Da Reset-Dialogues on Civilizations
In un corridoio di terra largo 50 chilometri si giocano, insieme, il destino della Siria e quello dell’intero Medio Oriente. È la fascia di territorio che da Aleppo arriva ad Azaz, profondo nord della Siria, ad una manciata di chilometri dal confine turco. Lontano anni luce dal tavolo mai aperto di Ginevra.
La regione sembra essere di fronte all’ennesimo punto di non ritorno: il fallimento dell’accordo di Monaco – siglato l’11 febbraio – sulla cessazione delle ostilità tra governo e opposizioni è evaporato in poche ore, soffocato dalle spinte belliche dei due fronti opposti. Una violenza che ha raggiunto il suo apice domenica con la doppia strage di Damasco e Homs, 170 morti per mano dell’Isis. Mentre nelle due città simbolo della guerra civile saltavano in aria quattro autobombe, Russia e Usa lavoravano ad un nuovo accordo di tregua. La bozza di piano per la cessazione delle ostilità è arrivata oggi: la tregua comincerà sabato 27 febbraio, se tutte le parti coinvolte nel conflitto aderiranno.
I dubbi di una riuscita dell’ennesimo accordo sono però tanti: probabilmente consapevoli che il tempo stringe e incalzati dalla necessità di posizionarsi verso il futuro e con tutta probabilità inevitabile tavolo di negoziato, i tanti attori della crisi siriana preferiscono far risuonare le sirene della guerra
Se a dare il via all’attuale escalation è stata l’operazione di Damasco e Mosca su Aleppo, oggi ad alzare l’asticella dello scontro sono Turchia e Arabia Saudita: la pressione esercitata dall’avanzata governativa, sostenuta dagli ininterrotti raid russi, ha costretto all’azione Ankara e Riyadh. Uniti dalla revisione degli accordi di cooperazione militare, che ha subito portato all’invio di caccia sauditi nella base aerea turca di Incirlik e al training congiunto di truppe di terra, il presidente Erdogan e re Salman hanno dato naturale seguito alla conferenza di Riyadh di dicembre. Allora, sotto l’ala saudita, è nata la nuova federazione delle opposizioni siriane, HNC (Alto Comitato per i Negoziati), ampio ombrello sotto il quale sono finiti gruppi estremamente diversi tra loro ma accomunati da un obiettivo: la cacciata del presidente Assad.
Da lì sono stati pescati i negoziatori al tavolo di Ginevra, un team composito e rappresentativo non del popolo siriano ma degli interessi del Golfo e della Turchia. Non è un caso che l’Onu sia stata costretta ad escludere i curdi siriani e il loro partito, PYD, su espresso diktat turco. E non è un caso, ci spiega Mouin Rabbani, analista palestinese collaboratore dei think tank Jaddaliyya, Al-Shabaka e Palestine Studies, che «le opposizioni basate a Damasco e meno legate ai gruppi in esilio siano state marginalizzate. L’inviato Onu Staffan de Mistura è stato costretto ad invitare certe figure come consulenti invece che come attori del conflitto», dietro precisa imposizione degli attori regionali.
Alla definizione del fronte diplomatico, si è affiancata una rude strategia bellica nel nord della Siria, concretizzatasi a poche ore dall’accordo di Monaco con i primi missili turchi sganciati sulle postazioni delle Ypg curde intorno ad Azaz. L’avanzata dei combattenti curdi – in grado di liberare due comunità strategiche in pochi giorni, Tal Rifaat nella provincia di Aleppo e Ash Shaddadeh ad Hasakah – aumenta la pressione sia sullo Stato Islamico, e sulla sua “capitale” Raqqa (ormai tagliata fuori dalla direttrice per Mosul), ma soprattutto sulla Turchia che assiste impotente all’accerchiamento di Aleppo da parte curda e governativa.
La risposta di Ankara è il bombardamento delle postazioni curde, apparente sfida alla strategia militare degli Stati Uniti che nelle Ypg hanno un valido alleato. Difficile, però, immaginare che Erdogan agisca come un vendicatore solitario, in contrasto con gli interessi Usa e Nato. Più probabile che la Turchia sia utilizzata dal fronte occidentale come strumento di provocazione alla Russia e delimitazione del potere militare e diplomatico del fronte pro-Assad.
Un’escalation delle tensioni, in questo senso, sarebbe quindi da escludere: «Negli ultimi cinque anni, ogni volta che una parte ha provocato un’intensificazione del conflitto, l’altra non ha reagito – aggiunge Rabbani – Un esempio recente: la scorsa estate è nata la formazione Jaysh al-Fatah, sponsorizzata da sauditi, turchi e qatarioti. È stata in grado di occupare buona parte della provincia di Idlib, ha impedito la controffensiva del governo su Aleppo e ha minacciato la parte nord della provincia di Latakia. Eppure non c’è stata una significativa reazione da parte russa. Poi però, a settembre, si è assistito ad un’opposta escalation dovuta proprio all’intervento di Mosca. Questo però non ha provocato un incremento significativo dell’invio da parte di Turchia o Arabia Saudita di armi e equipaggiamento o addirittura un intervento armato».
Lo fanno oggi: inviano armi e garantiscono il passaggio di duemila miliziani al valico di Bab al-Salama, tra Turchia e Siria, lo stesso che resta chiuso alla fuga di centomila rifugiati siriani. L’obiettivo è ridare fiato al fronte anti-Assad e limitare l’attuale potere governativo in vista dell’eventuale negoziato futuro. Ma soprattutto uscire indenni dal rapporto nemico-amico tra Usa e Russia: le due superpotenze si stanno riposizionando in Medio Oriente, un campo di battaglia dove non necessariamente le rispettive agende sono in conflitto.
E a pagare le spese degli interessi preponderanti, ovverosia quello della Russia e quello della Nato, potrebbero essere gli alleati. Lo è la Turchia, prima lasciata a briglia sciolta e poi frenata. Lo è l’Arabia Saudita, in crisi economica per il crollo del prezzo del greggio e i costi dell’operazione militare contro lo Yemen e in crisi diplomatica dopo l’accordo sul nucleare iraniano.
Lo è anche Israele, apparentemente una comparsa del conflitto, ma il cui ruolo resta centrale: secondo Rabbani, Tel Aviv ha una posizione relativamente diversa da quella degli altri attori anti-Assad. Israele non vuole vincitori, ma un grande perdente, la Siria. Nell’ottica israeliana, Damasco non dovrebbe tornare il cuore politico e culturale del Medio Oriente, ma dovrebbe invece rimanere schiava di debolezza e devastazione: «Le azioni di Tel Aviv sono indicative di questa tendenza – conclude Rabbani – Un esempio è l’uso sistematico dell’assistenza sanitaria come arma di guerra. Una ragazza palestinese di 13 anni, armata solo di un coltello da cucina, è stata lasciata agonizzante mentre ai soccorsi medici veniva impedito di raggiungerla. Dall’altra parte Israele mette a rischio la vita dei propri soldati per garantire assistenza medica a miliziani di al-Nusra».
Nella foto di copertina: 30 ottobre 2015, tavola rotonda preparatoria dei Vienna Peace Talks on Syria
Vai a www.resetdoc.org