Da Reset-Dialogues on Civilizations
Il motto ufficiale degli Stati Uniti, inciso ormai su tutte le monete americane, recita “In God we trust”. Sulle casse di numerosi negozi delle periferie e delle grandi metropoli statunitensi, molti hanno aggiunto: “All others pay cash”. Quel dio, nelle sue tre varianti o identità, è dominante nella Gerusalemme da sempre contesa, ma sono ben pochi coloro che si fidano di lui o pensano a lui come aiuto per risolvere un conflitto territoriale sempre più trascinato o lanciato verso motivazioni religiose. Gli scontri del 13 settembre (vigilia di Rosh HaShona, il capodanno ebraico) sulla spianata delle moschee e quelli che si sono ripetuti nei giorni successivi sono indicazione di un crescente malessere e di opposte strategie che poco hanno di realmente religioso.
Quando tra qualche settimana il presidente americano incontrerà il premier israeliano non sarà soltanto per parlare delle misure di sicurezza (fornitura di armi sofisticate e altro) necessarie per fargli digerire l’accordo sul nucleare iraniano.
Gerusalemme è una polveriera pronta a esplodere con conseguenze imprevedibili in una regione già devastata. Chi, nei giorni scorsi, ha ammesso che Iraq e Siria (e forse anche la Libia) potrebbero non sopravvivere come stati, sa bene che quasi tutti i confini dei paesi nati dal colonialismo europeo rischiano di cadere. E di venir ridisegnati con la forza attraverso trasferimenti di popolazione, grandi fughe e migrazioni (come già sta avvenendo) e nuove alleanze strategiche.
La spianata che ospita la moschea di al-Aksa e quella di Omar è il luogo su cui sorgeva il Tempio degli ebrei. In quasi tremila anni di guerre, conquiste e riconquiste, ha cambiato spesso proprietari e gestori. I romani vi piantarono un tempio pagano; i cristiani di Bisanzio l’abbandonarono trasformandolo in un letamaio; con la conquista islamica divenne nuovamente centrale alla religione. Al-Aksa con i crociati fu chiesa fino alla riconquista da parte musulmana. Tutti cambiamenti radicali e tutti in diretta concorrenza con la millenaria preghiera ebraica: “L’anno prossimo a Gerusalemme”. Dopo la loro cacciata, sognavano di tornare. E di poter pregare dove sorgeva il tempio distrutto. Forse di poterlo ricostruire.
La spianata non sorge sul colle più alto di questa città a 700 metri sul livello del mare ma fu quello che i suoi primi abitanti (ai quali fu strappata dagli ebrei) scelsero per potersi arroccare. Quando nel giugno 1967 Moshe Dayan, il famoso generale con la benda su un occhio, entrò nella città vecchia e si fece fotografare davanti al Muro del pianto (la grande parete davanti alla quale gli ebrei pregano) era felice di aver appagato il sogno del suo popolo. Probabilmente era consapevole anche della sfida rappresentata dalla nuova conquista.
C’è chi sostiene che i disordini, le proteste palestinesi, nascono dall’incapacità di ebrei e musulmani di convivere sulla spianata. La realtà, se guardiamo alla millenaria storia del luogo e gli eventi degli ultimi sessant’anni, è diversa. È la strada, ossia la rabbia di un popolo cresciuto sotto occupazione, a portare in alto sulla spianata la protesta. Hamas e altri gruppi islamici radicali hanno saputo sfruttare la situazione per fare proseliti e indebolire chi, nella leadership e nel popolo palestinese, aveva sempre evitato di trasformare un conflitto generato dalla conquista o la spartizione di un territorio in una guerra di religione. Quell’Isis che parla di grande Califfato islamico non è ancora approdato in Palestina. Nei paesi limitrofi sta strumentalizzando l’Islam per disegni che ad un’analisi attenta appaiono più territoriali e settari che religiosi. Gli estremisti ebrei israeliani che insistono per modificare lo Status Quo a Gerusalemme in qualche modo stanno compiendo la medesima operazione.
Nel 1967, dopo la conquista della parte orientale della città (compresi i luoghi santi), Israele raggiunse un accordo con la Giordania (che ha ancora oggi la tutela dei luoghi santi islamici). La spianata sarebbe stata accessibile a tutti, compresi gli ebrei – ma soltanto ai musulmani come luogo di preghiera. I dirigenti israeliani volevano gestire la situazione ma non risolverla. Quella scelta di fondo, un compromesso fragile, ci porta al momento attuale in cui Israele ha il governo più a destra della sua storia. La spinta dei coloni più estremisti (persino Netanyahu ha dovuto parlare di terrorismo ebraico nel definire alcune loro azioni) marcia in parallelo con il nazionalismo religioso di chi lavora per un cambiamento radicale dello Status Quo sulla spianata.
“La cosa migliore sarebbe se gli arabi di qui andassero altrove. Gli arabi hanno già ventitré nazioni dove ospitarli” – dice un rabbino canadese di una delle scuole ebraiche più moderne e apparentemente liberali. È un sentimento radicato in una parte considerevole della popolazione israeliana e sicuramente è specchiato nel sogno degli arabi di vedere sparire gli ebrei da questa terra. Un’esplosione di violenza sulla spianata con l’uccisione di ebrei potrebbe avere, ha ammesso Netanyahu, riflessi tragici anche fuori da Israele.
La strumentalizzazione della religione è insita in buona parte delle azioni e dei commenti che emergono dalla difficile convivenza di arabi ed ebrei. Mentre Netanyahu studia misure più drastiche, il portavoce del presidente palestinese ha detto che “gli attacchi e le provocazioni quotidiane a Gerusalemme e il continuo disprezzo mostrato da Israele verso i sentimenti religiosi dei palestinesi e degli arabi avranno conseguenze funeste”. “Saranno adottate misure adeguate e sarà fatto ricorso a decisioni importanti”, ha aggiunto facendo appello a una “mobilitazione araba, islamica e internazionale contro questa guerra religiosa imposta da Israele, che trascinerà la regione in conflitti senza fine”.
Yonathan Mizrachi è un archeologo che milita in Emek Shaveh, organizzazione che si occupa del ruolo spesso perverso dell’archeologia nel conflitto. Non ha dubbi sulla direzione nella quale la situazione sta degenerando. “Quando il pubblico dei fedeli israeliani vede come il paese sta rafforzando la sua presa su Gerusalemme Est (la parte araba della città) insiste anche per un cambiamento dello Status Quo nei luoghi santi”. Il sogno di milioni di ebrei di avvicinarsi al Tempio, aggiunge, “non potrà avverarsi con una modifica dello Status Quo ma soltanto attraverso una soluzione politica del conflitto”.
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