La guerra all’arte e i suoi strateghi
Gli iconoclasti di oggi, ecco chi sono

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il binomio arte-violenza è stato discusso ampiamente dalla letteratura e dai mass media in termini di rappresentazione estetica della violenza politica e sociale. Alla luce della recente distruzione di antichi artefatti e manoscritti – originali e non – per mano dell’autoproclamatosi “stato islamico”, è importante soffermarsi sul fenomeno di distruzione artistica come strategia di guerra psico-sociale condotta da gruppi armati, che siano governi o altri gruppi sociali.

Come ha affermato di recente Amr al-Azm, archeologo siriano ora residente negli Stati Uniti, lo “stato islamico” non ha di certo inaugurato il processo di saccheggio artistico in Siria, già intrapreso da lunghi mesi dagli altri gruppi armati e dal regime stesso negli scontri. L’ha però accelerato e intensificato. I gruppi armati tendono, infatti, a costruire e preservare la propria identità etnica, religiosa e ideologica.  Si assicurano pertanto di attaccare monumenti e luoghi di venerazione che meglio definiscono l’identità delle loro “vittime”.

In Medio Oriente, tale ripudio è stato espresso più volte tramite la distruzione di simboli storici rappresentativi di diverse comunità. Basta pensare alla guerra civile libanese (1975-1990), o al danneggiamento dei luoghi sacri alla Shi‘a irachena a Kerbala e Najaf per mano di Saddam Hussein nelle rivolte anti-regime del 1991. Analogamente, i talebani saccheggiarono il museo nazionale di Kabul e distrussero l’enorme statua del Buddha a Bamiyan, poiché il Mullah Omar ordinò la distruzione di “tutti gli idoli venerati al di fuori di Dio” in quanto “dei degli infedeli”. Giova ricordare che la lotta all’idolatria non è estranea neppure alla tradizione abramitica, secondo cui Mosè bruciò il vitello poiché l’adorazione di quest’ultimo era peccato di politeismo.

Nell’atto vandalico contro le opere artistiche è percepibile l’atto intenzionale di annullare riferimenti culturali e storici di altre comunità, come anche il fraintendimento di fondo sugli usi e le interpretazioni di ogni comunità diversa dalla propria. Per esempio, il Buddha rappresenta per i credenti un’incarnazione degli episodi della sua stessa vita. La statua è quindi una biografia vivente che guida attraverso gesti fisici e posture: la statua del Buddha non è dunque un idolo da venerare, come denunciato in una fatwa del Mullah Omar che ne richiedeva la distruzione nell’annuncio di una guerra all’idolatria.

La guerra psico-sociale che i “vandali d’arte” intraprendono attraverso la distruzione di questi punti di riferimento esistenziali pone in evidenza la non-passività di tali oggetti inanimati all’interno di un codice sociale e culturale. Tali oggetti agiscono negli immaginari umani, cambiano gli eventi, interagiscono con i propri fautori in modo mutevole attraverso un percorso storico. Il valore intrinseco che gli oggetti prodotti dall’umanità possiedono è espresso dalla moralità che le diverse comunità  attribuiscono loro. Difatti, gli artefatti esprimono la Weltanschauung dei loro promotori, decodificabile da essi stessi e da chi vuole intendere la loro interpretazione e abbracciare la medesima moralità, anche per un attimo soltanto.

L’espressione e l’accettazione di un codice morale avvengono sulla base del riconoscimento del successo dei nostri predecessori, che restano, in tal modo, parte delle nostre vite. Esemplificando la diversa interpretazione morale che si può avanzare di arte e distruzione, Naomi Klein ha descritto i reiterati processi di distruzione dei beni culturali in Iraq come un tentativo neoconservatore verso un “utopismo di libero mercato”. L’obiettivo della distruzione è la persistenza della cultura collettiva sociale o comunitaria e la demolizione di sistemi di pensiero alternativi a quello che aspira a diventare l’unico dominante. Tali strategie di guerra simbolica che agiscono sul pensiero – e non solo sui corpi – sono state spesso utilizzate dagli stessi poteri internazionali che ora si sdegnano di fronte all’“articidio” degli estremisti islamici,  attribuendo spesso unicamente a loro la foga distruttrice nei confronti delle creazioni artistiche.

