Da Reset-Dialogues on Civilizations
Pubblichiamo di seguito il saggio di Michael Walzer, professore emerito di filosofia a Princeton, presentato nella primavera 2014 in occasione del ciclo di incontri “Per una cittadinanza inclusiva”, organizzato da Reset-DoC e svoltosi a Milano presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Vorrei partire dalla vecchia idea di cittadinanza. Prima di “ripensare” quell’idea, come oggi ci viene chiesto di fare, proviamo a riflettere sul suo significato. Qual è la fisionomia dei cittadini repubblicani? (O “qual era?” – ma continuerò a usare il tempo presente). Sono uomini e donne contraddistinti da quella che definiamo “virtù civica”, ossia politicamente attivi, coinvolti nel dibattito e nel confronto pubblico così come, laddove necessario, nei teatri di guerra. Sono patrioti impegnati: dedicano tempo ed energie alla vita comune, e si confrontano tra di loro sugli impegni che essa richiede. Come afferma Rousseau, accorrono alle assemblee e sono disposti (non desiderosi, ma disposti) a rischiare la vita per difendere il proprio paese. In passato, i cittadini attivi e impegnati erano esclusivamente uomini, ma dopo la levée en masse della Rivoluzione francese, e per effetto dell’estensione del suffragio nel secolo e mezzo successivo, la cittadinanza è diventata un attributo universale. Se tutti condividono le responsabilità della cittadinanza, tutti godono anche dei privilegi e benefici che ne derivano: gli obblighi dei propri concittadini, la solidarietà, la difesa reciproca, l’educazione, il welfare, l’uguaglianza giuridica, e il voto – questi sono i diritti dei cittadini o, per lo meno, i diritti che i cittadini rivendicano. La cittadinanza è sinonimo di autodeterminazione collettiva, da cui deriva una responsabilità e al tempo stesso un beneficio. Il cittadino che accetta quelle responsabilità, gode di quei benefici e partecipa al dibattito sui loro contenuti può essere considerato l’eroe di una certa cultura politica di sinistra che negli anni Sessanta del secolo scorso prendeva il nome di “democrazia partecipativa”.
Tale processo di autodeterminazione collettiva ha avuto storicamente come presupposto un certo (alto) livello di omogeneità culturale: una storia, una lingua e una religione comune, e un sistema di istruzione pubblica capillare e uniforme volto a formare i cittadini. Il modello è fornito da Rousseau nelle sue considerazioni sulla Polonia: “A venti anni un polacco non deve essere un altro uomo: deve essere un polacco. Voglio che imparando a leggere legga le cose del suo paese, che a dieci anni ne conosca tutti i prodotti, a dodici tutte le province, tutte le strade, tutte le città; voglio che a quindici anni ne conosca tutta la storia, a sedici tutte le leggi, che non vi sia stata in tutta la Polonia una bella azione o un uomo illustre di cui egli non abbia pieni i cuore e la memoria […]”.
Questo breve estratto rivela tutto il fascino di Rousseau: un filosofo che porta sempre i suoi ragionamenti oltre i confini del verosimile. Ma dà anche un’idea, magari un po’ sopra le righe, di quella che può essere la formazione del cittadino repubblicano.
Anche il servizio militare, se concepito come un dovere universale, nell’ottica di un “esercito di cittadini”, costituisce un adempimento propedeutico alla vita comune: è, o può essere, una prova di impegno e al tempo stesso un momento di formazione. Lo stesso vale per le festività civili che scandiscono la storia di una nazione: i cittadini partecipano alle celebrazioni e, almeno in una certa misura, vengono a conoscenza delle loro origini. Ricordo bene i festeggiamenti per il Memorial Day nella mia città, Johnstown, in Pennsylvania, nel 1946 o giù di lì, subito dopo la fine della Guerra: era una vera cerimonia civile; vi prendevano parte praticamente tutti i cittadini, raggiungendo a piedi al cimitero (per noi bambini la marcia partiva dalla scuola), ascoltando i vari oratori, e ricordavano gli eventi bellici e i caduti nei combattimenti, ma anche i motivi per cui la guerra era cominciata. Si può obiettare, naturalmente, che tutto ciò serviva solo a preparare la nazione al conflitto successivo, ma sarebbe sbagliato ridurre la vicenda in questi termini. Era anche un modo per celebrare il legame che rende possibile una vita comune e (come vedremo più avanti) il welfare state.
