Da Reset-Dialogues on Civilizations
Dal Benin alla Costa d’Avorio. Migrare per trovare un lavoro, quello di gommista. E poi, con la carriera cha avanza, l’acquisto di un taxi con il quale si spalanca la strada degli affari. Sembra il preludio della storia di un businessman in salsa africana, ma la vicenda di Gregorie Ahongbonon è in realtà tutt’altra. Perché con i soldi tra le mani e l’odore del successo sotto il naso, Gregorie intraprende uno stile di vita libertino che lo porta prima al fallimento e poi a tentare il suicidio. Scampato per un soffio al vortice della morte, Gregorie prende coscienza del valore della vita e dell’importanza della salute mentale. Ed è a quest’ultima che, dopo essere diventato un credente a seguito di un pellegrinaggio a Gerusalemme, dedica la sua vita e tutte le sue energie.
La sua missione? Liberare i malati di mente dalle loro catene. Non quelle simboliche, ma quelle materiali. Perché in molti villaggi dell’Africa ci sono ancora uomini che vengono legati ai ceppi degli alberi e lasciati lì per anni, nel timore che i loro disturbi psichici altro non siano che la manifestazione di spiriti di demoni pericolosi e contagiosi. Con un seghetto e tanta determinazione, Gregorie li libera dopo una lunga prigionia, li aiuta a rialzarsi dopo anni passati immobili a terra e li riabilita. E grazie a questa sua intensa attività, negli anni Gregorie si è aggiudicato il soprannome di Basaglia nero, visto che l’attività da lui compiuta in Africa ricorda quella del nostro concittadino tanto impegnatosi per eliminare i manicomi e riformare il settore della salute mentale. “Le medicine da sole non servono. Non riescono a fare la differenza. È necessario tanto affetto e un percorso per fare acquisire autostima ai pazienti. E poi serve un grande lavoro sulla società, schiava di pregiudizi. Solo così quanti soffrono di disturbi psichici- spesso causati da malattie della società stessa – possono diventare delle persone realmente libere” dice a Reset Gregorie, ospite del festival èStoria di Gorizia, quest’anno dedicato al tema della schiavitù.
Come la sua storia personale ha condizionato l’inizio della sua attività?
La mia storia personale certamente ha avuto un ruolo nel condurmi a fare quello che faccio, ma l’ingrediente magico si trova altrove. Quello che io faccio non è frutto della mia volontà, ma della volontà di Dio. Lui che mi ha salvato dal suicidio e mi ha chiesto di evitare che altri lo commettessero. Dio mi ha guidato dai malati. Uno dopo l’altro, mi ha aiutato ad ascoltarli e aiutarli. Certo, se io non avessi toccato il fondo non avrei mai intrapreso questa strada. Ogni esperienza negativa è fonte di ricchezza. La cosa assurda è che io malati come quelli che ora curo li vedevo tutti i giorni, eppure non mi accorgevo di loro. Prima ero totalmente cieco. E quando ho iniziato a notarli, ecco, non sapevo come approcciarli. Poi tutto è cambiato.
Che cosa vuol dire per lei dare libertà a un malato?
Tante cose insieme. Iniziando da quella più materiale di tagliare le catene con le quali sono stati attaccati agli alberi dei villaggi e tenuti in prigionia. Per aiutare i malati è necessario rompere le catene con cui sono stati immobilizzati, entrare in contatto con chi li ha tenuti in quelle condizioni. E poi iniziare un percorso perché i disturbi psichici rendono schiavi, non solo dalle medicine, ma anche dalle fobie, paure che diventano ossessioni. E infine viene il lavoro sulla società. Perché nessun malato mentale può essere davvero libero se la società continua a stigmatizzarlo, escluderlo, ingabbiarlo.
E come lavora con questa società?
Nei villaggi africani della mia regione siamo a livelli primordiali. Chiunque soffra di un disagio mentale, più o meno grave, viene ritenuto un posseduto da spiriti maligni e pericolosi. Questo contribuisce a diffondere un senso di paura e sospetto tra la popolazione e, di conseguenza, all’isolamento dei malati. La prima cosa che faccio quando vado in un villaggio dove c’è un uomo incatenato è parlare con la gente del villaggio. Poi mi avvicino alla famiglia del paziente. Devono essere tutti d’accordo con il percorso terapeutico: taglio delle catene, riabilitazione, terapia e poi ritorno nella comunità di origine. Quando tutto finisce bene si è doppiamente contenti, per il lavoro fatto con il paziente, per il suo recupero, ma anche per le dinamiche all’interno del villaggio e l’eco che hanno nei villaggi limitrofi.
Eppure la paura che lei cerca di combattere è ancora diffusa. C’è una ricetta vincente per estirparla?
C’è un ingrediente che è certamente necessario e si chiama alternativa. Se si capisce che c’è un’alternativa alle catene allora si inizia a pensare alla possibilità di adottare approcci e atteggiamenti diversi. Per questo il mio progetto cerca di essere visibile, sotto gli occhi di tutti. Quando questa alternativa sarà affermata, il cambiamento sarà più facile.
Secondo lei le medicine costituiscono il 50% della terapia dei suoi pazienti. E il resto?
Il resto è la somma di tante altre cose. In primis del contesto nel quale agiamo. Serve creare un nuovo ambiente attorno a loro. I miei pazienti – spesso schizofrenici – sono stati considerati animali pericolosi e per questo incatenati. Ma non è così. Devono vivere in un ambiente libero e sentirsi esseri umani. E poi hanno bisogno di ricevere affetto e fiducia. E per chi non lo ha mai ricevuto, credetemi, non è cosa facile. Come non è facile fidarsi di altri, dopo che per anni gli altri sono stati contro di te e ti hanno trattato da bestia o da schiavo. La cosa più difficile, ma anche importante, è fare trovare a loro il coraggio di credere in se stessi. A quel punto si possono anche ridurre i medicinali.
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