Tracce del vandalismo artistico e culturale da parte del mondo sviluppato si ritrovano anche nella storia contemporanea più recente. Strutture d’arte moderna vennero danneggiate con l’invasione statunitense dell’Iraq (2003), dopo che la vita culturale era stata da tempo paralizzata dalle guerre regionali (entrambe le guerre del Golfo) e dalle sanzioni internazionali anti-Saddam dopo l’invasione irachena del Kuwait (1990-1991). Il fatto che l’amministrazione Bush contribuì alla demolizione di un’identità nazionale irachena[1] dovrebbe portare il pubblico a diffidare di letture unilaterali del binomio arte-violenza, secondo cui il vandalo può essere soltanto “il barbaro”, l’altro a sé, oggigiorno il “musulmano armato”; l’unico in grado di compiere la distruzione culturale e psicologica di intere società.

Nei media si discute principalmente dell’interesse pubblico dell’arte, la quale esige protezione. Distruggere le opere d’arte significa infatti demolire anche la più lontana speranza che possano fungere da strumento di guarigione in un paese sconvolto dalla guerra e desideroso di ricostruzione. Paradossalmente però, la legge che punisce il vandalismo artistico è a dir poco carente, dal momento che l’arte non è individuata come campo a sé all’interno della categoria giuridico del vandalismo genericamente inteso. Testimoni attuali di un’era permeata dal nichilismo, in cui tutto, come si diceva nel Faust di Wolfgang Goethe, “merita di perire”, continuiamo quindi a creare associazioni e a vedere proliferare gli attivisti che tentano di proteggere tali vestigia storiche, pilastri delle culture contemporanee. Tra questi troviamo Ahmed Saleh, pseudonimo di un giovane attivista siriano, entrato nel suo paese armato di macchina fotografica per immortalare il danneggiamento delle testimonianze artistiche in Siria. Tentativi come quello di Saleh sono tuttavia inefficaci in una realtà in cui le armi di distruzione sono facilmente ottenibili da tutti.

Neanche le ragioni che spingono al vandalismo contro le opere d’arte sono state finora esplorate sufficientemente, soprattutto quelle economiche più difficilmente risolvibili e punibili. A questo proposito, i beni archeologici che lo “stato islamico” ha finora trafugato da Siria e Iraq sono stati commercializzati e rivenduti sul mercato nero a clienti europei, americani e arabi, contribuendo alla sostenibilità economica della guerra con un valore di circa 250 milioni di dollari,  secondo le stime dell’UNESCO.

Al di là del fatto curioso che le leggi sul vandalismo artistico siano ancora così vaghe e scarne[2], la distruzione è un atto aggressivo contro i valori sociali di una civiltà e contro l’egualitarismo, che invece permette – e incoraggia – l’incontro intimo del pubblico con gli oggetti d’arte[3].

È difatti soltanto la componente ufficiale e dominante delle società, quella riconosciuta internazionalmente, a stabilire quali siano gli oggetti da venerare e preservare. A questo proposito, il giornalista italiano Domenico Quirico ha potuto affermare che è stato un bene per l’Occidente l’aver saccheggiato le opere d’arte d’Oriente in passato, perché esse oggi sarebbero state demolite dallo “stato islamico” che invece non ha nulla a che vedere con noi.

La ferita più profonda e più difficile da guarire non è la distruzione in sé, quanto invece il fatto che la distruzione di tutto ciò che l’umanità ha collezionato attraverso i secoli produca l’annientamento, a colpi di nichilismo, dell’istinto stesso a produrre ancora. Il mondo contemporaneo non si è liberato della “banalità del male”, che – perpetrata, dichiarata inaccettabile, spettacolarizzata, e infine accettata – continua a distruggere, in tutta normalità.

Note

[1]Stone, P.G. and Farchakh Bajjaly, J. (2008) The Destruction of Cultural Heritage in Iraq. Woodbridge, UK: The Boydell Press.

[2]L’altro fattore curioso è quanto poco gli episodi di vandalismo artistico vengano riportati dai musei, in quanto questi ultimi ne detengono la responsabilità.

[3]Si veda Williams, M. J. “Framing Art Vandalism: a Proposal to address Violence against Art”, Brooklyn Law Review 01 (2009), vol. 74, Issue 2.

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