Ora, che cosa accade quando le nazioni diventano eterogenee – o quando si riconosce la loro eterogeneità dopo averla negata per anni e anni? Che cosa accade quando la migrazione su vasta scala di profughi disperati e di uomini e donne alla ricerca di una vita migliore, immigrati legali e illegali – che cosa accade quando queste persone danno vita a popolazioni estremamente variegate, multi-razziali, multi-religiose, multi-nazionali, multi-culturali? Una risposta alla migrazione e alla diversità è un nuovo fermento a favore dell’inclusione e dei diritti umani, diritti che non dipendono da un’appartenenza politica di lunga data e da ricordi condivisi — il trionfo, potremmo dire, dei “diritti dell’uomo” della Rivoluzione francese sui “diritti del cittadino”. Vediamo il trionfo quanto mai chiaramente nell’estensione di molti diritti del cittadino ai residenti stranieri e altri non-cittadini, inclusi gli immigrati illegali , o almeno (negli Stati Uniti) i loro figli. Questa è opera della sinistra liberale (che io appoggio), ma è strana, perché quanti più diritti si estendono ai non-cittadini tanto più la parola “cittadinanza” perde significato. Stiamo vivendo il processo di svalutazione della cittadinanza per il bene dell’umanità. Questa potrebbe anche essere la cosa giusta da fare, ma lascia la sinistra priva del modello di cittadino virtuoso, attivista, che decide per sé. E diventa sempre più difficile sostenere una cultura civica comune.
Proviamo a confrontare il Memorial Day così come viene celebrato oggi negli Stati Uniti con la festività che ho appena descritto. La ricorrenza è stata spostata da una data fissa, il 30 maggio, al lunedì più vicino, per trasformarla in un lungo weekend o una breve vacanza. Così, quasi nessuno va più al cimitero, e la commemorazione ha lasciato il posto a un giorno “libero”, senza attività prestabilite, cioè una vera e propria vacanza. Il Memorial Day è stato svuotato della sua dimensione collettiva; ormai sta al singolo individuo o nucleo familiare decidere come trascorrerlo.
È un cambiamento positivo? Qualcuno dirà che è un’avvisaglia della fine dei furori patriottici, della xenofobia, della ferocia nazionalista e della deriva ultranazionalista. I paesi rivestiranno un significato minore per i loro abitanti, perché molti di loro non vi risiederanno da lungo tempo; le tombe dei loro antenati saranno altrove; il terreno sul quale vivranno non sarà per loro suolo sacro, e i loro visti non evocheranno ricordi storici e personali. La vita comune di questo popolo eterogeneo sarà meno intensa, e dunque meno coinvolgente; per dirla con Rousseau, contribuirà in misura proporzionalmente ridotta alla felicità del singolo individuo, mentre la vita privata assumerà sempre maggiore importanza.
