Da Reset-Dialogues on Civilizations
Quanto incide ancora il passato islamico sulle economie e sulle istituzioni dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente? La risposta di chi, come Timur Kuran, ne ha esaminato scientificamente il passato e il presente è “molto, di sicuro. E facciamo attenzione che la democrazia nella regione è una novità assoluta mentre la società civile rimane debole”. Kuran è uno studioso che si è occupato della differenza, anzi della “divergenza” tra le due economie, quella capitalistica occidentale e quella dei paesi a maggioranza musulmana. Professore alla Duke University nel North Carolina, newyorchese di nascita, turco-americano, l’autore di The Long Divergence (Princeton Un. Press, 2011) unisce la disciplina economica con gli studi politici, giuridici e storici. E nel campo della comparazione economica Islam-Occidente gli viene oggi riconosciuta una grande autorità, che si sta facendo strada anche nei paesi arabi, nel Golfo e in Marocco, con le prime traduzioni. Lo sfondo storico della “divergenza” pesa e sentire oggi il primo ministro turco che si scaglia contro l’eccessivo uso della carta di credito fa riemergere dal profondo le linee divisorie persino in Turchia, dove una lunga prevalenza della cultura secolare kemalista aveva cancellato le diffidenze islamiche verso il tasso di interesse.
Non è impressionante veder tornare in un discorso di Erdogan divieti teologici contro elementi chiave dell’economia moderna? è accaduto anche per le misure restrittive sul consumo di alcolici, motivate con ragioni religiose. Un ritorno al passato nella “eccezione” turca?
Durante i suoi due primi mandati Erdogan si riferiva raramente alla religione nei suoi discorsi politici, perché’ non voleva fornire facili pretesti alla magistratura e all’esercito per attaccare l’AKP (il suo Partito della giustizia e dello sviluppo). Adesso che l’esercito è stato reso inoffensivo e la magistratura più conservatrice attraverso sostituzioni, si sente libero di invocare l’Islam in ogni circostanza. Nel caso delle restrizioni agli acoolici ha ripetutamente affermato che ‘la religione non sbaglia mai’. E I suoi attacchi alle lobbies occidentali dell’interesse, che accusa di cospirare contro la Turchia per la sua identità islamica, dice agli elettori che starebbero meglio in una economia islamica senza tassi di interesse. È anche una forma di populismo: l’uso delle carte di credito è esploso negli anni dell’AKP al governo e un rilevante segmento della crescente classe media soffre il debito da carta di credito. Dunque cerca di apparire come difensore del popolo vittima di una malefica cospirazione.
Eppure la Turchia tra i paesi a maggioranza musulmana appare un’eccezione. Le sue banche possono fondersi con quelle europee.
La Turchia, un Paese ufficialmente laico, si è dotata di un sistema bancario convenzionale, con le banche che concedono e incassano interessi alla luce del sole. Nell’ultimo quarto di secolo sono nate anche diverse banche islamiche, ma il 94% degli asset bancari è controllato da istituti convenzionali, simili a quelli europei. Vale la pena di notare che a fronte di tutti i problemi che affliggono l’Europa, con molte banche sulla via del fallimento o in fase di ricapitalizzazione, gli istituti turchi hanno superato egregiamente la crisi. Il fatto è che la Turchia era già stata colpita dalla crisi del 2001. Quell’anno molte banche fallirono e dovettero essere inglobate da altri istituti. Allora la causa dei fallimenti fu individuata in una serie di rischi che le banche avevano deciso di correre. Dopo di che la normativa del settore bancario fu sottoposta a revisione. È proprio per questo che le banche turche oggi sono molto più sane di quelle greche. Dieci anni fa, le banche greche compravano gli istituti turchi in difficoltà a prezzi convenienti nella speranza di rimetterli in sesto. Oggi i ruoli si sono capovolti. Sono le banche turche ad acquisire le banche greche che navigano in cattive acque.
Dunque la Turchia nella “lunga divergenza” tra est e ovest sta dalla parte della modernizzazione ed è diventata un modello importante per il mondo arabo. Ma non c’è ora il rischio l’ultima fase del governo Erdogan non comprometta questa situazione?
Erdogan ha inaugurato il suo mandato da primo ministro nel 2003 con una piattaforma economica liberale. In linea di massima è stato fedele anche alla democrazia pluralista. Con il consolidamento della sua posizione di potere, tuttavia, quella fedeltà è venuta meno. Oggi Erdogan sposa una versione della democrazia molto più riduttiva, basata sulla mera forza elettorale. Tra un’elezione e l’altra – questa è l’idea di fondo – chi gode del sostegno della maggioranza può fare quello che vuole. Di qui i recenti disordini nel Paese. Erdogan si è trasformato in un leader autoritario intento a ridefinire, secondo i principi dell’Islam conservatore a cui s’ispira, cosa significa essere un buon cittadino turco, seguire una sana morale, condurre una vita “decente”. Si tratta di un cambiamento epocale.
