Da Reset-Dialogues on Civilizations
Quante operazioni militari ha conosciuto Gaza negli ultimi dieci anni, da quando Israele nel 2005 si ritirò unilateralmente, sembrando voler inaugurare una nuova e positiva stagione di autonomia e autogoverno per la Striscia?
Non c’è stato un anno intero in cui non vi siano stati attacchi aerei, ma le principali operazioni sono state : l’Operazione “Pioggia estiva”, seguita alla cattura del soldato Gilad Shalit nel 2006; l’Operazione “Caldo Inverno” nel marzo del 2008; la più tristemente celebre “Piombo Fuso”, condotta per tre settimane a cavallo tra dicembre 2008 e gennaio 2009; l’Operazione “Pilastro di difesa” condotta per 8 giorni dal cielo nel novembre del 2012 e, infine, l’ultima, “Barriera protettiva”, avviata l’8 luglio scorso. Tutte queste operazioni – o la maggior parte di esse – sono state approntate, così hanno argomentato i governi, in risposta a tiri di razzi provenienti dalla Striscia di Gaza o all’intercettazione di carichi d’armi diretti al Governo di Hamas o ad altre organizzazioni paramilitari della Striscia (soprattutto la Jihad Islamica).
Tra i motivi della nuova escalation di violenza – umiliare Hamas, arbitrariamente considerato il responsabile del rapimento e dell’uccisione dei tre coloni israeliani – ha in realtà mascherato il vero obiettivo del Governo israeliano: infliggere un severo colpo al governo di unità nazionale palestinese, a cui Israele si è opposto fin dal primo momento. Tuttavia, il nuovo conflitto rivela anche l’esistenza di un “problema Gaza” che non è stato affatto risolto dal “disimpegno” di Sharon, all’epoca annunciato come una mossa epocale che avrebbe sollevato Israele dalle sue responsabilità per il milione e ottocentomila persone che vivono nella Striscia, e che ha evidenziato come Israele, Fatah e Hamas non abbiano mai trovato un modo di convivere al di fuori dell’hudna (una tregua limitata nel tempo, sancita dal diritto islamico).
Se si paragonano le due maggiori precedenti operazioni , “Piombo Fuso” e “Pilastro di difesa”, alla nuova azione militare appena cominciata, si notano piccole differenze nelle modalità operative – questa volta le ostilità sono state aperte da Hamas, mentre nelle due precedenti edizioni Israele aveva giocato d’anticipo –, ma tutte le campagne sono iniziate con un bombardamento aereo massiccio seguito o meno da un’invasione di terra con obiettivi e tempi limitati. La scelta di ordinare o meno un’invasione di terra è spesso difficile per il governo israeliano perché comporta automaticamente un aumento esponenziale dei rischi corsi da Tsahal e delle vittime dal lato israeliano, tuttavia durante l’operazione “Piombo Fuso” essa fu ritenuta indispensabile per arrecare un colpo letale all’arsenale di missili e alla struttura logistica di Hamas. Non è improbabile che sia questo lo scenario che si sta ripetendo nell’operazione attualmente in corso, in primis perché una decisa invasione di terra era l’opzione auspicata da ampi segmenti del Governo, come i partiti ha-Bayit ha-Yehudi (la casa ebraica) di Naftali Bennet e Israel Beitenu di Avigdor Lieberman, che ha appena annunciato di volersi separare dal gruppo congiunto formato col Likud alle scorse elezioni (2013) proprio in ragione di una differenza sostanziale di vedute col Primo ministro sulla gestione dei rapporti con Hamas e la risposta al terrorismo.
Netanyahu, dunque, si confronta con molti problemi interni: innanzitutto, al contrario di quanto verificatosi nei conflitti precedenti, la scelta di ordinare o meno un’operazione militare sembra aver spaccato il Governo piuttosto che riunirlo; in secondo luogo, il Likud, ovvero il partito a cui appartiene l’attuale Primo ministro, vedrebbe assottigliarsi la propria maggioranza, dopo la fuoriuscita di Israel Beitenu (dal partito, ma non dalla coalizione); infine, un’ala del partito del Primo ministro si starebbe staccando per formare un “partito del sud” (ha-Dromim), perché scontenta della gestione della crisi e dell’abbandono delle località del Sud a facile preda del lancio di missili. Una crisi che, come preannuncia Ha’aretz, potrebbe addirittura far cadere il governo al cessare delle ostilità.
