Da Reset-Dialogues on Civilizations
Da più di una settimana i movimenti di protesta si propagano in tutte le grandi città della Turchia, assumendo sempre più le sembianze di un’insurrezione urbana e generalizzata. Malgrado gli interventi della polizia, spesso violentissimi, la gente non esita a scendere nelle strade. Altri abitanti, sui loro balconi, partecipano da casa al coro della protesta, battendo sulle pentole. Trovano strumenti di protesta pacifici, senza slogan politici, per esprimere la loro esasperazione contro il regno del primo ministro Recep Tayyip Erdogan.
È un movimento urbano, avviato dai giovani ed estesosi alle classi medie, con una forte presenza di donne, che non si indebolisce malgrado il dispiegamento delle forze di polizia in tenuta antisommossa. Le nuvole di gas lacrimogeno che velano il cielo e producono inquinamento, ma sono anche simbolo dell’oppressione, non fanno che aumentare la collera dei cittadini comuni.
La restrizione delle libertà di espressione e la criminalizzazione degli oppositori, in particolare dei giornalisti, che hanno perso il loro lavoro, e della stampa, che ha cambiato la sua linea editoriale, hanno imbavagliato la voce pubblica. Le ultime manifestazioni a Taksim non sono state coperte dai principali canali della televisione.
Le intrusioni moralizzatrici negli stili di vita dei cittadini si sono moltiplicate. Gli ultimi regolamenti che mirano a limitare la vendita di alcol e il divieto di ogni immagine, pubblicità o scena di film che inciti al consumo di alcol sono stati il detonatore. Studenti, commercianti e soprattutto attori, cantanti e registi si sono mobilitati, temendo restrizioni alla loro libertà, individuale e artistica.
Al di là della deriva autoritaria e moralizzatrice del potere, sono lo stile e i discorsi di Erdogan ad avere profondamente offeso l’opinione pubblica. Egli critica i suoi oppositori definendoli “emarginati”, “delinquenti” o ancora “ubriaconi”. Il suo vocabolario sprezzante suscita l’indignazione collettiva. Ha fatto scandalo dando al nuovo ponte sul Bosforo il nome di Yavuz Sultan Selim, che evoca i massacri degli aleviti. La rivendicazione del “rispetto”, parola divenuta slogan e trascritta sui muri delle città, esprime l’esigenza di un ritorno alla civiltà nella vita pubblica della Turchia.
Il modo di governare ha subito, negli ultimi anni, una personalizzazione che ricorda il sultanato. Conquistata la maggioranza, senza un’opposizione politica importante, Erdogan non esita a prendere decisioni da solo, senza degnarsi di consultare né i principali interessati, i cittadini, né il proprio entourage politico. Questa personalizzazione del potere, che passa dalla sua onnipresenza nello spazio pubblico, si ritorce oggi contro di lui e cristallizza tutta la collera contro la sua persona.
Per alcuni, sul modello di una “primavera araba”, queste manifestazioni ricordano l’occupazione di piazza Tahrir, testimoniando la rabbia della popolazione contro il regime politico autoritario. Per altri, invece, sono paragonabili al movimento degli “indignati” europei contro le potenze economiche globali. La contestazione turca porta in sé elementi comuni, ma anche specifici. Come nei due casi precedenti, il movimento turco si manifesta come un movimento pubblico.
Ma se la “primavera araba” rivendicava la voce della maggioranza nella democrazia, il movimento turco si erge contro il maggioritarismo democratico. Mentre gli “indignati” europei sono resi precari dalla crisi economica, i cittadini turchi sono saturi dell’“esorbitanza” di un certo capitalismo.
Occorre ricercare il senso della protesta nel suo momento originario. Difendere qualche albero nel parco pubblico di Gezi a Istanbul non è che un semplice pretesto di contestazione politica. Il progetto della distruzione del parco per costruirvi un centro commerciale ha risvegliato una nuova coscienza critica. L’occupazione di Gezi esprime la resistenza contro una modalità di gestione urbana che si è affermata negli ultimi dieci anni. In Turchia il capitalismo si incarna nei centri commerciali, divenuti simboli concreti di questo capitalismo globale e finanziario, che sfugge alla presa del cittadino. I turchi, inizialmente entusiasti del boom economico, oggi sono critici nei confronti dell’insaziabilità del consumismo che distrugge l’ambiente urbano, il vivere comune e lo spazio pubblico. Radere al suolo il parco Gezi e trasformarlo in un luogo di consumo significa, agli occhi degli abitanti, la confisca dello spazio pubblico a beneficio del capitalismo privato.
Nel momento in cui il tabù sul genocidio armeno è caduto, mentre si parla di fare la pace con i nazionalisti curdi e l’esercito si ritira dalla vita pubblica, questo movimento annuncia la necessità di una nuova cultura pubblica in cui ci si possa riconoscere e stare insieme. Il futuro della democrazia in Turchia risiede nel credo di questo movimento, che chiede al potere di contenersi, di limitare la sua volontà di intrusione morale, e di bandire la violenza. Contro la politica della polarizzazione e della stigmatizzazione, il movimento va oltre le vecchie divergenze. Di impostazione essenzialmente secolare, non aderisce tuttavia a una laicità repressiva. Il poema di Nazim Hikmet riassume l’anima di questo movimento libertario e unificatore: “Vivere soli e liberi come un albero e in fratellanza come una foresta”.
Traduzione di Francesca Gnetti
La versione originale in francese è stata pubblicata da Le Monde
Nilüfer Göle, sociologa e membro del comitato scientifico di Resetdoc è Directrice d’études, presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi
Vai a www.resetdoc.org