Gli immigrati musulmani in Italia
tra inclusione e segregazione

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Nel travagliato 2015 che si chiude, gli attentati del 13 novembre a Parigi segnano un ulteriore salto di qualità rispetto all’attacco sferrato a Charlie Hebdo a inizio d’anno. Colpendo il giornale satirico i terroristi islamici colpivano i princìpi e le idee. Al Bataclan hanno colpito le persone. Ecco perché le reazioni che hanno prevalso sono state diverse nei due casi: a parità di shock, indignazione di fronte al primo, sgomento di fronte al secondo. A questo punto il virus dell’insicurezza è inoculato e lo stillicidio mediatico di allarmi (veri, falsi o strumentali) lo rafforza. Passando dalle notizie alle loro interpretazioni, anche i commenti non sempre aiutano a capire. Il privilegio dato al dettaglio (per lo più inquietante), a scapito del quadro di insieme, porta a scrutare l’albero perdendo di vista la foresta.

Il nesso immigrati/minaccia è emblematico della difficoltà di un discorso equilibrato, e l’Italia non fa eccezione. L’intero, epocale fenomeno dell’immigrazione viene narrato dai media e cavalcato da certa politica esclusivamente nella cornice della minaccia, senza se e senza ma. L’attentatore dello stadio di Parigi con passaporto siriano diventa la prova di quello che Salvini va dicendo da tempo: tra i disperati dei barconi si nascondono i terroristi. Automaticamente, dal caso singolo si passa alla generalizzazione, dall’indizio all’equazione: immigrati = jihadisti. Sul lato opposto della barricata politica l’atteggiamento è anch’esso automatico. È proibito analizzare le implicazioni dell’immigrazione sulla sicurezza o, quanto meno, è giudicato inopportuno.

Sarà inopportuno ma farlo è indispensabile, proprio per sgombrare il campo dagli equivoci e dalle strumentalizzazioni. Mettendosi d’accordo su alcuni paletti logici. Il primo dei quali è tenere distinta nelle analisi la dimensione violenta e criminale, implicata dal terrorismo, dalla dimensione sociale. Non perché le due dimensioni non interagiscano tra loro ma proprio perché, al contrario, sono intrecciate e, per comprenderle, vanno viste una alla volta.

Prima questione la sicurezza internazionale. A seguire, la prima avvertenza: evitiamo di improvvisarci strateghi da caffè. Attività importanti per tutti i cittadini, ma molto tecniche come le indagini giudiziarie in corso, la tutela dell’ordine pubblico a Roma durante il Giubileo, la prevenzione di attentati (sfortunatamente mai escludibili a priori) ecc., lasciamole all’ampio e oggi in Italia ragionevolmente efficiente sistema di sicurezza formato da procure della Repubblica, organi di polizia, forze armate a presidio degli obiettivi sensibili. E, cronologicamente al primo posto, i servizi di intelligence le cui attività vanno dal monitoraggio delle fonti aperte e semi-aperte (web) alle operazioni sotto copertura. Quanto ai ragionamenti, anche se non hanno la suspence del racconto mozzafiato e il fascino del personaggio inquietante prediletti dai talk show, sarebbe interessante se essi si spostassero, una volta tanto, sulla comprensione del contesto e sull’analisi della struttura dei problemi. In questo senso sarebbe chiaro che rifiutare l’esasperazione (e a maggior ragione la colpevolizzazione) delle differenze non significa ignorarne l’esistenza. Buona parte dei conflitti attualmente in corso ha a che fare con il mancato riconoscimento delle differenze, con l’incomprensione dell’eventualità stessa che esista qualcuno le cui idee e i cui comportamenti sono plasmati da un’esperienza storica e culturale differente dalla nostra. Differente non significa necessariamente migliore. Significa meritevole dello stesso rispetto che pretendiamo per noi, ma da comprendere nella sua specificità e gestire nelle sue criticità. Non si tratta di buonismo, si tratta di autotutela, di un servofreno che impedisca al camion di andare a sfracellarsi contro il muro. Dopo l’intervento in Iraq, il governatore americano Lewis P. Bremer fu criticato per la catastrofica decisione di sciogliere le forze armate irachene (i cui quadri sono diventati oggi i colonnelli dell’Isis): “Non capisco – replicò Bremer – è quello che Eisenhower aveva fatto in Germania nel 1945, ed era andata benissimo…”!

