siamo uniti alla coalizione contro l’ISIS, guidata dagli Stati Uniti, è solo perché tutti gli sforzi sono concentrati al nostro interno.”
Eppure, gli studenti della Columbia University non mancano di rinfacciare a Ghannouchi quello che giudicano un “doppio standard”, un occhiolino all’occidente da un lato e un occhiolino ai salafiti dall’altro. Il famoso video rubato nell’aprile 2012, nel quale Ghannouchi diceva ai leader salafiti che i loro obiettivi erano gli stessi di Ennhada, solo i metodi parzialmente diversi, rimane un esempio di quella che i suoi critici definiscono una pericolosa ambiguità.
Ma Ghannouchi sciorina dati che vorrebbero rispondere alle critiche: “Alle elezioni del 2011 tutti i partiti salafiti non partecipavano al gioco democratico, tra un mese tre di loro si presenteranno alle urne. Il dialogo è l’unica via per convincere gli estremisti ad abbandonare la tentazione della violenza.”
E la sharia? E le donne? “Alla sharia abbiamo rinunciato. L’articolo 1 della nostra costituzione recita che la religione ufficiale in Tunisia è l’Islam e la lingua è l’arabo. Per noi è sufficiente.”
Alla domanda sulle donne risponde Amel Azzouz, la deputata di Ennhada che accompagna Ghannouchi come un’ombra: “Le donne del mio partito sono più minacciate delle altre, l’estremismo vede l’Islam moderato come il proprio nemico principale. La nostra presenza è un baluardo per la difesa della democrazia e un esempio per gli altri paesi.”
Abdel Aziz Hali, che segue il tour di Ghannouchi per conto de La Presse, uno dei principali quotidiani di Tunisi, non è per nulla convinto: “Questi sono specchietti per allodole. Ghannouchi si porta dietro una deputata per il suo tour americano, ma Amel Azzouz è totalmente sconosciuta al pubblico tunisino. E comunque il suo vero obiettivo qui è la raccolta fondi. Da un lato vuole convincere gli americani che è lui il tramite tra Islam e democrazia, dall’altro qui lo aspettano gli intermediari dell’emiro del Qatar. Le prossime elezioni le vincerà coi soldi che ha raccolto.”
Ma alle prossime elezioni il partito di Ghannouchi parteciperà solo a metà. Con una scelta che ha stupito molti, a inizio settembre, Ennhada ha annunciato che non presenterà un suo candidato per le presidenziali. Ghannouchi la spiega così: “Vogliamo mantenere il carattere plurale della nostra democrazia. Speriamo di avere la maggioranza in parlamento, ma lasceremo ad altri il compito di guidare il paese dallo scranno del presidente.”
Così, gli ultimi sondaggi, che secondo la legge tunisina possono essere pubblicati solo fino a tre mesi prima delle elezioni, davano Ennhada in vantaggio per le legislative, ma il candidato di uno dei partiti laici, l’ex primo ministro post-rivoluzione, Beji Caid Essebsi, in testa per le presidenziali.
Mustapha Tlili, anziano esponente di una delle grandi famiglie della sinistra storica tunisina e oggi direttore del Centro per il Dialogo della New York University, è però molto pessimista: “Essebsi è un uomo della vecchia guardia, a capo di un partito che mette assieme il peggio dell’establishment di Ben Alì.”
Ciò che a Tlili sembra funesto, ai più appare comunque meglio delle altre rivoluzioni. Nedal Swehli, alto funzionario del governo libico in visita a New York, si lascia andare a un commento che cela preoccupazione: “Sono venuto ad ascoltare Ghannouchi nella speranza che la loro democrazia ispiri la nostra”.
Nel frattempo, proprio Ghannouchi risponde alle ultime critiche: “La Tunisia di oggi è cento volte meglio della Tunisia di quattro anni fa. La rivoluzione cominciata il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, e in pochi mesi propagatasi in tutta la regione, ha portato una stagione di cambiamento dalla quale non si torna indietro. La luce della Tunisia democratica e musulmana continuerà a essere un faro per il resto mondo arabo. E pian piano, pur in mezzo a mille contraddizioni, gli altri seguiranno.”
Di fronte al freddo inverno che ha fatto seguito alle primavera arabe, negli Stati Uniti non tutti si lasciano convincere facilmente. Ma tanti sperano che abbia ragione lui.
Il 26 ottobre e il 23 novembre sono i prossimi giorni della verità.
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