Ci troviamo di fronte a quella che possiamo considerare la vittoria politica e sociale non solo del pluralismo culturale ma anche, e forse soprattutto, dell’individualismo liberale. La maggior parte degli americani non si chiede cosa può fare per il proprio paese, parafrasando l’invito rivolto alla popolazione da John Kennedy nel discorso d’insediamento del 1961 (“Non chiedete cosa può fare il vostro paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese”). Il suo era un appello repubblicano, e negli anni Sessanta riscosse un certo successo. Credo di poter affermare, tuttavia, che oggi la risposta sia piuttosto debole. E questa debolezza rappresenta una vittoria della cultura liberale, anche se molti liberal potrebbero biasimarla. È frutto di una combinazione di fattori: vita privata, relazioni di mercato, e uno strano mix di cultura locale e globale (la cultura nazionale, con i suoi tenaci vincoli, è per lo più assente, o presente in modo meno incisivo rispetto al passato). Oggi i singoli paesi sono difesi da soldati di professione e governati da politici di professione, dagli esperti ingaggiati da questi ultimi e dagli oligarchi economici al cui giudizio si rimettono. Le conseguenze a livello sociale sono sotto i nostri occhi e sulla nostra pelle: aumento delle disuguaglianze, un opprimente senso di apatia e impotenza politica tra la gente comune, disgregazione di partiti e sindacati, ossia le più importanti realtà associative per i cittadini attivisti, costituendo il presupposto stesso del loro attivismo. L’aspetto più singolare per chi, come me, è cresciuto con la dottrina del cittadino-eroe, sta nel fatto che l’ultimo decennio ha visto (negli Stati Uniti e forse anche in Europa) la progressiva affermazione del libertarismo, un’ideologia politica che si contrappone a qualsiasi tipo di azione collettiva – persino al governo stesso –, sposata da uomini e donne ai cui occhi l’autodeterminazione collettiva è un ideale superato e conta solo l’autodeterminazione individuale.
In queste condizioni di eterogeneità, pluralismo culturale e individualismo radicale, che cosa accadrà, che cosa è accaduto alla solidarietà che sta sotto e che sostiene il welfare state? Se non ci sentiamo intimamente connessi agli altri abitanti del nostro paese, se non abbiamo in comune storia, religione e così via, se pensiamo a noi stessi come a una “serie” sartriana di individui scollegati tra loro (neppure si può parlare di nuclei familiari, dato il sempre più elevato numero di persone che oggi vivono da sole in quelle che lo US Census Bureau definisce “famiglie con un solo componente”) — se tutto ciò è vero, chi mai sosterrà politicamente il welfare state o sarà disposto a pagare le tasse di cui esso necessita? Chi investirà tempo ed energie in discussioni politiche o in un’azione politica? Chi accorrerà alle assemblee?
Al contempo, intrinsecamente collegato con ciò che ho appena descritto, c’è un nuovo globalismo; non è proprio la stessa cosa dell’internazionalismo della vecchia sinistra (rispetto alla quale è politicamente molto meno fazioso), ma dovremmo considerarlo la versione del XXI secolo dell’internazionalismo, evidente in organizzazioni come Medici senza Frontiere, Human Rights Watch, e Amnesty International. Gli aiuti umanitari per le persone in difficoltà in tutto il pianeta , nelle loro numerose e varie forme, sono molto popolari oggi, forse ancor più del welfare nazionale. Se ci sono meno cittadini impegnati nel nostro paese, abbiamo però molti più cittadini impegnati nel mondo; attivisti all’estero. Questi impegni globali non sembrano poter rendere possibile una vibrante politica liberale/di sinistra in patria, e non penso che questa sia una mera coincidenza. Di fatto, è più facile, tenuto conto delle condizioni che ho descritto, difendere i diritti umani nei paesi di altri popoli che unirsi alla lotta contro l’ineguaglianza negli Stati Uniti (o l’Italia, o la Germania, o il Regno Unito). Anzi, la nuova battaglia per i diritti umani è stata accompagnata da una smobilitazione politica in patria. Qualcosa di simile vale anche per l’ambientalismo, che suscita interesse in tutto il mondo ma non ha saputo mobilitare le energie necessarie per un imprimere una svolta a politiche nazionali potenzialmente disastrose. Vale la pena di ricordare le dure parole di Rousseau sulle persone che amano l’umanità ma non riescono ad andare d’accordo con i loro vicini (nel caso dell’ambientalismo, con i propri nipoti).