Allora, forse, aderisce meglio alla realtà la cultura antropologica degli italiani, anche con i noti deficit. Evidentemente qualcosa di positivo è pur rimasto di uno svolgimento storico che per un paio di volte ha visto il nostro Paese al centro del mondo, continuando poi a convivere con la più longeva istituzione tuttora in funzione (la Chiesa cattolica). Blanditi dal cattolicesimo, come individui manchiamo del senso di responsabilità dei protestanti e, a differenza degli altri europei, come collettività manchiamo di senso dello Stato (un’entità a noi estranea fino a sei generazioni fa). C’è di buono, tuttavia, che sedici secoli di invasioni ci hanno insegnato a diffidare degli assoluti in politica (o purtroppo, quando gli assoluti hanno dominato, ad adattarci ad essi senza veramente crederci). Innumerevoli comportamenti di natura microsociale (lo scetticismo degli individui) danno vita a fenomeni di natura macro (il mancato sostegno ai raggiri della politica). E così che quando nel 2003 gli Stati Uniti fecero pressioni sul governo italiano affinché partecipasse alla “coalizione di volenterosi” che improvvidamente andò in Irak per combattere Saddam e le sue armi di distruzione di massa, nell’opinione pubblica italiana nessuno credeva che queste esistessero veramente: non soltanto gli elettori di centrosinistra che erano all’opposizione, ma neppure gli elettori di centrodestra che sostenevano Berlusconi (Difebarometro 2003). Lo stesso oggi. Affermando che l’Italia non si accoda ai bombardamenti degli altri, il premier Renzi esprime la posizione della grande maggioranza degli italiani. Compresi quelli che votano per il centrodestra (i cui partiti levano qualche brontolìo di circostanza ma si guardano bene dal dire chiaramente che gli aerei italiani in Siria dovrebbero prendere parte ai bombardamenti contro l’Isis).

La seconda questione è rappresentata dalla sicurezza interna. Mentre la scena internazionale è dominata dalla politica, spesso ridotta alla sua logica primordiale amico/nemico, nella scena interna un ruolo decisivo è rivestito (fortunatamente) dalla società. Qui l’uso della forza legittima, necessario in alcuni casi, non è sempre necessario né sufficiente. Le istituzioni dello Stato che vi sono preposte sanno bene che, prima del contrasto, viene la prevenzione. Un’operazione di polizia che sventa un crimine prima che sia perpetrato non è un’operazione fallita, al contrario è un’operazione di successo. Nello stesso tempo è chiaro a tutti che non esiste soltanto la prevenzione di polizia; esiste anche – ed è preferibile in quanto risparmia sofferenze e soldi pubblici ed è più efficace nel lungo periodo – la prevenzione sociale.

Le drammatiche vicende che nel 2015 hanno avuto per teatro Parigi annunciano una mutazione strategica da parte del terrorismo islamista che già si era affacciata una decina di anni fa a Madrid e a Londra. A differenza delle Torri gemelle e del Pentagono che nel 2001 erano state attaccati da un commando proveniente dall’estero, Charlie Hebdo il 7 gennaio e il Bataclan il 13 novembre hanno costituito il bersaglio di terroristi nati e residenti in Europa. Dunque nei paesi dell’Unione Europea esistono frange (sia pure proporzionalmente irrisorie) che sono vulnerabili alla propaganda jihadista. Chiedersi perché è doveroso e urgente. Alcune delle spiegazioni in circolazione sono di natura politica e richiamano gli errori che l’occidente, nel suo complesso, ha compiuto in particolare negli ultimi quindici anni. La spiegazione politica non è infondata; basti pensare ai dissennati interventi fire and forget operati in Iraq e in Libia e, prima ancora, al risveglio fondamentalista innescato dagli americani in Afghanistan in funzione anti-sovietica. Il limite è che questa spiegazione non è completa né, soprattutto, è in grado di offrire soluzioni per l’oggi e per il domani (a parte l’ovvio monito, poco ascoltato in politica, a guardarsi dal ripetere errori simili).