Nel conflitto attualmente in corso, la risposta del Governo israeliano appare standard e priva di una strategia di lungo termine per Gaza, ma orientata unicamente ad arginare il problema del lancio dei missili e a riaffermare un certo potere di deterrenza nel breve periodo. Tuttavia, una nuova maggioranza si profila all’interno di un sistema politico altrimenti fortemente parcellizzato come quello israeliano: la maggioranza che si è già coagulata intorno all’elezione del Presidente Rivlin. Si tratta di una compagine eterogenea composta di partiti di coloni, rappresentanti della tradizionale destra revisionista (l’ala destra del Likud e Israel Beitenu) e alcuni partiti religiosi (tra cui lo Shas), che desiderano annettere la Cisgiordania nella sua interezza e non disdegnano un ritorno di Tsahal nella Striscia di Gaza, sia per riportare l’ordine e la sicurezza, che per acquisire nuovi territori, essendosi opposti al ritiro nel 2005. In altre parole, una nuova maggioranza posta alla destra dell’attuale Premier, che vuole definitivamente superare gli assetti pattuiti ad Oslo.
Piccole differenze tattiche sono state introdotte anche da Hamas, attualmente in possesso di missili di fabbricazione iraniana con una gittata maggiore (pari a 160km) e dotati di maggiore precisione, quindi in grado di colpire obiettivi mirati (come la pompa di benzina di Ashdod), ma anche di minacciare con un minimo grado di plausibilità grandi centri abitati come Tel Aviv e Gerusalemme (protetti dalla cupola antimissilistica Iron Dome) o obiettivi strategici, come l’aeroporto Ben Gurion e l’impianto nucleare di Dimona.
Tuttavia, Hamas ha dimostrato maggiore duttilità strategica, più che incrementate capacità militari. Versando in una gravissima crisi dal punto di vista della rottura delle relazioni diplomatiche con Paesi importanti come la Siria e l’Egitto, diplomaticamente isolata e prossima alla bancarotta finanziaria (non riuscendo nemmeno a corrispondere gli stipendi dei suoi circa 60.000 impiegati pubblici a fronte di ingenti aiuti economici dell’emirato del Qatar), Hamas non si è comunque piegata. La mossa politica di cercare di istituire un governo di unità nazionale ha risposto all’esigenza tattica di guadagnare tempo e legittimità in un momento in cui essa era contestata simultaneamente dall’interno e dall’esterno: in più, il governo di unità nazionale ha permesso di sollevare alcune delle restrizioni alla mobilità tra la Striscia e la Cisgiordania, facilitando il rilancio delle strutture di Hamas nella West Bank, e in particolare nella tradizionale roccaforte di Hebron.
Notizie di intelligence vicine al Mossad riferiscono anche che Hamas avrebbe compensato il deterioramento delle sue relazioni politiche con i governi arabi incrementando i contatti con i gruppi jihadisti del Sinai egiziano e gruppi salafiti vicini ad al-Qaeda in Siria e in Libano, non disdegnando nemmeno i rapporti con i gruppi sciiti. In altre parole, riorganizzando la propria rete dopo i rovesci subiti sulla base di alleanze con i nuovi gruppi dell’”asse della resistenza”. La strategia di Hamas, nonostante il colpo inflitto da Israele con l’arresto di circa 300 dei suoi membri appena scarcerati nella zona di Hebron a seguito del rapimento dei tre giovani coloni il 12 giugno, sembra aver pagato in termini di popolarità, avendo Hamas ottenuto ottimi risultati alle elezioni studentesche nelle università palestinesi che si sono appena tenute sia in Cisgiordania che nella Striscia. Una vera e propria avvisaglia per il traballante governo di Abbas, che si tiene lontano dalle urne dal 2006 e si confronta già con la minaccia interna rappresentata dall’aspirazione alla leadership di Fatah di Mahmoud Dahlan.