La questione, dunque, si pone in questi termini: com’è possibile – se è possibile – promuovere quei valori cui diamo il nome di giustizia globale, diritti umani universali, integrità ambientale, e al tempo stesso sostenere una cultura politica locale viva e pulsante, l’attivismo repubblicano, la democrazia partecipativa? Un politico americano noto con lo pseudonimo di Tip O’Neill, rappresentante democratico del Massachusetts, un giorno affermò che “tutta la politica è locale”. Probabilmente non è più vero, ammesso che lo sia mai stato, ma non c’è dubbio che per la maggior parte delle persone la qualità della vita, pur essendo fortemente condizionata dai trend economici globali, dipenda innanzitutto dalla situazione in casa propria: dalla sicurezza fisica garantita o non garantita dallo Stato, dalla gestione più o meno competente dell’economia in cui lavorano, dai meccanismi di riscossione e ripartizione delle imposte, dalla qualità dell’istruzione offerta ai loro figli e del servizio sanitario a loro disposizione, dall’efficienza del sistema di welfare, dal grado di integrità o corruzione della pubblica amministrazione, dal rispetto o meno dei parametri ambientali. Naturalmente, alcuni Stati sono talmente malridotti, o così fortemente divisi, che i loro governi non possono fare quasi nulla in quegli ambiti; riescono a malapena ad andare avanti e sono ormai “falliti”. La maggior parte degli Stati, tuttavia, compresi quelli relativamente poveri o fortemente condizionati dall’andamento dell’economia globale, può fare molto per garantire una vita dignitosa ai propri cittadini – purché questi ultimi siano capaci di pretenderlo.
Prima di sottolineare la necessità dell’azione politica transfrontaliera, vorrei ribadire la fondamentale importanza dello Stato e dei cittadini attivisti – e dei pericoli che possono conseguire dall’assenza di questi ultimi. Fermiamo dunque un istante l’attenzione sulle attività di competenza statale appena menzionate: lì sta l’essenza della politica nazionale, ed è per questo che dovrebbero essere poste al centro dell’impegno civico. Le loro caratteristiche non sono determinate dal nesso con i diritti umani; difficilmente si possono ridurre le disuguaglianze o migliorare i servizi di welfare ricorrendo al tribunale, e men che meno alla Corte mondiale. Possiamo affermare che tutti gli esseri umani abbiano diritto a vivere all’interno di uno Stato (o di un’altra solida entità politica) che si occupi concretamente delle questioni che interessano la loro vita. All’interno di tale Stato, tuttavia, il dibattito non verte principalmente sui diritti. Come organizzare il sistema di istruzione o di welfare, come ripartire il budget tra i vari servizi, come distribuire il carico fiscale, come salvaguardare l’ambiente e “far crescere” l’economia: sono tutte questioni politiche che richiedono un impegno politico – ossia quello che dovrebbe essere l’impegno ordinario e quotidiano dei cittadini. Oggi, tuttavia, non è così; qualcosa ci è sfuggito di mano. Come è potuto succedere? E perché?
Credo che l’evoluzione generale (c’è anche, sempre, un’evoluzione particolare, che in parte ho già descritto) abbia molto a che fare con la diffusa, e forse naturale, tendenza all’oligarchia e alla gerarchia – riscontrabile in tutte le società umane e tanto più marcata, temo, in quelle fortemente eterogenee. L’analisi sociologica di Robert Michels a proposito della socialdemocrazia tedesca, e gli studi di Pareto e Mosca sulla politica e la società italiana, sono ancora illuminanti al riguardo. L’ascesa delle élite politiche ed economiche, il loro sistematico arricchimento la loro permanenza al potere – ossia la capacità di trasmettere la gran parte dei privilegi di cui godono ai loro figli –; tutto ciò è ben noto, anche se i nostri valori democratici spesso ci portano a sottacere quel che sappiamo. Ogni società umana produce gerarchie di ricchezze e potere e oggi questa produzione si attua non all’interno delle società, ma in modo trasversale a esse, nella società globale, dove le banche internazionali e le multinazionali operano con modalità tali da assicurare grandi ricchezze a pochi e determinare periodiche crisi per molti. Ai vecchi tempi, nello stato di cittadini attivi o potenzialmente attivi, questa tendenza persistente verso un ordinamento gerarchico era talvolta interrotta dalle ribellioni delle classi subordinate — agitazioni di cittadini precedentemente passivi che confluivano in movimenti sociali potenti e che davano vita a regimi socialdemocratici, welfare state, e disordini o perturbazioni nelle vecchie gerarchie.
