Il sionismo, movimento che sprona il ritorno degli ebrei dalla diaspora alla loro terra promessa, è stato fin dagli esordi un fronte composito inclusivo di molte correnti ed anime: quella liberale di Chiam Weizmann e Theodor Herzl, quella laburista di David Ben Gurion, “padre della patria” e successivamente di numerosi leader di Israele come Golda Meir fino a Yitzhak Rabin, e infine quella religiosa di Rabbis Reines. I sionisti religiosi, del tutto minoritari a inizio ‘900, si riunivano in un movimento denominato “Mizrahi” (“il centro spirituale”, dall’acronimo ebraico ha-Merkaz ruhani, da non confondere con l’aggettivo ebraico “mizrahi”, che significa “orientale”, e designa gli ebrei provenienti dai Paesi islamici), l’unica corrente religiosa a non vedere una contraddizione tra la fede nel Messia e l’accelerazione alla redenzione della terra promessa che i sionisti avevano impresso alla storia ebraica tramite la fondazione dello Stato di Israele.
All’epoca, ha-Mizrahi cercavano una riconciliazione possibile con la modernità, coniugando fede e nazionalismo nel contesto dei paesi dell’Europa centrale e dell’Europa dell’Est. Il movimento era nato nel 1902 a Vilnius (Lituania), nel cuore dell’Europa aschenazita, e divenne un partito nel 1921, quando esisteva ancora l’Yishuv, l’autogoverno ebraico nella Palestina mandataria britannica. La sua particolarità stava nell’accettazione del sionismo politico come movimento compatibile con la religione, nonostante all’epoca i sionisti laici rifiutassero apertamente tutti i simboli religiosi (gli ebrei barbuti e con i boccoli), giudicando negativamente gli ebrei ortodossi come inermi e inutili tanto al lavoro che alla guerra. Un’immagine negativa che si sarebbe amplificata dopo la Seconda guerra mondiale, quando gli ebrei religiosi aschenaziti sarebbero stati associati alla distruzione degli ebrei d’Europa, essendosi lasciati condurre come montoni al macello con la benedizione dei loro rabbini, che non avrebbero insegnato loro a reagire e combattere. Così intere generazioni di israeliani laburisti e comunisti nutrirono un aperto disprezzo per gli ebrei religiosi associati alla diaspora, cercando di costruire un modello a essi opposto, quello del “sabra”, l’uomo israeliano stoico, che non si lascia intimidire né dalla fatica né dall’ostilità dell’ambiente né tantomeno da quella degli altri uomini, ma che, al contrario, è pronto a combattere per la sua ricostituita patria.
Quando Israele divenne uno Stato indipendente, ha-Mizrahi si fuse con i partiti religiosi haredi, ultraortodossi, Agudat Yisrael e Poalei Agudat Yisrael, riuscendo a strappare 16 seggi e diventando la terza forza alla Knesset, dopo il partito socialista Mapai di David Ben Gurion e il partito sionista comunista Mapam. Ben Gurion, che adottava un approccio pan-ebraico e non voleva alimentare settarismi, chiese al Fronte Religioso Unito di partecipare al governo e stipulò il famoso “status quo”, che regola ancora oggi i rapporti tra Stato e religione, affidando al Rabbinato l’esclusività su tutti gli atti giuridici in materia di diritto di famiglia, inclusi matrimonio e divorzio, l’autonomia delle comunità ultraortodosse all’interno dello Stato e la loro esenzione dal lavoro e l’osservanza dello shabbat e della kashrut. Infine, nel 1955 la corrente nazionalista-religiosa iniziò ad assumere una propria fisionomia indipendente dai partiti ultraortodossi in Israele, staccandosi dal Fronte Religioso Unito per correre da sola, conquistando 11 seggi alle elezioni e modificando il suo nome in Partito Nazionalista Religioso (ha-Tzionut ha-datit).
