Da Reset-Dialogues on Civilizations
“Non è la secolarizzazione che ci spinge a riflettere sulla convivenza. Abbiamo abbastanza materiale a disposizione nelle nostre tradizioni per farlo.”
Con queste parole il 10 ottobre il Professor Abdulaziz Sachedina ha introdotto l’auditorio riunito a Hartford Seminary – un’istituzione statunitense il cui motto è “Esplorare le Differenze, Approfondire la Fede” – al tema delle radici islamiche della convivenza. Un uomo pieno di energie, dinamico e carismatico, Abdulaziz Sachedina è professore di Studi Islamici presso l’Università George Mason in Virginia. Nato in Tanzania, vanta un background accademico internazionale avendo studiato in India, Iraq, Iran e Canada. I suoi principali campi di interesse sono legati all’etica sociale e politica, al dialogo interreligioso e al concetto di diritti umani nell’Islam.
Nella conferenza che ha tenuto a Hartford Seminary riguardo a La Teologia Politica del Pluralismo nell’Islam: Etica Religiosa della Convivenza, ha discusso la differenza fra inclusivismo e pluralismo, spiegando che l’inclusivismo riconosce la presenza di altre tradizioni che posseggono una loro parte di verità affermando però, allo stesso tempo, l’esistenza di una tradizione superiore alle altre mentre il pluralismo non si limita alla tolleranza ma richiede di accettare l’auto-affermazione di verità delle altre tradizioni. Essendo un sostenitore del pluralismo, affermerebbe quindi che l’Islam non è una religione superiore o una via migliore per l’umanità?
Credo che dobbiamo imparare ad essere pluralisti e non semplicemente inclusivi. Se sei inclusivista allora consideri di possedere la verità e di avere un diritto maggiore degli altri su di essa. Allo stesso tempo stai sminuendo la verità di chi ti sta accanto. In poche parole stai dicendo: “Ti rispetto per quello che sei ma sono meglio di te”. L’essere inclusivi è meglio dell’essere esclusivi ma la mia paura è che generalmente i credenti siano esclusivisti piuttosto che inclusivisti. Le masse non si limitano a vedersi superiori, a volte finiscono per considerarsi i “salvati”, coloro che hanno in mano la piena verità.
Per questo, la mia battaglia sul campo è quella di insegnare la maniera di essere inclusivi che permette alle persone di essere se stesse senza aver bisogno di sminuire gli altri fino al punto di pensare: “Ti posso tollerare ma non ti accetto”.
Ma ora stiamo parlando di inclusivismo, non di pluralismo. Mi chiedo dove avvenga il passaggio dal primo al secondo…
Il pluralismo è possibile nell’Islam perché Dio stesso ha creato il pluralismo. Tuttavia, stiamo affrontando discorsi complicati e non voglio fare finta che le tensioni non esistano perché in realtà le tensioni ci sono. Nel mio libro Islam and the Challenge of Human Rights, affermo chiaramente che le comunità religiose sono, alla fine dei conti, psicologicamente esclusiviste mentre nel mondo di oggi, c’è bisogno di un atteggiamento pluralistico per accettare gli altri esseri umani come partner al nostro stesso livello nel campo della cittadinanza. Viviamo infatti in moderni stati-nazione nei quali siamo cittadini e abbiamo gli stessi doveri e diritti umani. Ecco perché le comunità religiose, specialmente quelle di maggioranza, devono imparare a rispettare gli altri. Credere di avere la verità non implica la necessità di disumanizzare l’altro. L’altro è un essere umano e ha il diritto di credere in ciò che vuole. Questo atteggiamento richiede rispetto e reciprocità.
Essere cittadini di uno stato è differente rispetto all’essere membri di una comunità religiosa. Le comunità religiose spesso si costruiscono un muro attorno e sono molto nette riguardo ai propri rituali, le proprie pratiche e le proprie credenze. Nel mondo di oggi è importante cercare i punti di intersezione fra cerchi concentrici e non costruire cerchi con un recinto che li isola. Appartenere a differenti comunità religiose non significa dover combattere e odiare gli altri. L’idea dei cerchi concentrici vuole dimostrare che un musulmano come me condivide alcuni valori con il proprio vicino di casa cattolico. È lì che troviamo il nostro terreno comune, la nostra intersezione.
In una società in cui molte persone non condividono una visione tradizionalmente religiosa della vita, come può essere applicato il concetto di pluralismo religioso?
Credo che questa domanda sia proprio il campo in cui vivo la mia battaglia intellettuale. Quando vado in India, vedo gli induisti e i musulmani convivere pacificamente. Le differenze chiaramente esistono ma loro sono in grado di creare una cultura della cooperazione. Oggi, molti cristiani, musulmani ed ebrei non vogliono far parte di comunità confessionali. Molti musulmani che conosco personalmente non vanno più in moschea: non apprezzano la religione organizzata e la ritengono di ristrette vedute. Probabilmente molti cristiani la pensano alla stessa maniera.