In questo momento, tutte le democrazie occidentali hanno soprattutto bisogno di nuove ribellioni. Occupy Wall Street è un esperimento non propriamente riuscito o, per meglio dire, non durato abbastanza a lungo (forse perché i suoi leader anarchici non credevano nel loro ruolo di guida). Ma il movimento americano dà un’idea di quel che si intende per ribellione. Non è la stessa cosa di una rivoluzione: la ribellione è un atto di difesa della democrazia all’interno di quello che dovrebbe essere uno Stato già democratico. Penso a realtà come (nel mio paese) il movimento sindacale negli anni Trenta, il movimento per i diritti civili negli anni Sessanta, il movimento femminista negli anni Settanta e quello per la difesa dei diritti dei gay negli ultimi due decenni – nessuno dei quali, certo, ha trasformato gli Stati Uniti in una società giusta ed egualitaria. Opponendosi agli indirizzi della gerarchia, però, hanno contribuito a rendere il sistema un po’ più equo per almeno una parte della popolazione americana.
La ribellione mira a un obiettivo ancor più ambizioso: formare i cittadini o, più precisamente, rappresentare la loro auto-formazione. Naturalmente, si può essere cittadini sin dalla nascita (come avviene nella maggior parte dei casi), e la legge contempla la possibilità di diventare cittadini naturalizzati. I cittadini attivi e impegnati, tuttavia, si formano o vengono formati attraverso la politica. Così, la ribellione non rappresenta solo un passo concreto verso la democrazia partecipativa; è anche una sua manifestazione. Mi rifaccio ancora a quello che è avvenuto nella mia città, Johnstown.
Johnstown era una città metallurgica, praticamente di proprietà della Bethlehem Steel, una delle più importanti acciaierie americane. I primi operai erano originari dall’Europa occidentale, principalmente della Germania, e gli ultimi dall’Europa orientale e meridionale – quasi tutti polacchi e italiani, immigrati o americani di prima generazione. C’era uno spaccio, e nessun sindacato. Proprio qui nel 1937 il fallimento del Little Steel Strike segnò la sconfitta, in apparenza definitiva, del tentativo di organizzare un sindacato. Quella sconfitta, tuttavia, non fu l’ultima parola. La battaglia per la fondazione di un sindacato dei lavoratori dell’acciaio proseguì con l’aiuto dei democratici di Harrisburg, la capitale dello Stato, e dei liberali del New Deal a Washington. Una commissione del Senato guidata da Robert M. LaFollette, senatore progressista del Wisconsin, avviò un’indagine su quanto era accaduto a Johnstown. Il suo rapporto condannò il sindaco e i membri del consiglio comunale per le loro responsabilità nel fallimento dello sciopero: erano stati, e probabilmente continuavano a essere, sul libro paga dell’impresa. Poi, nel 1941, con la guerra alle porte e il governo federale intento a prevenire qualsiasi intoppo nella produzione metallurgica, il sindacato fu finalmente organizzato: nelle elezioni indette dal National Labor Relations Board, gli operai si pronunciarono in maggioranza (4-1) a favore dello Steel Workers Organizing Committee.