Le origini ideologiche del sionismo religioso vanno fatte risalire soprattutto alla figura carismatica del rabbino Abraham Isaac ha-Cohen Kook (1865-1935), il primo Gran rabbino aschenazita d’Israele durante il mandato britannico, che sposò il sionismo fondendolo con la teologia ebraica, leggendo in esso l’anticipazione dell’arrivo del Messia. Al contrario di tutti i rabbini prima di lui, egli riteneva che la terra d’Israele non rappresentasse solo un possesso materiale e non comportasse solo la ricostituzione del popolo ebraico in quanto nazione, ma il compimento di un disegno divino (atchalta dege’ula, l’inizio della redenzione) che si sarebbe concluso col riscatto dell’intera terra, dopo il quale il popolo ebraico si sarebbe ricongiunto con Dio, conducendo l’intera umanità verso il Giudizio Universale. In sintesi, la riconquista d’Israele avrebbe rappresentato l’incedere di un’epoca escatologica, necessaria e propedeutica alla fine del mondo. Alla sua morte, la scuola da lui fondata, la Yeshiva Merkaz ha-Rav, sarebbe stata ereditata da suo figlio rabbi Zvi Yehuda Kook (1891–1982), che avrebbe imposto le idee del padre al centro del dibattito politico in Israele.
Rabbi Kook figlio, infatti, visse durante la Guerra dei Sei Giorni, partecipando al grande successo militare di Israele, che, inaspettatamente, vide nell’arco di pochi giorni nel giugno 1967 il Paese conquistare la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, il Golan e il Sinai (quest’ultimo, unico territorio ad essere successivamente restituito all’Egitto con il Trattato di pace del 1979). È questo il momento storico in cui il sionismo religioso viene infuso di nuova linfa e che marca l’inizio dell’era propriamente messianica: il rabbino Kook non solo legge la vittoria militare israeliana come un segno irrefutabile della benevolenza divina, ma interpreta la “liberazione” dei Luoghi Santi ebraici – come il “Monte del Tempio” e il “Muro del Pianto”, nonché la rinnovata unificazione di Gerusalemme – come l’avvio di una nuova fase, quella della realizzazione del “Grande Israele” (Eretz Yisrael ha-shlema): una definizione biblica, rintracciabile sia nei libri della Genesi che dei Numeri o nel Deuteronomio, che pur cambiando estensione geografica a seconda dei versetti biblici di riferimento (in alcuni casi inclusiva anche dei territori dall’Egitto all’Eufrate), fa comunque coincidere Israele con un territorio più ampio di quello uscito dalla Guerra d’indipendenza (1948) e inclusivo dei Territori occupati.
Da allora, complice anche la collusione delle autorità dello Stato, legate alla scelta tattica dei partiti laburisti e comunisti sionisti all’epoca al governo di considerare i territori occupati un pegno da restituire eventualmente in seguito a negoziati diretti coi Paesi arabi (si consideri il “Piano Allon”), la nozione di “Grande Israele” non solo ha guadagnato costantemente terreno nella società israeliana, ma ha anche assunto il ruolo di indirizzo egemone, di stella polare bipartisan della politica del Paese. Questa tendenza si è ulteriormente amplificata a partire dal 1977, quando i partiti nazionalisti, precursori del Likud, hanno assunto le redini del Paese. Il mito del “Grande Israele” ha infatti affascinato sia laici che religiosi, trascinando una buona parte della società israeliana verso un messianismo politico ancor prima che religioso: Israele, dopo il 1967, si è infatti riscoperto uno Stato forte, capace di imporre la propria volontà agli avversari arabi, di dettare le regole del gioco. In un Paese che, solo pochi giorni prima, aveva temuto per la propria esistenza difronte a un attacco arabo congiunto, la clamorosa vittoria militare conseguita nella Guerra dei Sei Giorni aveva portato all’esplosione di un’ondata di sollievo ed orgoglio popolare per le capacità tecniche e militari raggiunte in meno di vent’anni di storia nazionale. Da allora, il progetto di creazione di sempre nuovi insediamenti nei Territori occupati è diventato[1] un obiettivo bipartisan delle forze di governo, con la sola esclusione delle frange antisioniste e di sinistra più radicali: a oggi secondo Peace Now, nota ONG israeliana, esistono 337 insediamenti, tra legittimi e spontanei, per un totale di oltre 700mila coloni. Un dato non sorprendente e destinato a crescere, se si considera che, sotto il governo attuale – il più a destra della storia del Paese – una legge del giugno 2023 abbia sottratto l’approvazione di nuovi insediamenti al Gabinetto del primo ministro e al ministero della Difesa, attribuendola alla sola persona del ministro della Difesa, ovvero a Bezalel Smotrich, non a caso il leader del Partito Sionista Religioso. Tale decisione comporta anche che ormai il piano di avanzamento degli insediamenti sia “blindato” rispetto all’influenza di politiche esterne, come ad esempio pressioni diplomatiche di Stati Uniti, Unione Europea o Paesi arabi nell’ambito di un rinnovato processo di pace regionale: gli insediamenti potranno, quindi, proseguire indisturbati su ordine del solo ministro. A questo si somma, sempre nel 2023, l’abrogazione della “Legge sul disimpegno” (dalla Striscia di Gaza), voluta nel 2005 dall’allora premier Ariel Sharon, che ordinava il ritiro delle truppe di Tsahal e dei coloni dagli insediamenti nella Striscia di Gaza (blocco di Gush Katif), il loro smantellamento e il divieto ai coloni di farvi ritorno.
