Calano i consensi per Hamas a Gaza:
il Movimento islamico alla prova

L’operazione israeliana “Spada di ferro”, meglio conosciuta come la guerra a Gaza, è entrata nel suo undicesimo mese, con oltre 40mila palestinesi e 1.600 Israeliani morti, un milione e mezzo di sfollati interni e 101 ostaggi ancora trattenuti nella Striscia ormai ridotta a un cumulo di macerie, mentre i negoziati internazionali sul cessate il fuoco si trascinano a vuoto.

Degli originali 27mila militanti di Hamas, Tsahal, l’esercito israeliano, afferma orgogliosamente di averne eliminati 17mila, tra cui tre dei quattro comandanti (Ismail Haniyeh, Mohammed Deif, Salal al-Aruri, a eccezione dell’attuale leader Yahya Sinwar) del Movimento di resistenza islamica Hamas (Harakat al-Muqawama al-Islamiyya), responsabile dell’attacco del 7 ottobre. Gli obiettivi di guerra del Governo israeliano risultano, però, ancora oscuri: non è chiaro se con la formula della “vittoria totale” Netanyahu intenda fermarsi solo quando Sinwar sarà stato ucciso, per assicurare una fine simbolica alla guerra, o perseverare in uno stato di conflitto a bassa intensità con il pretesto di eliminare tutti i miliziani di Hamas (ne rimarrebbero alcune migliaia) e la ricognizione di tutti i tunnel, rendendo nel frattempo la Striscia invivibile e costringendo la sua popolazione all’emigrazione. Nel frattempo, nonostante gli stessi generali israeliani affermino ufficialmente che l’ala militare di Hamas sia stata decapitata, la guerra prosegue con il suo tributo quotidiano di morti civili palestinesi. Solo chi può permetterselo fugge nei Paesi limitrofi, con alcune fonti che riportano circa 100mila gazawi – che da profughi temporanei potrebbero diventare rifugiati permanenti – abbienti (la “tassa” informale di uscita si aggira sui 10mila euro, secondo Ha’aretz) fuoriusciti attraverso il valico di Rafah verso l’Egitto, e la netta maggioranza della popolazione trattenuta nella Striscia, più che dal patriottismo di guerra, dalla necessità.

Dopo dieci mesi dal 7 ottobre, si è raggiunto un nuovo punto basso nella fiducia tra arabi ed ebrei e nella soluzione a due Stati, che si assesta intorno al 32 per cento rispetto al 53 per cento del 2020. Tuttavia, a dispetto delle durissime condizioni di vita prevalenti nella Striscia, Hamas continuerebbe a contare su un valido sostegno politico. Un’anomalia evidenziata a più riprese dai media israeliani, che si interrogano su come interpretare tale saldo supporto della popolazione civile.

Analizzando i pochi dati certi sull’opinione pubblica di provenienza dalla Striscia, è possibile tracciare una mappa del consenso di Hamas tra l’agosto 2023 e il luglio 2024, ovvero durante il corso di questo anno critico di guerra. È ormai noto che prima dell’attacco del 7 ottobre, la leadership politica islamista avesse perso molto supporto, continuando tuttavia a prevalere nelle preferenze popolari sul suo rivale, il partito nazionalista al-Fatah di Mahmoud Abbas, a causa dell’inerzia e della dilagante corruzione di quest’ultimo, a guida dell’Autorità Nazionale Palestinese. Nell’ultimo sondaggio pre-guerra (dati PCPSR luglio 2023), infatti, il 50 per cento dell’opinione pubblica a Gaza si esprimeva a favore di una “tregua permanente” con Israele, il riavvio di negoziati di unità nazionale tra le fazioni palestinesi e il rilancio dell’OLP. Tali preferenze si sommavano a una serie di pressanti richieste di politica interna alla Striscia, relative al sollevamento del blocco economico, l’erogazione di servizi pubblici essenziali come l’elettricità, il pagamento dei salari della pubblica amministrazione e la lotta alla disoccupazione di massa: tutti problemi per cui Hamas non sembrava avere alcuna ricetta. Questa diffusa consapevolezza aveva eroso la fiducia dell’opinione pubblica gazawi nei confronti delle capacità politiche e amministrative del Movimento islamico. Khalil Shikaki, direttore del PCPSR, evidenzia la continuità di tali priorità – sempre incentrare sul ritorno dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gaza (70 per cento) e sul superamento delle divisioni interne tra fazioni palestinesi (“inha al-inqisam”) – per l’opinione pubblica gazawi tra il 2014 e il 2023: richieste costantemente evase da Hamas, incapace di fornire risposte politiche adeguate tanto alla crisi economica che all’impasse diplomatico.

