Da Reset-Dialogues on Civilizations
A 6 anni dal terremoto che nel gennaio 2010 distrusse il Paese, causando 230.000 morti, 300.000 feriti e 1 milione di sfollati, ancora oggi 65.000 persone ad Haiti vivono in tendopoli. Ad Haiti, 1 bambino su 2 non va a scuola, 1 su 3 non arriva a 5 anni per malnutrizione e malattie pur curabili, il 70% delle persone non ha lavoro. Dopo il terremoto, l’isola è stata colpita anche da 2 uragani, mentre il colera, dall’autunno 2010 ad oggi, ha causato circa 9.000 vittime (su un totale di circa 730.000 colpiti).
Nei mass media si parla poco della situazione di questo Paese, uno dei più poveri del mondo, situato nella parte occidentale dell’ isola di Hispaniola, che, a pochi chilometri ad est di Cuba e ad ovest di Portorico, deve il suo nome a Cristoforo Colombo, sbarcatovi nel dicembre 1492, durante il suo primo viaggio nel Nuovo Mondo.
La storia dei rapporti tra Haiti (popolazione di quasi 10 milioni di abitanti, distribuiti su quasi 28.000 kmq, un terzo dell’intera isola, capitale Port-au-Prince) e la vicina Repubblica Dominicana (quasi 10 milioni di abitanti, su una superficie di più di 48.000 kmq, capitale Santo Domingo) è emblematica delle notevoli differenze ambientali ed economico-sociali che spesso si riscontrano nel Terzo mondo, tra Paesi vicini o, comunque, appartenenti alla stessa area. Mentre, per certi aspetti, ricorda quella, a dir poco tormentata, delle due Germanie e dell’interscambio tra parte orientale e parte occidentale della Germania dopo la riunificazione del 1990.
Abitata in origine dagli indigeni taino e arauachi, pacifica popolazione, la cui consistenza, era stimata in 250.000 unità alla fine del XV secolo, Hispaniola iniziò ad esser colonizzata dalla Spagna nel 1493, dopo l’arrivo di Colombo. Ma nel 1697 il Trattato di Ryswyck riconosceva il passaggio della parte occidentale di Hispaniola dalla Spagna – ormai attratta più dalle grandi ricchezze di Messico e Peru’ – alla Francia. Un secolo dopo, la popolazione di questa colonia era composta da 3 diversi gruppi etnici: gli europei (circa 32.000 nel 1790), che detenevano il controllo politico ed economico, la “gens de couleur” (28.000 individui liberi e di sangue misto, di cui la metà mulatti, definibili come classe inferiore) e poi gli schiavi africani, iniziati ad arrivare più di 2 secoli prima, portati dagli spagnoli (ben 500.000). Infine, vi erano i “cimarrons”, cimarroni: ex-schiavi che, sfuggiti ai padroni, vivevano nelle terre più elevate. Nell’arco di circa un secolo dalla cessione alla Francia, la colonia era divenuta la più ricca delle Antille, grazie alle forti esportazioni di zucchero e cacao.
Dal 1790, il vento rivoluzionario proveniente dalla Francia percorre anche Hispaniola occidentale: l’intera popolazione nera, compresi schiavi e cimarrons, si salda sotto la guida del mitico “giacobino nero” Toussaint Louverture (proprio come, dieci anni prima, in Perù con la rivolta antispagnola di Tupac Amaru II), chiedendo (inutilmente) l’indipendenza alla nuova Francia. Nel 1803, l’esercito coloniale napoleonico è sconfitto e il 1 gennaio 1804 viene proclamata l’indipendenza dell’ ex-colonia, che, primo Stato di colore indipendente al mondo, in omaggio alle antiche popolazioni indigene (che chiamavano l’isola Ayiti), sceglie di chiamarsi appunto Haiti. La parte orientale dell’isola, invece, dopo un breve ritorno sotto il dominio spagnolo (1808) e la proclamazione dell’ indipendenza (come per il Messico, nel 1821), dopo decenni di contrasti interni, opterà finalmente per la piena indipendenza dalla Spagna nel 1863.
Nei primi decenni del ‘900, proprio come Cuba, Haiti cade sempre di più sotto l’influenza USA. Dal 1915 al 1934, con l’iniziale pretesto di prevenire colpi di mano della Germania (anch’essa presente nell’economia haitiana), gli USA occupano addirittura l’isola: la loro presenza ad Haiti porterà ad un miglioramento delle infrastrutture e della sanità, ma ritarderà gravemente la formazione di una moderna classe dirigente locale. Nel 1957, viene eletto Presidente della Repubblica (che ha una Costituzione presidenzialista di tipo francese) il mitico Francois Duvalier, alias “Papa Doc”: una sorta di “Peron haitiano” (ma in forma molto più rozza), fortemente appoggiato dai ceti neri più poveri, contro l’élite mulatta, economicamente forte e presente soprattutto nel più sviluppato Sud. Nel ’64, Duvalier si autodichiara presidente a vita: per anni mantiene il controllo sulla popolazione attraverso la polizia segreta, i brutali Volontari per la Sicurezza Nazionale, soprannominati “Tonton Macoutes” (“gli uomini spettro”), dal nome di una figura della tradizione locale, l’ “Uomo nero”. È in questi anni (1957- 1971) che si perfeziona l’ossatura segreta della società haitiana, basata soprattutto sull’onnipresenza dei gruppi voodoo: una sorta di massoneria macabra, fatta di associazioni segrete a catena, che permea di sé tutti i gangli dello Stato.