La forma passiva (“fu organizzato”), tuttavia, non è corretta. In realtà, dalla fine degli anni Trenta ai Cinquanta inoltrati, Johnstown fu protagonista di una mobilitazione politica su vasta scala. Gli organizzatori, tra cui diversi militanti socialisti e comunisti, venivano da fuori, in rappresentanza del neonato Congress of Industrial Organizations (CIO), ma non erano loro i personaggi fondamentali. La gente che contava, coloro che dovremmo ricordare (e celebrare), erano uomini e donne di Johnstown che risposero all’iniziativa degli organizzatori. Persone fino a quel momento passive e incapaci di far sentire la propria voce, che mai avrebbero immaginato di proporsi come soggetti politici, cominciarono a parlare e ad agire. Organizzarono incontri, e a quegli incontri presero la parola per denunciare le condizioni di lavoro in fabbrica e la povertà delle famiglie degli operai. Si posero la classica domanda politica – che fare? – e cominciarono a darvi una risposta. Scrissero volantini, fecero picchetti, aprirono trattative con la polizia, si incoraggiarono a vicenda, discussero con i colleghi più titubanti. E alla fine vinsero, fondarono un sindacato ed elessero tra le loro fila i primi rappresentanti.
E cambiarono la vita dei lavoratori di Johnstown – la loro vita. La sindacalizzazione fu soprattutto una forma di autotutela collettiva. Alcuni di quei cambiamenti erano materiali: all’improvviso gli operai avevano qualche soldo in più. Erano meno preoccupati all’idea di una visita medica. Potevano diventare consumatori (niente male, per chi ha conosciuto la povertà), comprare una lavatrice, vestiti migliori per i bambini; potevano permettersi una vacanza d’estate. Altri cambiamenti riguardavano quella che possiamo considerare la politica del quotidiano: la tirannia della fabbrica fu rovesciata, il caposquadra non era più un padrone, e all’improvviso tutti gli impiegati pubblici si mostrarono più disponibili e amichevoli di quanto non fossero mai stati fino ad allora. Non che Johnstown fosse diventata una società egualitaria; ma le disuguaglianze al suo interno furono notevolmente attenuate. C’era meno deferenza da un lato e meno arroganza dall’altro; la città diventò un posto migliore.
Sappiamo che il resto della storia è meno edificante. I figli dei militanti ereditarono il sindacato senza dover lottare; quel momento di intenso attivismo non durò; come dicono i sociologi, il movimento si fece “routinario”. E oggi, a circa settant’anni di distanza, le fabbriche sono chiuse e vuote; il sindacato non è più una presenza significativa a Johnstown. E probabilmente non c’è alcun sindacato nei paesi in cui oggi si produce l’acciaio, a partire dal Brasile e dalla Cina. Eppure, quel momento di creatività politica, quegli anni in cui uomini e donne si sono affermati come protagonisti attivi del loro stesso destino e hanno rivendicato la propria cittadinanza – quella è stata, a mio parere, un’esperienza di enorme valore umano. Non importa che non sia permanente, perché di certo è un fenomeno ricorrente. Si ripeterà ancora.
O almeno così spero. Ma lo stesso fenomeno può verificarsi in una società fortemente eterogenea come quella che ho fin qui descritto? Gli operai di Johnstown costituivano un insieme variegato, o così sembrava all’epoca; e il fatto che gli organizzatori del CIO parlassero almeno un po’ di polacco e di italiano probabilmente ha giovato alla causa del sindacato. Ma gli operai erano quasi tutti cattolici, e tutti bianchi – la Bethlehem Steel non assumeva neri né ebrei, e in quegli anni a Johnstown non c’erano immigrati ispanici o asiatici. Poi, naturalmente, erano tutti uomini; e nessuno si batteva per i diritti dei gay. Non era dunque un insieme così variegato, dunque; anzi, la “diversità” così come la intendiamo oggi era del tutto assente.