Ci sono culture in cui varie fedi convivono ma non tutti condividiamo lo stesso livello di religiosità. Possiamo non essere d’accordo su questioni spirituali o teologiche ma siamo tutti membri della stessa società umana e abbiamo bisogno di creare uno spazio di cui tutti possiamo sentirci parte senza causare paure o difficoltà tra di noi. La cultura della cooperazione si costruisce attorno alla cittadinanza.
Questo spiega perché le società multiculturali e multireligiose sono avvantaggiate. Prendiamo ad esempio l’Arabia Saudita: l’Islam è l’unica religione riconosciuta quindi non esistono istituzioni religiose di altre comunità. I sauditi hanno chiaramente difficoltà quando arrivano in Nord America perché hanno una mentalità molto differente. Se pensiamo invece all’Iran, lì troviamo ebrei iraniani, cristiani iraniani, musulmani sciiti e sunniti. Ciò non significa che non esistono discriminazioni ma che, a livello di cittadinanza, nel mondo degli affari o nel bazar, le persone lavorano insieme anche se appartengono a comunità differenti.
Oggi le differenze religiose non contano più molto nella mia identità. C’è stato un tempo, 50 o 60 anni fa, in cui la mia identità religiosa era una parte fondamentale di me. Ora non conta più così tanto.
Si parla spesso della differenza fra sfera pubblica e privata riguardo alla religione. Nel suo libro The Islamic Roots of Religious Pluralism afferma che privare un credente della capacità di portare la fede nella sfera pubblica significa “privare la religione del suo fondamento etico” (p.10). Quale crede che sia la preoccupazione dei laicisti quando parlano dell’interferenza religiosa nella vita pubblica e come crede che sia possibile risolvere questo conflitto?
I laicisti credono che, se si permette alla religione di avere più voce nel settore pubblico, si possa andare incontro a problemi maggiori. La filosofia politica secolare considera proprio dovere quello di costruire il consenso e, in questo caso, un consenso su vari livelli. Vogliamo portare insieme persone con differenti letture e punti di vista del mondo in nome di una causa comune. Infatti, ci sono cose sulle quali tutti concordiamo e che rientrano nel campo dell’etica, come per esempio la necessità di rispondere alla povertà. Nella concezione secolare, le persone hanno bisogno di una vita ordinata per poter prosperare, vivere in pace e avere libertà di base. I laicisti temono che, nel momento in cui i credenti raggiungono la sfera pubblica, vogliano controllare queste libertà; potrebbero ad esempio non voler riconoscere gli omosessuali o i diritti delle donne.
Da una parte credo che le paure dei laicisti siano fondate ma, dall’altra, i laicisti non vedono l’altra faccia della medaglia: unirsi in nome di cause comuni diventa possibile perché esiste una base morale comune che unisce le persone mostrando loro l’importanza di lavorare insieme. Bisogna essere pronti a venirsi incontro e dirsi: “So che non sarò religioso come te e tu non hai bisogno di essere laico o ateo come lo sono io ma abbiamo bisogno di lavorare insieme”. Le nostre società hanno bisogno di collaborazioni.
Prendiamo ad esempio l’Iran. Religiosi e laici hanno aperto una via di dialogo ma i laicisti liberali considerano ancora problematica l’ala religiosa in quanto la vedono desiderosa di controllare il resto della società e di limitare le libertà. Questa paura è in parte fondata perché nel momento in cui l’ala religiosa entra nella sfera pubblica porta con sé una moralità impregnata di valori religiosi che viola la neutralità dell’arena pubblica. Il risultato è poi quello di imporre alle donne di coprirsi i capelli o di dire alle persone come vestirsi. Nei giorni scorsi ho sentito che il nuovo presidente iraniano, Hassan Rohani, ha affermato che l’hijab non deve essere obbligatorio. Le donne devono indossare abiti rispettabili in pubblico ma devono avere la possibilità di scegliere se coprirsi i capelli o meno. Nel momento in cui le religioni cominciano ad obbligare le persone a comportarsi in un determinato modo, si corre il rischio di creare ipocrisia e questo non aiuta assolutamente la gente a diventare religiosa o spirituale.
Viene spesso citato un detto: “La mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro”. È d’accordo?
La mia maniera di vivere la libertà non deve invadere il campo dell’altro. Posso parlare del mio diritto di dire all’altra persona tutto ciò che voglio ma nel momento in cui, per esempio, uso un linguaggio discriminatorio e insulto l’altra persona o la sua religione in pubblico, sto violando la sua libertà. Ognuno ha il diritto di credere in quello che vuole. La mia libertà ha i suoi limiti. Non posso usare un linguaggio discriminatorio perché non mi piace chi ho di fronte o per colpirlo. Dobbiamo cercare la reciprocità quando chiediamo o esigiamo qualcosa dall’altro. Se ti chiedo di rispettarmi allora chiedimi di rispettarti. La reciprocità è uno strumento importante per mantenere libertà equilibrate. Non posso esercitare il mio diritto alla libertà senza considerare chi mi sta di fronte.
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