Da Reset-Dialogues on Civilizations
Mahser, confine turco-siriano – A Gaziantep ci si arriva in aereo o con uno dei bus di linea o dei minivan che collegano la maggior parte delle aree urbane, con fermate imprecisate e orari variabili. È una città di quasi due milioni di abitanti, con un centro che tiene insieme mercati tradizionali e attività commerciali e turistiche, e periferie di grattacieli in continua espansione. Da Kilis sono circa sessanta km, risalendo verso nord. Meno di quaranta minuti in macchina, un’ora e mezza almeno attraverso i campi di terra rossa con i bus da 15 lire turche a corsa.
Da qui comincia il viaggio verso il Kurdistan turco, in direzione delle frontiere di Akçakale-Şanlıurfa e Karkamış-Gaziantep, che guardano direttamente Kobane, simbolo dell’assedio dell’Is ai curdi di Siria. Sono circa 200 km, ad est verso Urfa, e da lì a sud, destinazione Suruc. Ultimo otogar, stazione degli autobus, prima della Siria, in quel tratto di terra. Ogni città che si attraversa celebra uno dei prodotti agricoli del luogo con un monumento posto in un luogo visibile, che sia una piazza o una rotatoria. S’incontrano, riprodotti in cemento, pistacchi, come a Nizip, ma anche olive, limoni e a Suruc la melagrana, proprio di fronte al centro, una piccola piazza quadrata, con qualche bottega, un paio di locali dove mangiare, un posto di polizia circondato da mezzi blindati.
Lungo la strada che porta verso nord, poco prima dei due campi profughi allestiti e controllati dal governo di Ankara e che accolgono profughi siriani e curdi, soprattutto di Kobane, c’è il centro culturale curdo Amara, che è diventato una sorta di quartier generale per la distribuzione di aiuti, il coordinamento della stampa e dei visitatori internazionali, ed è l’unico luogo aperto giorno e notte, che accoglie tutti, e dove si lavora con la luce e col buio senza scomporsi, visto che la corrente elettrica salta continuamente, a volte per pochi minuti, altre per ore, così come in gran parte della città.
Jiyan ha 27 anni e gestisce il centro da quando ne aveva 19. “Prima lavoravamo all’interno della municipalità – racconta – poi abbiamo creato uno spazio autogestito. Dipende sempre dal Comune, ma abbiamo massima libertà di organizzazione. Per la città è fondamentale uno spazio così, dove insegnare le tradizioni curde, dalla musica al teatro, ed organizzare eventi e spettacoli. Ora con la guerra è tutto cambiato: durante i primi giorni dell’attacco a Kobane, quando sono arrivati i primi profughi, in questo palazzo hanno dormito oltre mille persone, all’interno ma anche in giardino, dove c’è tuttora una tenda. Ora l’emergenza più grande non è tanto un posto letto, quanto la mancanza di farmaci, e la scarsa presenza di medici sul campo”.
Amara è un punto di riferimento per tutto il distretto, in cui Suruc, con i suoi 45mila abitanti (prima dell’accoglienza dei profughi), rappresenta l’ultima realtà urbana, seppure molto povera, prima del confine con la Siria. Il resto della zona è costellato da piccoli villaggi agricoli, in cui le attività di sostentamento restano l’agricoltura e l’allevamento. Mahser è fra questi il più vicino a Kobane, meno di 200 metri dal filo spinato che rappresenta la linea di confine fra Turchia e Siria. Qui i 500 abitanti originari del posto hanno mantenuto per la maggior parte le costruzioni in paglia e terra, e solo in pochi hanno una casa in muratura, seppure con il bagno esterno e spesso senza acqua corrente. Qui i punti di ritrovo sono un grande piazzale dove la sera si accende il fuoco, e una piccola moschea che da luogo di preghiera è diventata anche rifugio, dormitorio, centro di distribuzione dei pasti, oltre che postazione di osservazione privilegiata, in tempo reale, di quanto avviene a Kobane.
La gente sale sul tetto da una vecchia scala a chiocciola di ferro, alcuni prendono anche il binocolo per guardare meglio dentro alle case, e capire dove esattamente si stia combattendo in quel momento. Eccola Kobane: palazzi sventrati dalle esplosioni, scheletri di cemento che si stagliano all’orizzonte, a meno di due km di distanza da quel tetto. Ogni giorno, più volte al giorno, si vedono nuvole di fumo alzarsi da qualche edificio, e si sentono raffiche di colpi. Ogni sera, quando è già buio da qualche ora, dopo ogni aereo che passa la gente aspetta di sentire un’esplosione: un boato, e poi la terra che trema sotto i piedi, e i muri delle case che vibrano.
Gli anziani del villaggio, la maggior parte ex combattenti del Pkk, si radunano davanti al fuoco, e restano seduti per ore in silenzio, in cerchio. Pochi metri più in là invece si intonano i canti tradizionali della resistenza curda, si esulta quando si sentono i bombardamenti, perché vuol dire che è l’Is ad essere stato colpito, e quando le raffiche si fanno più lente si applaude, perché sono le Ypg, Unità curde di difesa popolare, ad attaccare.