Per quanto riguarda l’oggi, presentando il suo ultimo libro Terreur dans l’Exagone, Gilles Kepel sottolinea come, passando da Al Qaida all’Isis, il terrorismo islamico abbia messo nel mirino un’Europa che è vicina, divisa e incerta, al posto degli Stati Uniti, che sono lontani, ben protetti e socialmente coesi. Quanto al domani, è chiaro che per gli europei la prevenzione sociale è una funzione vitale. Solo l’inclusione è in grado di prevenire il rancore sociale, a sua volta terreno di coltura della propaganda jihadista. Un’analisi spassionata della situazione porta alla luce dati e ispira conclusioni di segno contrastante. Innanzitutto è necessario prendere atto che i due principali modelli di relazione tra immigrati e società di accoglienza adottati sinora in Europa sono falliti: tanto quello assimilazionista della Francia (uniforme trattamento di tutti gli abitanti nel solco della tradizione laica e repubblicana), quanto quello multiculturalista della Gran Bretagna (auto-sufficienza culturale e sviluppo separato di ciascuna comunità). In entrambi i casi l’esito è stato la segregazione (e auto-segregazione) degli immigrati di religione e cultura musulmana.

Per l’Italia il discorso è un altro, in quanto esistono differenze che costituiscono altrettanti punti sia di forza che di debolezza. Per una volta ci concentriamo sui primi, partendo dai fattori oggettivi. A differenza delle due maggiori potenze europee, Francia e Gran Bretagna, da noi l’immigrazione non rappresenta il lascito (o la nemesi) di due imperi, bensì l’esito di una miriade di progetti migratori individuali, maturati sotto la spinta della necessità, o economica o politica, nei paesi di origine. Il principale risultato di ciò è l’assenza di una imponente e relativamente uniforme società nella società, fatta di immigrati che condividono lingua, etnia, religione (come è il caso dei circa 5 milioni di musulmani in Francia), mentre esiste una pluralità di comunità ciascuna con un’identità propria.

Altri fattori sono soggettivi e affondano le radici nella storia e nella cultura del paese di accoglienza (cioè noi), le cui caratteristiche, e per alcuni versi le debolezze stesse, presentano aspetti funzionali nei confronti dell’integrazione. Primo fra tutti la natura informale e flessibile dei valori e delle norme della cultura italiana, secondo modalità la cui distanza nei confronti degli immigrati è presumibilmente inferiore (e come tale può essere percepita dagli immigrati medesimi) rispetto a quella che connota il rapporto tra questi ultimi e altre culture nazionali del nord e centro-Europa. Al netto della retorica e del folklore, molti osservatori descrivono la propensione italiana alla mediazione. Ad esempio nei teatri di crisi, dai Balcani al Medio Oriente, i peacekeepers italiani tendono a stabilire buone relazioni con le popolazioni locali sulla base di una reale equidistanza tra le parti, di un’empatia più spontanea che pianificata dall’alto e, dato più apprezzato di tutti, dall’assenza di quell’atteggiamento di superiorità che tanto indispone le popolazioni autoctone nei confronti degli occidentali.

Infine, a volte anche i limiti possiedono una loro funzionalità. Passando dall’uomo della strada all’élite, la sistematica incapacità dei governi italiani di programmare e attuare le politiche pubbliche può rivelarsi una risorsa. Un esempio tra gli altri è il vuoto di politiche urbanistiche, che invece in Francia hanno ispirato la progettazione delle banlieues e in Gran Bretagna delle new towns, spesso non-luoghi di segregazione, emarginazione e rancore razziale. Tardività del fenomeno migratorio, sua segmentazione in molteplici identità e appartenenze, informalità (che ovviamente non vuol dire qualità) delle soluzioni abitative e compenetrazione con ampi strati di popolazione italiana hanno consentito, almeno sinora, di evitare l’effetto ghetto che si è andato diffondendo nella regione parigina, a Bruxelles, in Inghilterra.

Naturalmente gli aspetti strutturali di un determinato Paese come la composizione dell’immigrazione o la sua cultura in senso antropologico costituiscono il punto di partenza, mentre la direzione che assumono i fenomeni dipende dagli attori in gioco. A questo punto è giusto chiedersi chi, in Italia, ha fatto il lavoro dell’accoglienza e chi ne ha pagato i costi o, comunque, ha anticipato le risorse “prestandole” agli stranieri e ai connazionali.