Tuttavia, dopo l’operazione “Diluvio di al-Aqsa”, la popolarità di Hamas è quadruplicata in Cisgiordania e cresciuta sorprendentemente a Gaza, beneficiando della ripresa della lotta armata (sondaggio PCPSR, dicembre 2023), considerata ormai da una maggioranza di Palestinesi come l’unico mezzo per combattere l’occupazione, costringere Israele a negoziati e porre nuovamente la “questione palestinese” al centro dell’attenzione internazionale, da cui sembrava essere stata definitivamente accantonata. Ad oggi, dopo dieci mesi di pesante guerra, circa il 67 per cento dei palestinesi valuta ancora positivamente il 7 ottobre (anche se con una flessione negativa di 14 punti percentuali a Gaza), senza giustificare necessariamente l’ampio uso della violenza, ma condividendone i fini politici. Questo dato presenta, però, forti discrepanze interne: con i gazawi (48 per cento) molto meno convinti dei loro connazionali della Cisgiordania (79 per cento) che Hamas sia in grado di vincere la guerra, negoziare un’uscita fuori dal conflitto e, soprattutto, rimanere al potere. La differenza tra i due tronconi di opinione pubblica è comprensibile se si considera l’esperienza diretta della guerra e della sua devastazione da parte dei primi rispetto alle posizioni più ideologiche assunte dai Palestinesi in Cisgiordania, che ne valutano solo l’impatto politico. Tuttavia, il problema strutturale è che Hamas, priva della sua ala militare, oltre allo scambio degli ostaggi residui e la resilienza dei suoi capi, non ha più carte da giocarsi con Israele.

Il quadro politico si è ulteriormente complicato dopo l’uccisione a Teheran di Ismail Haniyeh, rappresentante dell’ala pragmatica di Hamas, durante l’inaugurazione della nuova presidenza iraniana di Pezeshkian, e la successiva elezione di Yahya Sinwar, al potere dal 2015 come rappresentante della leadership interna, capo dell’ala militare delle Brigate al-Qassam e ideatore dell’attacco del 7 ottobre. La scelta di Sinwar decreterebbe la completa sfiducia di Hamas in negoziati per una soluzione permanente a favore di una tregua temporanea, poiché, mentre Haniyeh era impegnato sul doppio fronte delle negoziazioni di riconciliazione nazionale tra le 14 fazioni palestinesi scaturite dall’accordo di Beijing e del cessate il fuoco con Israele mediato da Qatar e Egitto, Sinwar esprime posizioni più massimaliste, che non credono né alla possibilità di una coesistenza con Israele né alla riconciliazione nazionale con al-Fatah. Il nuovo leader sembra esclusivamente interessato a negoziare un cessate il fuoco temporaneo senza delineare alcuno scenario per il dopoguerra, contenendo al minimo le relazioni con Egitto e Qatar. Al momento, il suo obiettivo primario sembra quello di estendere la lotta ai campi profughi palestinesi in Libano, come quello di Ain al-Hilweh, dove Hamas sta prendendo il sopravvento, e a quelli di Tulkarem e Jenin in Cisgiordania, che Hamas sta inondando di armi, per allargare i fronti caldi aperti nell’eventualità in cui Hezbollah alleggerisca la pressione su Israele. Non è un caso che proprio in questi giorni in Cisgiordania siano in corso continue operazioni militari dell’IDF, in alcuni casi attuate con tattiche simili – demolizione su larga scala di edifici e infrastrutture – a quelle adottate a Gaza. Come ha sostenuto Norman Finkelstein, noto politologo USA, su al-Jazeera, Sinwar intende adottare lo stesso “linguaggio della forza” che Israele applica ai palestinesi contro di loro.