E come è potuto accedere?
La causa di fondo è il venir meno di qualsiasi limitazione al suo potere. Due sono stati i fattori cruciali. Il primo è l’estromissione dell’esercito dalla vita politica. Centinaia di generali sono finiti dietro le sbarre per “tentato colpo di Stato”. In passato, i militari potevano intervenire quando i principi laici venivano violati. Oggi sono impotenti. Il secondo è legato al fatto che la maggior parte dei cittadini turchi non è più convinta che l’adesione del Paese alla comunità europea come membro a pieno titolo sia una possibilità realistica. Molti di loro, di fronte ai problemi che affliggono Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e altri Paesi, e alla luce del nuovo dinamismo economico della Turchia, ritengono che il gioco non valga la candela. Il governo dell’Akp e il premier Erdogan non credono più che sia importante avere l’opinione pubblica europea dalla loro parte. Ciò a cui stiamo assistendo oggi in Turchia è la conseguenza dell’eccesso di potere nelle mani di una sola persona. Erdogan può portare avanti la sua agenda socio-politica perché ne ha i mezzi. E gli effetti rischiano di essere politicamente destabilizzanti.
Crisi dunque del modello turco?
Il modello turco a cui lei fa riferimento comprendeva una serie di freni e contrappesi esercitati sia dall’Europa sia dal sistema turco stesso. Oggi tutto ciò è svanito. Il che rimette in discussione l’utilità del modello come faro di democrazia per i Paesi arabi.
Il disastro politico egiziano accende un vasto dibattito politico: un movimento di protesta senza linee guida, il ruolo dell’esercito, il fallimento dei Fratelli Musulmani. Ma sotto tutto questo non c’è il dramma di una economia che non deve futuro, di milioni di giovani senza lavoro?
Proprio così, ma politica ed economia in Medio Oriente sono due aspetti inscindibili. L’instabilità politica aggrava i problemi economici, che a loro volta si ripercuotono negativamente sul sistema politico. Se l’economia è stagnante, come nel caso dell’Egitto, il conflitto tende a essere considerato un gioco a somma zero, che non porta a una trattativa né a un compromesso. Le cause degli attuali problemi dell’Egitto, dunque, sono sia politiche sia economiche.
E le ragioni storiche e strutturali da lei illustrate in The Long Divergence, contano anche nella crisi attuale?
Sí, e spiego perché. In Medio Oriente la società civile è sempre stata debole, mentre in Europa, nel corso del secondo millennio, si è progressivamente rafforzata grazie alle corporazioni, in particolare quelle urbane, ecclesiastiche ed accademiche. In Medio Oriente le funzioni svolte dalle corporazioni europee erano espletate dal waqf, una sorta di consorzio o fondazione. I waqf si caratterizzano per una struttura molto più rigida; non possono adattarsi ai mutamenti economici e tecnologici, e soprattutto non prendono parte alla vita politica. Ecco il motivo per cui, nel corso dei secoli, le organizzazioni private in Medio Oriente sono sempre state meno diffuse (e più deboli) rispetto a quelle europee. I mercanti non erano in grado di esercitare alcun controllo sui poteri del sovrano, a differenza di quanto accadeva in Europa. Il moderno Medio Oriente non ha una tradizione di freni e contrappesi a cui attingere. Di qui la sua instabilità politica, e gli enormi svantaggi che ne derivano sul fronte economico. L’Egitto è un caso emblematico e non riesce ad attirare capitali stranieri, diversamente da quanto avviene in Asia orientale ed è avvenuto per tanti secoli in Europa.
Ha citato una istituzione cruciale nella storia dei paesi islamici, il waqf. In cosa consiste esattamente, e perché questa istituzione caritatevole è ancora un problema per i paesi musulmani?
Il waqf è un consorzio o una fondazione istituita da un singolo, che ne è anche proprietario, per garantire un particolare servizio “in perpetuo” vincolando a tale scopo una serie di beni. Il presupposto è che il reddito fornito da tali beni sia sufficiente per finanziare il servizio in eterno. Il servizio è immutabile; il fondatore ne determina le caratteristiche per tutte le generazioni future. I beneficiari del servizio stesso non possono farci niente. Se, col passare del tempo e al mutare delle condizioni, desiderano introdurre qualche cambiamento, non ne hanno la possibilità.
È sostanzialmente per questo motivo che la società civile ha stentato a emergere nei Paesi mediorientali e oggi risulta debole. Nel caso delle organizzazioni europee, i soggetti coinvolti hanno la possibilità di manifestare nuove esigenze ed esprimere un parere sugli amministratori. Non così nei waqf mediorientali.