In una società eterogenea come la nostra le ribellioni popolari sono ancora possibili? Negli ultimi anni, le ribellioni andate a buon fine (negli Stati Uniti) sono solo quelle a carattere particolaristico, che riflettono la politica della differenza: il movimento per i diritti civili, il movimento femminista e quello per i diritti dei gay. Ognuna di quelle esperienza è stata coronata da successo; un successo parziale, certo, com’è inevitabile nel nostro caso, ma resta il fatto che abbiamo vinto una serie di importanti battaglie a favore dei neri, delle donne e dei gay americani. E l’America è diventata, per ognuno di questi gruppi, una società più egualitaria. Al tempo stesso, però, se si prende in esame l’intera popolazione del paese, la stessa società appare meno egualitaria e più nettamente gerarchica. Neri, donne e gay hanno maggiori opportunità di scalare nella gerarchia, ma la scala è diventata molto più ripida.
Lo stesso modello di politica particolaristica si è affermato in molti altri paesi: basti pensare alla difesa dei diritti degli indigeni in America Latina, dei Rom in Europa, delle donne e delle ragazze nei regimi fondati sul conservatorismo religioso (e non solo), delle minoranze nazionali e dei nuovi immigrati. Tutte queste battaglie politiche sono importanti e persino urgenti, ma credo sia ragionevole affermare che possono essere vinte (anche se – lo ripeto – in modo parziale, come ogni battaglia della sinistra) senza scardinare le gerarchie socio-economiche esistenti. E la somma di tutte le vittorie particolari non costituisce una società di pari.
È questa scomoda verità, a mio parere, ad aver favorito negli ultimi anni un revival del marxismo tra i giovani (e meno giovani) di sinistra. I marxisti sbagliavano quando, ormai molti anni fa, puntavano il dito contro le battaglie particolaristiche – compresa la militanza femminista – e invitavano a concentrare tutte le energie sulla rivoluzione proletaria, perché quest’ultima avrebbe risolto i problemi di tutti in un colpo solo. Neri, donne, gay, indigeni, minoranze etniche e religiose: tutti sarebbero stati restituiti alla libertà insieme al resto della popolazione. In realtà, i movimenti particolaristi erano e sono tuttora necessari e importanti. Ma è giunto il momento di tornare a parlare di classe. Le ribellioni di cui oggi si avverte il bisogno sono quelle di chi non ha soldi (o non ne ha a sufficienza); di chi è senza lavoro; di chi è drammaticamente vulnerabile alla minima difficoltà economica e vive sull’orlo dell’indigenza; di chi manda i figli in scuole fatiscenti e deve fare affidamento sui servizi o, più verosimilmente, sui disservizi di enti assistenziali a corto di fondi; di chi vivono in baraccopoli e muore prematuramente. Tutte queste persone non si distinguono per il sesso, la razza, la nazionalità o la religione. Sono, per così dire, naturalmente eterogenee; la classe è una categoria inclusiva.
L’idea dell’uno per cento e del novantanove per cento, lo slogan del movimento Occupy, non è un esempio di analisi di classe. È un appello populista, e potrebbe essere politicamente utile. Ma dovremmo usare prudenza nei confronti del populismo (proprio come dovremmo essere cauti nei confronti dell’anarchismo), perché non è una politica sostenibile, non cambia il mondo, ed è accessibile tanto alla destra quanto alla sinistra. Il lavoro di creazione di un movimento deve essere molto più concentrato. Deve essere opera di persone che sono per lo più in difficoltà, e deve derivare dal riconoscimento da parte loro delle proprie esigenze. Se deve esserci un movimento di classe di persone colpite o minacciate dal capitalismo neo-liberale, deve essere un movimento con obiettivi concreti e un programma specifico. Non so come dar vita a un movimento concentrato di questo tipo, ma è possibile prepararsi per la sua comparsa a livello intellettuale e di organizzazione. Dobbiamo anche essere pronti a far fronte al pericolo che si nasconde lungo il nostro cammino, il pericolo che nelle nostre società diverse ed eterogenee il movimento che auspichiamo sia preceduto da una politica nazionalista e xenofoba nei confronti delle minoranze, degli immigrati, dei rifugiati. Questo è un altro motivo per il quale la gente di sinistra non dovrebbe mai prendere alla leggera il populismo. Ci occorre una democrazia sociale rinvigorita e militante, che parli la lingua di classe, i cui leader e attivisti non abbiano paura della ribellione e siano preparati, quando verrà il momento della ribellione, a unirsi, a organizzare, a esercitare pressioni sui ribelli verso una politica di solidarietà, di aiuto reciproco e di cooperazione transfrontaliera.