A 200 metri dal centro del villaggio, ma molto vicino ad un piccolo gruppo di case ormai quasi tutte rimaste vuote, c’è una collina dove l’esercito turco ha stabilito una delle sue postazioni di guardia del confine, segnalata da un carro armato. Subito oltre, dopo il cimitero, si vede una distesa di macchine abbandonate, lasciate dai profughi al confine mentre tentavano di attraversare la frontiera e venivano fermati e fatti proseguire a piedi.
Dal villaggio transita anche chi combatte: alcuni sono arrivati per fermarsi, come un uomo, padre di otto figli, che racconta di aver combattuto prima di arrivare al villaggio e per mettere al sicuro i figli. “Sono stati i miei compagni a farmi andare via – racconta – mi hanno detto che non potevo permettermi di morire e che dovevo pensare alla mia famiglia. E’ giusto che qui restiamo noi e tu pensi a loro, mi hanno ripetuto finché non ho deciso di partire. Anche nella guerra abbiamo un’etica, ma chi combatte nell’Is non ha rispetto neppure della morte. Anche noi abbiamo ucciso per difenderci, ma seppellire un corpo, piuttosto che mutilarlo, è sempre un gesto di rispetto che non abbiamo mai fatto mancare”.
Ci sono anche combattenti più anziani qui, come Xalil, ferito a Kobane e poi trasportato qui per essere curato. Lui ha lasciato due figli dall’altra parte del confine, e come lui la maggior parte delle persone che ora sono al villaggio. C’è gente che abitava in città, Ad Antep, a Diyarbakir, anche a 500 km di distanza, e ha deciso di trasferirsi per stare vicino ai propri cari, per capire cosa succede. Ci sono madri che non vedono i figli da anni, come una donna dell’associazione Madri della Pace, che sua figlia l’ha rivista in televisione, in servizio sui dissidenti curdi, ed è così che ha saputo che era ancora viva. Una giovane racconta di non aver visto il fratello per 14 anni, e poco dopo averlo ritrovato, l’ha dovuto lasciare andare di nuovo, a Kobane. Ci sono donne e uomini che tutte le mattine prendono il binocolo, dal campo, o dal tetto della moschea, per cercare di guardare dentro a quei palazzi devastati, in cerca di un figlio, di una figlia, di un parente, di un amico.
Qui il concetto di famiglia, di mutua assistenza, di cooperazione è parte integrante della vita della comunità, e questo conflitto, l’ennesimo, è diventato un collettore ancora più forte per un popolo abituato a combattere da sempre per un’autonomia costantemente negata.
Kobane, insieme a Gazira e Afrin, rappresenta il sogno possibile di un’autodeterminazione che in territorio siriano era stata raggiunta nel novembre dello scorso anno, proprio con la creazione di questi tre cantoni, per una popolazione totale di circa un milione e mezzo di persone. Ogni distretto si è dotato di una sua struttura amministrativa fatta di commissioni specifiche per la difesa, la sanità, l’istruzione, il lavoro e gli affari sociali.
Nel quadro della crisi siriana, il Partito di Unione Democratica del Kurdistan siriano ha di fatto rappresentato un’opzione terza nel conflitto fra le forze governative di Assad e quelle della galassia dell’opposizione anti Damasco. Ma la possibilità di colmare un vuoto di potere lungo il confine turco, e soprattutto dare continuità territoriale alle zone sotto controllo ha spinto Is a lanciare l’offensiva di Kobane. In tutto questo la posizione di Ankara è tutt’altro che lineare.
Il governo turco non vede in modo conciliante la presenza di una regione autonoma curda alle porte dei suoi confini, e considera ancora il Pkk, Partito dei Lavoratori del Kurdistan in Turchia come organizzazione terroristica da perseguire, nonostante da circa un anno sia stata avviata senza grande clamore una sorta di trattativa con il leader curdo Abdullah Ocalan, detenuto dal 1999. Ma agli occhi dei curdi, il governo turco ha chiuso gli occhi davanti alla minaccia Is, facendo transitare uomini e mezzi dal confine. Ultimo episodio, il 29 novembre scorso, l’attentato compiuto a Kobane con un furgone fatto esplodere, che avrebbe attraversato il confine sotto gli occhi dell’esercito turco.
A Mahser intanto ogni giorno si dà ospitalità a profughi, combattenti, parenti, stranieri solidali: finché lo spazio sui tappeti lo consente, un posto letto si trova sempre. Quando piove le case vengono quasi isolate dal fango, l’una dall’altra, ma un te caldo, e un pezzo di pane fresco c’è per tutti. Si racconta che mentre chi combatte nell’Is passi indisturbato il confine, per le unità Ypg sia molto più difficile attraversare senza essere notati dai militari turchi, e contemporaneamente stare attenti a non saltare su una mina, lungo la ferrovia che ancora oggi segna la presenza di due stati. “Si manda avanti un animale”, raccontano. Come ha confermato anche Human Rights Watch, sono almeno 600mila le mine presenti in questa lingua di terra, oltre il filo spinato, disseminate fra il 1957 e il 1998, per evitare, ironia della sorte, passaggi illegali da uno stato all’altro.
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