L’elemento di maggiore novità, però, rispetto ai precedenti conflitti non è costituito né da Israele né da Hamas -i due protagonisti dello scontro-, ma dal contesto regionale. Allo stato attuale, non esistono Paesi terzi con caratteristiche di leadership e equidistanza tali da poter svolgere con successo il ruolo di mediatori, soprattutto con leverage nei confronti di Hamas. La Presidenza Obama, dopo un silenzio di alcuni giorni che esprime riluttanza, ha annunciato il 10 luglio che avrebbe potuto mediare tra le parti, senza però scendere a compromessi sul rifiuto di dialogare con Hamas. La Turchia di Erdogan ha condannato severamente i raid israeliani e minacciato di non approfondire il processo di riconciliazione in corso con Israele se essi fossero continuati, ma in realtà sembra già sufficientemente preoccupata dalle crisi a ridosso dei propri confini: quella dei rifugiati siriani, dell’emergenza dell’ISIS e di un possibile Stato curdo.
L’Egitto -tradizionale mediatore e direttamente coinvolto dalla crisi nella Striscia ad esso confinante tramite il valico di Rafah-, ha mantenuto una posizione ambigua di condanna dei raid senza, però, aprire la frontiera se non momentaneamente ed esclusivamente per emergenze umanitarie. Detestando Hamas in quanto fattore di instabilità regionale ai propri confini e costola locale dei Fratelli Musulmani, l’Egitto di al-Sisi potrebbe essere tentato di giocare un ruolo più energico solo qualora la crisi si approfondisse e i morti a Gaza aumentassero esponenzialmente: esso ha tutto l’interesse, infatti, a che la guerra cessi rapidamente senza creare un nuovo fenomeno di rifugiati che interpellerebbe direttamente l’Egitto e senza che le richieste di Hamas vengano soddisfatte. La sua principale preoccupazione, infatti, è che si venga a creare un vuoto politico all’interno della Striscia che l’Egitto o Israele dovrebbero colmare: meglio mantenere in piedi uno stato-cuscinetto votato alla miseria, ma tenuto sotto controllo da entrambi i Paesi.
Infine, i Paesi del Golfo hanno dimostrato di essere poco interessati a finanziare la riconciliazione palestinese e a mediare a nome dei Palestinesi presso gli Stati Uniti, mentre l’Unione Europea ha dimostrato scarsa incisività, richiamando tutti gli attori regionali al contenimento e condannando il lancio di razzi, senza, però, evitare che le Cancellerie dei suoi vari Stati membri si esprimessero in ordine sparso sulla crisi in corso, con Gran Bretagna, Germania e Francia fortemente sbilanciate a favore di Israele.
Quali, dunque, i possibili scenari di evoluzione di questa guerra? Una prima opzione possibile potrebbe essere quella di una “vittoria” di Israele, ottenuta attraverso un’operazione militare breve che riesca ad infliggere un colpo letale alla struttura militare di Hamas tale da ripristinare l’isolamento e perpetrare la debolezza della Striscia per i prossimi cinque-sette anni e permettere a Israele (con la complicità e l’interesse dell’Egitto) di mantenere uno status quo favorevole. Una seconda opzione potrebbe essere una guerra breve ma che faccia molti morti sul terreno tra i Palestinesi, ostracizzando la comunità internazionale e rafforzando Hamas all’interno ed all’esterno della Striscia, conferendo all’organizzazione maggiori poteri negoziali nel rapporto con l’ANP. Questa seconda opzione spingerebbe quasi sicuramente Hamas a puntare sul governo di unità nazionale con atteggiamento compromissorio fino alle prossime elezioni, nelle quali potrebbe contare su larghi margini di vittoria, data la disaffezione generale per l’ANP. Infine, una terza opzione è che questa guerra non impatti sostanzialmente in nessun modo sugli scenari a medio termine, ma rappresenti solo un braccio-di-ferro puerile tra Hamas e Israele, entrambi alla ricerca di maggiori consensi e popolarità interni. In quest’ultimo caso, le 120 morti palestinesi totalizzate fino ad oggi (12 luglio) sarebbero le ennesime vittime innocenti di una prova di forza di entrambi i governi tacitamente concordi nel mantenere inalterata la situazione di blocco e miseria vigente nella Striscia.
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