Il fattore religioso, infatti, come in Messico, è centrale nella storia delle due Repubbliche. Mentre, tra i dominicani, la religione principale è il cristianesimo (circa il 57% è cattolico e il 23% protestante), gli haitiani, invece, nonostante il cattolicesimo sia ancora definito ufficialmente quasi religione di Stato, appartengono, nella maggior parte, alla religione Voodoo, o quantomeno la professano accanto al cattolicesimo (non dimentichiamo il rancore storico verso la Chiesa Cattolica per la sua persecuzione dei culti voodoo, attraverso l’Inquisizione). Il voodoo è un culto molto antico, originario soprattutto della Nigeria, e diffusosi un po’ in tutta l’America Latina, grazie soprattutto allo schiavismo: nato dalla fusione tra culti animistici praticati dagli schiavi africani e il cattolicesimo, si basa su un sistema di credenze dove centrale è il culto dei Loa (le antiche divinità africane). Diversamente dal voodoo africano, quello di Haiti si è appunto sincretizzato fortemente col Cristianesimo: ogni Loa corrisponde ad un Santo cattolico e il Dio cristiano è considerato il Dio creatore, fattosi uomo nella figura di Gesù. Chiaramente, l’aspetto cruento dei sacrifici animali (soprattutto pollame, ma anche caproni e – come nell’antico mitraismo – tori), il carattere fortemente tribale di molte pratiche voodoo (un po’ come per la”Santeria” cubana) e il dominante tema cimiteriale (come la credenza in Baron Samedì, temutissimo spirito della morte, che, come un Caronte dei Caraibi, accompagna le anime nell’oltretomba e di cui Papa Doc si proclamò addirittura l’incarnazione) creano forti incomprensioni fra haitiani e dominicani, profondamente cristianizzati.
E siamo, così, ad un altro aspetto problematico nella vita delle due Repubbliche: i contrasti su base etnico-religiosa e socio-economica. Sin dai primi decenni del ‘900, molti haitiani hanno regolarmente attraversato il confine con la più ricca e sviluppata Repubblica Dominicana, per trovarvi lavoro. Nel 1937, il dittatore dominicano Rafael Trujillo (il “Fulgencio Batista” locale, divenuto presidente nel 1930 col determinante appoggio degli USA, che lo consideravano loro mandatario) faceva massacrare più di 15.000 immigrati haitiani stabilitisi in territorio dominicano, col pretesto di un loro complotto contro il suo regime. Da allora, Rafael Trujillo (che avrebbe governato dispoticamente, salvo brevi intervalli, sino al 1961, finendo vittima di una congiura) iniziava una campagna di “dominicanizzazione” della frontiera, promuovendo la ripopolazione della zona con famiglie dominicane, a cui si consegnavano terre, e la creazione di nuove province. La politica di Trujillo (quasi ossessionato da Haiti, considerata il nemico nazionale) lasciò profondi strascichi d’incomprensione tra le due Repubbliche, destinati a durare decenni, ma non interruppe l’emigrazione haitiana oltre confine: già nel 1966, ad esempio, erano emigrati 20.000 lavoratori haitiani, per coltivare la canna da zucchero dominicana.
Al giorno d’oggi, le due repubbliche non riescono ancora a raggiungere almeno una stabilità democratica. Ad Haiti, dopo la fine del monopolio politico dei Duvalier, esattamente trent’anni fa, con la fuga di “Baby Doc”, figlio di Francois (siamo nel febbraio 1986, negli stessi giorni del dittatore filippino Marcos), gli ultimi 25 anni hanno visto, come momenti di speranza per il Paese, i due mandati presidenziali di Jean- Bertrand Aristide, tipica figura di ex-prete sudamericano progressista: con gli USA e la Francia, però, sempre veri registi della situazione, dietro (e davanti) le quinte. A Santo Domingo, l’indubbia espansione economica, iniziata già con Trujillo, si è incrociata con varie elezioni presidenziali truccate e persino con una vera e propria invasione USA (1962-1965, decisa dal presidente americano Johnson per bloccare l’ “Allende dominicano”, il presidente di sinistra Juan Bosch, che voleva una vera riforma agraria e la revisione del sistema economico).
L’emigrazione da Haiti oltre confine rappresenta, sopratutto in questi ultimi anni, dopo il terremoto, un esodo di massa, con forti problemi di integrazione tra le due comunità, assai diverse per lingua (i dominicani parlano soprattutto lo spagnolo, mentre gli haitiani – che comunque oggi nella Repubblica Dominicana sono più di 700.000, di cui una generazione nata sul posto – la lingua creola). Spesso analfabeti, gli haitiani, inoltre, non si integrano molto con la popolazione dominicana, finendo – come gli extracomunitari in Europa – con l’accontentarsi di lavori umili e sottopagati. Negli ultimi anni, poi, i politici dominicani hanno cercato di accattivarsi l’elettorato tramite una politica di chiusura e, a volte, addirittura di rimpatri forzati degli immigrati, con una campagna denigratoria nei confronti della comunità haitiana, accusata di causare un aumento di criminalità e disoccupazione.
In ogni caso, attualmente, l’immigrazione haitiana non sembra arrestarsi: Haiti, infatti, deve ancora riprendersi dalla tragedia del terremoto e dall’estrema povertà (molto diffuse, ad esempio, sono l’ AIDS e l’anemia falciforme provocata dalla denutrizione), causata anche da politici corrotti e dittatoriali.
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Photo credits: National Geographic