Il waqf islamico così come l’ho descritto non è molto diffuso nell’odierno Medio Oriente: nel corso del XIX secolo tali istituzioni furono in larga parte smantellate, e i loro capitali sono confluiti in enti governativi. La regione sconta tuttavia l’assenza di una tradizione di gruppi di individui che si confrontano su forme e modalità di gestione dei beni collettivi.
Il retaggio del waqf arriva fino alla politica egiziana di oggi?
Costituisce ancora un enorme problema. Quando sono scontenti del loro presidente, gli egiziani scendono in piazza, come a Tahrir. Negli ultimi anni è successo tre volte, e i manifestanti sono accorsi a milioni. Nonostante il successo di tali proteste, i cittadini non sono a quanto pare capaci di organizzarsi in comitati locali, nelle città da un capo all’altro del paese, né in associazioni professionali per discutere e risolvere i loro problemi in modo democratico. Hanno difficoltà a far convergere le diverse forze politiche per concordare una Costituzione in uno spirito di compromesso. Hanno difficoltà a formare un governo che rappresenti le varie componenti della società, impegnandole nella ricerca di un accordo. L’arte del compromesso e del negoziato è qualcosa che viene spesso dato per scontato nei paesi che vantano una tradizione di risoluzione dei problemi economici in via negoziale. È qui che entra in gioco l’istituzione del waqf. Il fatto che per circa dodici secoli esso abbia svolto un ruolo così importante in Medio Oriente è stato un ostacolo all’acquisizione, da parte degli egiziani, delle prerogative della cittadinanza democratica.
Anche in Occidente sappiamo bene che i tempi della democrazia sono molto ristretti, mentre la risoluzione dei vari problemi sul tappeto richiede scadenze più lunghe. Le riforme necessarie all’economia dei paesi musulmani porteranno, negli anni a venire, al superamento di limiti strutturali come il waqf, come il rifiuto dell’interesse sul capitale e la dimensione individualistica delle imprese. Tempi lunghissimi e intanto?
Questo è l’enorme problema. Riformulando la questione, direi che se Paesi relativamente avanzati e stabili, come l’Italia e la Spagna, con una tradizione democratica e consociativa, hanno difficoltà a raggiungere i compromessi necessari per risolvere i loro problemi, come possiamo aspettarci che l’Egitto, alle prese con difficoltà ben più gravi, ponga rimedio a queste ultime in una cornice democratica? Io stesso sono scettico al riguardo, e proprio per questo temo che non vi sia una soluzione immediata. Le istituzioni democratiche europee sono maturate nell’arco di centinaia di anni, e dopo tante battaglie e battute d’arresto. Per uscire dalla crisi attuale in modo democratico o semidemocratico, l’Egitto ha una sola possibilità: affidarsi a un leader fortemente carismatico e straordinariamente capace. Un leader, cioè, che sappia parlare alla gente, convincendola a farsi carico dei costi di una ridistribuzione delle risorse e di una riduzione dei sussidi in cambio di benefici sul lungo periodo. Naturalmente, è proprio ciò che il nuovo premier e il presidente ad interim del Paese hanno dichiarato di voler fare. Il mio timore, tuttavia, è che non abbiano né il carisma, né la credibilità politica necessari per portare a termine un compito del genere. Non appena si renderanno conto delle conseguenze (prima tra tutte l’aumento del prezzo del petrolio e dei generi alimentari), molti cittadini scenderanno nuovamente in piazza. La cosa migliore che possiamo fare noi outsider è cominciare a spiegare agli egiziani, e tentare di convincerli, che occorreranno molti sacrifici per uscire da questo pantano.
Anche le diverse forme di aiuto rappresentano un problema. All’aiuto americano si aggiungono quelli altrettanto decisivi del Qatar e dell’Arabia Saudita, che non spingono in una direzione riformatrice. Per non parlare dell’assenza di un intervento europeo…
L’aiuto esterno può essere un ostacolo a riforme essenziali. Quando era al potere, Morsi ha ricevuto otto miliardi di dollari dal Qatar e due dalla Turchia – due Paesi con governi vicini alla Fratellanza Musulmana. I fondi stanziati a sostegno della transizione, tuttavia, hanno di fatto consentito a Morsi di rinviare i cambiamenti di cui il Paese aveva bisogno, approfittando della situazione per consolidare il suo potere politico. Ora sono i Paesi che non vedevano di buon occhio Morsi e sostenevano l’esercito, primi tra tutti l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, ad accorrere in aiuto dell’attuale governo con miliardi di dollari. Una delle conseguenze sarà un ulteriore rinvio delle riforme a data da destinarsi, nella speranza che dalle elezioni scaturisca un esecutivo capace di affrontare i problemi più urgenti, mentre le file dei disoccupati continuano a ingrossarsi. Per non parlare dei problemi ambientali che il Paese è chiamato ad affrontare, per evitare che aggravino quelli economici. Anch’essi richiedono un intervento immediato.
