Il doppio volto dell’Egitto: tra i progetti faraonici di al-Sisi e la miseria dilagante

Da Reset Dialogues on Civilizations

A due settimane dalle presidenziali egiziane, dall’esito scontato, l’Egitto è raccontato da due città. Una ancora da costruire e una sotto assedio, Neom e Arish. La prima è stata il cuore dell’incontro al Cairo tra il presidente al-Sisi e il principe saudita Mohammed bin Salman, erede al trono ma già re in pectore. Un meeting fruttuoso (il primo del tour mediorientale del principe) che ha consegnato al regime egiziano accordi miliardari per tenere in piedi un’economia allo sbando.

Tra le intese siglate il 5 marzo c’è l’accordo per la costruzione di una mega-città a cavallo di tre Stati, Egitto, Giordania e Arabia Saudita: Neom sorgerà nell’ovest saudita e arriverà nel sud della penisola del Sinai, 26.500 chilometri quadrati per un costo previsto di 500 miliardi di dollari. Il faraonico progetto, lanciato dai Saud lo scorso ottobre, ha alla base un obiettivo dichiarato: diversificare l’economia della monarchia, completamente dipendente dal greggio. Neom è chiamata ad accogliere non solo il turismo locale e internazionale, ma soprattutto industrie di energia alternativa, compagnie di biotecnologie, fabbriche manifatturiere, automobilistiche, tessili, navali. E l’interesse si è già acceso in tutto il globo: se la giapponese Softbank ha già promesso di investire nella mega-città, i sauditi sono alla ricerca attiva di altri investitori stranieri.

Si spiega così la tempestiva sentenza della Corte Suprema egiziana che un giorno prima dell’arrivo di Mohammed bin Salman ha annullato tutte le sentenze precedenti con cui altri tribunali invalidavano la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. Le due isolette sul Mar Rosso – per la cui difesa scesero in piazza per settimane migliaia di egiziani nella primavera del 2016 – saranno centrali per la nascita di Neom. E non solo: da lì passerà l’oleodotto con cui i sauditi intendono portare il greggio direttamente sul Mar Mediterraneo, via Suez, conduttura prevista da un altro degli accordi siglati il 5 marzo.

Non distante dal sito della futura Neom c’è una città vera e propria, Arish. Cuore della Penisola del Sinai è da settimane oggetto di una brutale operazione militare, “Sinai 2018”, lanciata dal governo egiziano contro i gruppi islamisti e jihadisti responsabili di sanguinosi attentati lungo la costa come nelle comunità della Penisola. Ma come accaduto negli ultimi anni di stato di emergenza, la repressione pare non intaccare le milizie legate ad Al Qaeda e Stato Islamico quanto i civili soggetti ad abusi, arresti arbitrari, perquisizioni, restrizioni al movimento. E ora quasi ridotti alla fame.

L’operazione è stata lanciata all’alba del 9 febbraio con il dispiegamento di unità speciali di polizia ed esercito. In poche ore il Sinai si è ritrovato isolato: non si entra e non si esce se non con permessi particolari, chiuso il traffico nelle principali direttrici e sospese fino a nuovo ordine le lezioni scolastiche e universitarie. E mentre sorgevano come funghi nuovi posti di blocco e iniziavano le prime perquisizioni nelle case e i primi arresti, la popolazione correva nei supermercati a fare scorte di cibo, nell’assenza di informazioni precise.

A un mese di distanza le comunità rimangono isolate. Carne, farina, verdure, legumi sono ormai introvabili, si va al mercato per tornarne a mani vuote, racconta una dettagliata inchiesta dell’agenzia indipendente Mada Masr. Ci sono i camion dell’esercito – gli unici autorizzati ad entrare – che si presentano di rado a distribuire cibo a file interminabili di persone, razioni limitate di carne congelata e verdure su cui la gente si avventa affamata. Non basta: solo ad Arish vivono 180mila persone, a cui vanno aggiunte centinaia di famiglie sfollate dalla zona di Rafah, dove è in corso da tempo un’ampia campagna militare al confine con Gaza per creare una zona cuscinetto anti-Hamas. La conseguenza è stata la demolizione di case, la distruzione di terreni agricoli, la fuga di migliaia di persone.

È un Egitto dal doppio volto, quello dei progetti faraonici sognati dal golpista al-Sisi e quello della miseria dilagante. Quello degli accordi miliardari con cui sapientemente Riyadh lega un Cairo debole alle proprie politiche e quello in cui il 25% della popolazione vive ormai sotto la soglia di povertà. Eppure di denaro ne arriva: tra le intese che bin Salman ha siglato con al-Sisi, ci sono l’istituzione di un Fondo di investimenti congiunto da 16 miliardi di dollari, la costruzione del ponte Re Salman (anche questo a Tiran e Sanafir), un progetto che connetterà le rispettive reti elettriche con cavi sottomarini e l’impegno saudita a fornire greggio per 500mila barili al mese ad un paese, l’Egitto, assetato di risorse energetiche.

C’è da chiedersi quanto la visita saudita abbia un impatto politico. Dopotutto due settimane dalle presidenziali al-Sisi corre praticamente da solo. Ogni potenziale candidato è stato eliminato: il rappresentante della sinistra, Khaled Ali, su cui già pendeva una condanna in primo grado per gesti osceni, si è ritirato perché impossibilitato a svolgere campagna elettorale; l’ex generale e primo ministro nei giorni della rivoluzione del 2011, Ahmed Shafiq, si è ritirato dopo – dicono fonti a lui vicine – pressioni governative; Mohamed Anwar Sadat, nipote dell’ex presidente, ha abbandonato perché non è riuscito nemmeno a rendere pubblico il suo programma alla stampa; Sami Anan, ex capo di Stato maggiore è stato arrestato e si trova ora in una prigione militare.

Ma a pochi minuti dalla chiusura delle liste, a fine gennaio, si è fatta avanti la foglia di fico del regime: contro al-Sisi correrà Mousa Mustafa Mousa, rappresentante del partito Ghad e sostenitore dichiarato dell’attuale presidente. Agli egiziani, devastati da povertà e repressione, non resta alcuna scelta.

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