Oggi che il sionismo religioso è un elemento culturale e politico centrale nella società israeliana è pronto a prendersi la sua rivincita: secondo recenti sondaggi, circa il 22 per cento della popolazione ebraica si riconosce appartenere in senso lato a questa corrente, ma tale appartenenza è diversificata in mille scuole rabbiniche, a volte concorrenti tra loro, e molteplici partiti, in competizione per la sua rappresentanza. Il movimento si distingue in tre macrogruppi: gli hardalim (“i nazionalisti ortodossi”), i datiim (“gli osservanti”) e i liberali, a volte definiti “datiim light”. Il loro comune denominatore è che tutti indossano una kippah (o yarmulka), anche se di dimensioni, colori e fogge molto diverse tra loro, e tutti si riconoscono nel progetto del Grande Israele. Le differenze religiose e politiche interne, invece, sono però notevoli: gli hardalim, i più estremi, ritengono che il sionismo laico abbia sbagliato e che sia giunto il momento di imporre in Israele le leggi della Torah. Come ricorda Manuela Dviri in un suo articolo su Joimag, il “Governo del Cambiamento” precedente all’attuale – guidato da un nazionalista religioso “light”, Naftali Bennet – cadde proprio sulla cosiddetta “legge del chametz” (la proibizione di far entrare negli ospedali il pane durante la settimana di Pasqua): una questione quantomai marginale, se paragonata ai problemi del Paese. Tuttavia, nessuna questione religiosa è mai marginale per i sionisti messianici: l’erede spirituale del rabbino Kook, rabbi Zvi Tau (1936–) considera lo Stato stesso di Israele come sacro e ogni evento storico contemporaneo come un segno cosmico inviato da Dio sul cammino verso la redenzione. Poiché Dio parla a pochi eletti, è necessario interpretare i suoi messaggi nell’ottica delle Scritture: tentativo che il rabbino Tau compie in un’opera celebre negli ambienti sionisti religiosi – un pamphlet del 2001 intitolato “Nichalta be-Ozcha,” una frase tratta dall’Esodo n.15, che significa “hai guidato (gli Israeliti) con la forza”, in riferimento alla forza (militare) che gli ebrei dovrebbero utilizzare nel mondo – in cui sostiene che sia giunto il momento di sconfiggere i Palestinesi, identificati con il male metafisico, e scacciarli definitivamente dalla loro terra. Attraverso tutta una serie di citazioni bibliche estrapolate dall’Esodo e dalla Genesi, infatti, Tau arriva alla conclusione paradossale che i Palestinesi siano sì una nazione storica, ma macchiata da un peccato originale atavico che la bandisce dai popoli del mondo. Il Rabbino prevede, inoltre, che in un tempo non ben specificato essi si disintegreranno come nazione.
Tuttavia, il vero problema dell’attuale sionismo religioso non è tanto la lettura escatologica degli eventi in corso, ma la legittimazione della guerra: in una reinterpretazione dialettica della storia in stile hegeliano, i rabbini di questa corrente ritengono che Israele abbia bisogno di trionfare sui propri nemici per raggiungere la redenzione. La guerra, è, dunque, un elemento naturale che Dio ha impresso al mondo e le leggi divine prescrivono che la potenza divina delle nazioni elette si testi attraverso la sconfitta di tutte le forze ad esse ostili: così come la tenacia di un individuo può essere testata solo dalle molteplici prove della vita, I’elezione divina di Israele deve necessariamente passare per il battesimo di molteplici guerre.