Il bilancio è presto fatto. In Italia il primo fronte dell’accoglienza lo hanno realizzato e lo realizzano le organizzazioni del terzo settore, cattolico e laico: vere e proprie istituzioni come la Caritas, associazioni non profit, gruppi spontanei di aiuto e, va detto, alcune cooperative sociali che in varie parti di Italia stanno facendo un lavoro competente e onesto. Esse si affiancano alle organizzazioni pubbliche. Hanno fatto moltissimo, anche più della loro missione, e dunque vanno ricordate. Per quanto riguarda l’emergenza, il soccorso, in mare e altrove: sono le Forze armate (Marina, Guardia costiera) e le Forze dell’ordine (Polizia, Carabinieri, Finanza). Questi sono gli addetti alla sicurezza come legalità e incolumità che, in modo encomiabile, sono stati in grado di coniugare i loro compiti di istituto con le norme internazionali e consuetudinarie e, soprattutto, con la disponibilità personale e con il buon senso. Poi sono da ricordare i protagonisti della sicurezza come assistenza sociale e welfare. Questo secondo fronte, che anch’esso ha dato buona prova di sé, è costituito da due istituzioni la cui missione è di carattere generale, cioè l’istruzione (la scuola) e la salute (il servizio sanitario nazionale). Facile bersaglio della demagogia liberista, frequente zimbello delle campagne mediatiche sulla malasanità e sulla cattiva scuola, in questi venti anni ospedali e scuole hanno fornito servizi complessivamente soddisfacenti, oltre a una cornice psicologica e istituzionale per la socializzazione degli immigrati. Offrendo una prestazione su basi universalistiche, l’hanno fornita a tutti, senza chiedere se fossero italiani o stranieri. Quando qualcuno o qualcosa (come l’emendamento leghista approvato al Senato e bocciato alla Camera nel 2008) ha provato a introdurre questa discriminazione, gli insegnanti da un lato, i medici e gli infermieri dall’altro, si sono ribellati giacché chiedere a chi ha bisogno il certificato di cittadinanza è estraneo all’opera dell’insegnante e del medico.

Infine, sulla base non di una scelta umana e professionale bensì in seguito alla materiale necessità delle circostanze, un ultimo e misconosciuto attore ha sostenuto il peso dell’integrazione dei migranti: gli abitanti delle zone periferiche della città. Il problema è che, a differenza di istituzioni che comunque hanno esercitato un mandato e di operatori che praticano la loro professione, una politica pubblica dissennata e opportunistica ha canalizzato gli immigrati – a cominciare dal loro strato più delicato e complesso, i rifugiati e richiedenti asilo – in poche e concentrate zone delle grandi città e del loro hinterland. L’obiettivo, come ha dimostrato l’inchiesta di Mafia Capitale, era chiaro: massimizzare i profitti dei rimborsi statali (i famosi 35 euro a rifugiato) concentrando in modo abnorme i destinatari e lucrando sulle economie di scala che ne scaturivano. È così che ai residenti delle periferie metropolitane (efficacemente definiti “i penultimi”) vanno, oltre alle generali condizioni di disagio e abbandono in cui versano i loro quartieri e le loro case, gli oneri di fare da ammortizzatori del disagio degli “ultimi”. Da qui mobilitazioni di piazza e rivolte anche violente, immediatamente cavalcate dalla politica.

C’è una possibilità di uscire da questa spirale? Sì, almeno parzialmente. La soluzione è riscoprire le periferie, investendo in esse risorse materiali e immateriali. Tra queste ultime, l’attenzione politica e l’ascolto. Praticando ascolto e informazione, come università abbiamo realizzato nella periferia romana di Tor Sapienza una Giuria dei cittadini da cui è scaturito un “verdetto” articolato in cinque raccomandazioni: un’equa redistribuzione degli immigrati sul territorio urbano; il miglioramento dell’informazione e consultazione dei cittadini; il coinvolgimento attivo dei richiedenti asilo e rifugiati nella vita del quartiere (partecipazione ad attività per il miglioramento dello spazio urbano); la maggiore presenza delle istituzioni pubbliche (centrali e locali) sul territorio; la promozione dello scambio sociale e culturale tra autoctoni e stranieri, in modo da sviluppare la conoscenza reciproca. E per concludere, dato forse più rilevante di tutti, l’opportunità di modificare il proprio punto di vista (anche quello più drastico e chiuso), ascoltando analisi politicamente diversificate, riflettendo sui dati concreti, confrontando i propri convincimenti e le proprie opinioni con quelle degli altri. Se poi a tutto questo prestasse ascolto la politica locale e nazionale, sarebbe il massimo.

Fabrizio Battistelli è professore ordinario di Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche – DiSSE della Sapienza Università di Roma, dove ha insegnato anche Sociologia dell’organizzazione e Organizzazione internazionale. Già presidente del Corso di laurea in Governo, organizzazione e risorse umane, coordinatore del Dottorato in Sistemi sociali, organizzazione e analisi delle politiche pubbliche, ha diretto il Dipartimento Innovazione e Società dal 2009 al 2010, e il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dal 2010 al febbraio 2014.

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