Tutte le ribellioni sono locali, e hanno come presupposto un forte vissuto comune, la concreta condivisione di un’esperienza di povertà, oppressione o vulnerabilità. Anche se dobbiamo pensare in termini di classe, non possiamo pretendere che “Proletari di tutti i paesi, unitevi!” sia uno slogan plausibile per la politica di cui oggi si avverte il bisogno. Ovviamente, c’è un’economia globale che dobbiamo comprendere e con cui dobbiamo fare i conti, ma non esiste una società globale intesa come spazio di azione politica. È ancora lo Stato, e solo lo Stato, a garantire tale spazio. Quando però arrivano le ribellioni – e devono arrivare, a meno che tutto quel che sappiamo sulla politica di massa sia sbagliato –, l’insicurezza e le disuguaglianze diffuse innescano una reazione politica destinata a travalicare i confini dei singoli Stati. Ne abbiamo avuto un assaggio nel 2011, quando – a mio modo di vedere – è stato dato troppo credito alle nuove tecnologie e ai social media. Ecco allora che la ribellione va in profondità: l’Europa del 1848, quando le comunicazioni erano molto lente ma la politica, in un certo qual modo, assai veloce, è un utile promemoria.
Quando arriverà quel momento, i vari gruppi interessati non avranno tempo di elaborare un programma comune rispetto al capitale globale e di sviluppare proposte concrete per la riforma di organizzazioni come il FMI e la Banca mondiale. Quel lavoro va fatto adesso. Il primo direttore della rivista Dissent, per la quale ho lavorato molti anni, un giorno disse: “Quando gli intellettuali non sanno cosa fare, fondano una rivista”. Ebbene, oggi abbiamo bisogno di riviste, di siti web e di tutti gli altri possibili fonti di idee nuove. Ma noi sappiamo cosa dobbiamo fare, anche se non siamo sicuri di poterci riuscire. Dobbiamo mettere a punto un programma politico per le persone in difficoltà nei nostri paesi, in vista della loro ribellione, dobbiamo stabilire contatti con intellettuali e attivisti politici di altri paesi e cominciare ad abbozzare un programma globale. Siamo prima di tutto cittadini a casa nostra, in cerca di una classe politica che vada oltre gli steccati culturali. I movimenti per i diritti umani e gli aiuti umanitari all’estero non hanno posto in essere quella politica, né probabilmente lo faranno; ma è possibile che si inneschi il meccanismo contrario, ossia che una ribellione in permetta di concretizzare quegli impegni e quei contatti internazionali che sono sfuggiti alla sinistra per tutto il Ventesimo secolo. Jürgen Habermas ha scritto in modo ispirato dell’“abietto spettacolo della società capitalistica mondiale frammentata lungo le linee nazionali”. Ma è nei nostri stessi frammenti, nei nostri stessi stati-nazione, che dobbiamo iniziare. “L’Internazionalismo è ancora un meta lontana; possiamo solo sperare che ogni ribellione locale, cozzando contro i vincoli dell’economia globale, rappresenti un passo avanti verso la mobilitazione internazionale di cui abbiamo bisogno” Questo, a ogni modo, è ciò che credo: che se recupereremo la cittadinanza a casa nostra, scopriremo che il mondo non è tanto distante.
(Traduzione di Enrico Del Sero)
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