Tutto questo potrebbe essere scambiato come un delirio pericoloso, se non fosse che molti di questi rabbini messianici sono penetrati nella società israeliana in vari ruoli, tra cui quelli di assistenti spirituali nell’esercito. Essi organizzano corsi di preparazione premilitare, come i Bnei David (i figli di David), dove agli studenti di Talmud delle scuole religiose vengono impartite anche nozioni e training militari, in un’atmosfera che esalta il sacrificio di sé, lo spirito di combattimento e il servizio militare come esperienza culmine di questo processo. È lo stesso sito del programma a esaltare i suoi successi: in 25 anni dalla sua creazione nell’insediamento di Eli in Cisgiordania, la scuola ha fornito oltre 2.500 soldati, il 35 per cento dei quali oggi serve in unità di élite dell’esercito. Ai più tradizionali Bnei David si aggiungono gruppi ancora più controversi, come il 97esimo Battaglione Netzach Yehuda (“Vittoria della Giudea”), che coniuga servizio militare e stretta osservanza dell’halachà, ma che raccoglie soprattutto i cosiddetti “giovani delle colline”, ovvero le frange più estreme dei coloni nazionalisti religiosi, responsabili della creazione di tutti gli avamposti illegittimi nonché autori di numerose aggressioni a contadini palestinesi in Cisgiordania: un gruppo così estremo da esser identificato lo scorso aprile dall’amministrazione Biden come oggetto di sanzioni, poi revocate, secondo una legge statunitense (Leahy Bill) che proibisce al Governo di fornire aiuti militari a gruppi che violano i diritti umani.
Il Battaglione Netzach Yehuda, così come altre unità composte a maggioranza da sionisti religiosi, è stato dispiegato nella guerra in corso a Gaza su sollecitazione del gruppo, che intende contribuire alla sconfitta di Hamas e alla distruzione totale delle infrastrutture della Striscia per permettere la ricostruzione di Gush Katif (dichiarazioni rilasciate dall’attuale Ministro della difesa, Smotrich l’8 giugno 2024), ovvero del blocco di insediamenti evacuati da Sharon nel 2005, nel quale vivevano soprattutto sionisti religiosi. Il disimpegno di Sharon era stato vissuto da questa comunità come una pugnalata tale da provocare una forte frattura interna alla società israeliana, ma oggi essa pensa di avere i numeri e l’opportunità di far sentire la propria voce al governo per non ripetere, ma anzi rimediare agli errori del passato. Un disegno che si evince nel sostegno alla pratica della “terra bruciata” da parte del rabbino Eli Sadan, a capo della Yeshiva Bnei David precedentemente citata, che rivela l’obiettivo di ridurre la Striscia di Gaza a un campo di macerie per anni, fino a quando i Palestinesi non saranno costretti ad emigrare. Un’agenda autonoma dei sionisti religiosi che si evince anche dalla Conferenza indetta lo scorso gennaio a Gerusalemme sulla ricostruzione degli insediamenti a Gaza, con la partecipazione di ben 11 Ministri e 15 deputati, tra cui membri del Likud, il partito maggioritario di Netanyahu che non può fare a meno dei voti dei sionisti religiosi per tenere in piedi la coalizione di governo.
Alcuni intellettuali laici in Israele hanno lanciato un grido di allarme sulla crescente penetrazione dei sionisti religiosi in tutte le istituzioni chiave del Paese, ma il tema più pressante è il loro dispiegamento nell’esercito. Yagil Levy, professore di Sociologia politica alla Open University recentemente intervistato dal Jerusalem Post, sostiene che il crescente peso dei sionisti religiosi nell’esercito abbia portato a disguidi e interruzioni nella catena di comando a Gaza, con unità sul terreno che non obbedivano agli ordini dei loro superiori ma agivano secondo criteri autonomi: la presenza di questo movimento all’interno dell’esercito ne avrebbe infatti minato la coesione interna ed in futuro profilerebbe una minaccia per la tenuta dell’esercito e l’esecuzione degli ordini (si veda il caso del Brig. Gen. Barak Hiram attualmente sotto inchiesta), inclusi quelli contrari al Grande Israele o agli insegnamenti dei rispettivi rabbini. Un dato confermato anche dalle statistiche sui soldati caduti in guerra, che riportano una quota crescente di sionisti religiosi e coloni (quest’ultimi, ad esempio, pur rappresentando solo il 5 per cento della popolazione generale, ammonterebbero al 16 per cento dei caduti).