Un altro grande problema dell’Egitto è l’istruzione: l’altissimo livello di analfabetismo.
Sono fermamente convinto che gli aiuti alla regione debbano essere destinati innanzi tutto all’istruzione e al rafforzamento delle organizzazioni della società civile (organizzazioni, cioè, realmente indipendenti dallo Stato). I frutti di tali investimenti, tuttavia, non si vedono nell’immediato. Ci vorrà almeno un decennio prima di riscontrarne i benefici. Dobbiamo intanto riconoscere che l’Egitto si avvia a diventare uno “Stato fallito”, perché è privo delle istituzioni e delle capacità di paesi più prosperi e in pace con se stessi, e difetta di molti dei presupposti della stabilità politica e della crescita economica.
L’idea che un Paese come l’Egitto diventi uno “Stato fallito” è inquietante, anche alla luce del suo boom demografico, con una popolazione che si sta avvicinando alla soglia dei 100 milioni di abitanti. Troppo grande per fallire, come si dice delle banche!
Purtroppo stiamo attraversando una fase storica in cui, a causa dell’invecchiamento della popolazione, l’Europa, il Nord America e perfino il Giappone non possono lanciare un nuovo Piano Marshall. I loro cittadini non sono disposti a stanziare ingenti risorse per un paese come l’Egitto prima di aver pensato ai tanti bisogni di casa propria. Da dove possono arrivare, dunque, i capitali necessari? Dal mondo arabo stesso, che conta al suo interno molti Paesi ricchi – abbiamo già citato l’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti. Paesi che, purtroppo, sono governati da dinastie che fanno di tutto per ostacolare il processo di riforme e per impedire l’affermazione della democrazia. Due di essi hanno indebolito il governo Morsi, e non per via del suo islamismo – ai loro occhi quello avrebbe dovuto essere un punto a favore –, ma perché ostili all’idea della democrazia, e in particolare di una democrazia islamista, cioè suscettibile di istigare i cittadini alla rivolta. La situazione è dunque critica. Coloro che dispongono delle risorse economiche sono intenti a ostacolare le riforme democratiche, anziché promuoverle. Naturalmente l’Europa e gli Stati Uniti hanno una certa influenza sui Paesi arabi in questione. Se fossero seriamente intenzionati ad aiutare l’Egitto, farebbero pressioni sull’Arabia Saudita, sugli Emirati Arabi Uniti, sul Kuwait e su altri Paesi, per convincerli a stanziare le risorse necessarie al processo di riforme. Ma a tal fine la Nato dovrebbe intromettersi negli affari interni del mondo arabo, e una scelta del genere comporta rischi politici enormi.
Nel Golfo ci sono floride compagnie che dialogano senza scrupoli teologici con l’occidente. Gli Emirati hanno una compagnia aerea molto competitiva. Il Qatar comprando immobili e squadre di calcio in Europa. Se gli emiri sono attratti dall’Occidente, perché rifiutano i suoi modelli di analisi? Lei tiene conferenze in Qatar o a Riyad?
No, ma ho parlato ad Abu Dhabi, in Marocco e in Tunisia. Sono stato invitato anche in altri Paesi, ma gli incontri sono poi stati annullati per motivi di sicurezza: qualcuno si è opposto adducendo come giustificazione le mie opinioni controverse. Quando mi capita di parlare davanti a una platea araba, tuttavia, trovo sempre interlocutori aperti, anche se di idee conservatrici. Capiscono che non sono un attivista che parla per slogan, ma uno studioso. Si rendono conto che i miei ragionamenti si basano su dati di fatto, seguono un filo logico e sono facili da comprendere. Ma c’è anche chi vorrebbe mettermi il bavaglio. Quel che manca nel mondo arabo è un dibattito serio e aperto sulle istituzioni tradizionali, specialmente quelle legate in un modo o nell’altro all’Islam. Il fatto è che chiunque provi a esprimere una posizione critica rischia di vedersi accusato di ostilità nei confronti dell’Islam stesso. In Medio Oriente, e nel mondo arabo in particolare, la gente è spesso frenata dalla paura. Negli ambienti accademici occidentali si assiste a un vivace dibattito su questi temi. Ma i ragionamenti che formuliamo e illustriamo on-line non vengono quasi mai discussi all’interno dei Paesi arabi, né suscitano reazioni da parte dei loro cittadini.
Traduzioni in arabo?
Ci tengo a ricordare che un mio saggio, Islam and Mammon, è stato recentemente tradotto da una fondazione con sede in Marocco. E la stessa fondazione sta traducendo The Long Divergence. Si tratta di segnali positivi.
(traduzione di Enrico Del Sero)