Come spiega bene Yair Nehorai, scrittore esperto di fondamentalismo ebraico intervistato da Dviri, “per i messianici la visione del mondo è religiosa, non razionale, per loro la guerra stessa – che va assolutamente combattuta e vinta anche a costo della vita degli ostaggi – è parte della Geulah (la redenzione) (…). Anche la strage del 7 ottobre. Quest’ultima sarebbe addirittura la punizione per essersi ritirati da Gaza e aver smontato le colonie di Gush Katif. Per questo le vogliono ricostruire.”
La battaglia per l’anima di Israele, profetizzata dal saggista Yuval Noah Harari, affonda le proprie radici nel ’67 ma si è accentuata negli ultimi ventiquattro anni e sicuramente subirà un’ulteriore drammatica accelerazione a seguito del conflitto a Gaza. Molti sionisti religiosi reclamano, infatti, un modello politico e sociale diverso da quello occidentale su cui è impostato l’assetto istituzionale dello Stato di Israele: ritengono, infatti, che il tempo dei laici sia superato e che ora spetti a loro governare il Paese e condurlo in un’altra direzione, il più autenticamente ebraica possibile, ovvero lontana dalla democrazia liberale e laica di stampo europeo. Un tentativo già messo in atto con la riforma della giustizia nel 2023 – il cui obiettivo era quello di superare l’impianto liberale della democrazia israeliana basata sulla divisione dei poteri dello Stato e la loro rispettiva indipendenza e di limitare i poteri della Corte Suprema, percepita nel Paese come un bastione a difesa dei valori liberali e dei diritti delle minoranze – che ha paralizzato per 9 mesi il Paese, spaccandolo in due campi contrapposti.
Con un’Europa sempre più a destra e la possibilità di una futura elezione di Trump alla Casa Bianca, la deriva identitaria israeliana si fa sempre più probabile, in uno scenario mondiale segnato da un disordine crescente in cui molti Paesi sembrano guidati da un’interpretazione ristretta dell’interesse nazionale e sempre meno propensi a condividere regole e vincoli a livello internazionale. Di fronte a questo prevedibile quanto inevitabile divorzio di Israele dai valori occidentali, è utile constatare, però, come anche all’interno dello stesso campo religioso ebraico siano presenti fratture molto ampie e significative, ad esempio tra i partiti ultraortodossi (Shas e Yachdut ha-Torah), che hanno appoggiato il “compromesso” per il cessate il fuoco delineato dal Presidente USA Biden nell’interesse superiore di salvare vite umane, e i nazionalisti religiosi di Smotrich e Ben Gvir, che sono strenuamente contrari a qualsiasi ipotesi di compromesso. Tale frattura, che è riflessa anche nella molteplicità di partiti che si richiamano al sionismo religioso in quanto identità culturale senza, pertanto, adottarne il nome (ad esempio, Tikva chadasha di Gideon Sa’ar, Otzma Yehudit, ma anche parti del Likud stesso) rivela la possibilità di una frammentazione del fronte conservatore in Israele, che, per quanto ormai complessivamente spostato più a destra – e schierato su posizioni più guerrafondaie, etniciste e ostili ai due Stati rispetto agli anni di Oslo – appare almeno non monolitico al proprio interno.
Immagine di copertina: un israeliano avvolto nella bandiera nazionale davanti alla Porta di Damasco il 5 giugno 2024, durante la cosiddetta “Marcia delle bandiere”, in ricordo della conquista di Gerusalemme Est durante la guerra del 1967. Foto di Faiz Abu Rmeleh / Middle East Images via AFP.