A soffrire sotto le bombe e oggetto di continue incursioni militari israeliane rimane la popolazione civile di Gaza, ora anche oggetto di un’epidemia di poliomielite. È impossibile valutare l’estensione del dissenso, dato il divieto di ingresso ai giornalisti stranieri nella Striscia decretato da Israele. Tuttavia, un recente reportage realizzato dalla BBC ha rivelato che una certa esasperazione nei confronti di Hamas serpeggi nelle vie e nei pochi mercati superstiti, pubblicando le testimonianze di persone che imputano al Movimento islamico di aver servito a Israele su un piatto d’argento un pretesto per la distruzione totale della Striscia senza per altro approntare alcuna misura – rifugi antiaerei, riserve di cibo, medicine e carburante – per la difesa della popolazione civile. In particolare, il fatto che la leadership sopravviva all’interno di tunnel, il cui accesso è interdetto ai civili, appare ai più il simbolo eclatante del divario che separa la dirigenza dalla popolazione comune. Ancor più, la frustrazione monta contro la leadership esterna dell’organizzazione, che dai suoi rifugi dorati in Qatar e Turchia, si prenderebbe tutto il tempo necessario a negoziare un cessate il fuoco, completamente indifferente alle sofferenze dei civili. Infine, finché la guerra prosegue e la dirigenza di Hamas è confinata nei tunnel, nella Striscia prevale l’anarchia, con gang armate che prosperano sulla miseria generalizzata, assaltando convogli umanitari e saccheggiando case abbandonate, con la collaborazione attiva dell’IDF, che elimina miratamente polizia e forze dell’ordine superstiti.

Su questa frustrazione collettiva avrebbe dovuto capitalizzare l’ANP, fornendo a una popolazione palestinese disillusa e disperata, e per questo ormai a maggioranza favorevole alla lotta armata, un’alternativa politica percorribile. In assenza di consenso elettorale e di proposte, tuttavia, il Governo tecnico Mustafa, inaugurato senza molto clamore lo scorso marzo, non sembra capace di svolgere alcun ruolo propulsivo. Al contrario, le parole pronunciate dal Presidente Abbas all’ultimo vertice della Lega Araba a Manama, attribuendo ad Hamas l’intera responsabilità della separazione tra Gaza e Ramallah a tutto profitto di Israele, hanno ostracizzato l’opinione pubblica palestinese. Solo Marwan Barghouti, candidato presidenziale in vetta da anni in tutti i sondaggi elettorali, che stacca ancora di 22 punti percentuali (29 per cento versus 7 per cento) l’attuale leader di Hamas Sinwar, ma detenuto da oltre 22 anni nella prigione israeliana di Megiddo, potrebbe riempire quel vuoto, offrendo un progetto politico nazionale capace di compattare i due fronti rivali di Hamas e al-Fatah, come ha già dimostrato di saper fare nella stesura del Documento dei Prigionieri (2016). Tsahal avanza nei tunnel di Gaza e Hamas si trova in un vicolo cieco, di cui il suo ordine di sterminare tutti gli ostaggi prossimi alla liberazione è la prova più evidente. Tuttavia, un accordo con Israele su uno scambio ostaggi-prigionieri che possa liberare Marwan Barghouti, alla stregua dell’accordo Shalit del 2011, potrebbe essere l’unico asso importante che Sinwar potrebbe ancora giocarsi per riguadagnare il consenso popolare dopo tanti mesi di guerra.

 

 

Immagine di copertina: un bambino attacca un bastone con una bandiera di Hamas durante una manifestazione a Ramallah, in Cisgiordania, il 12 gennaio 2024. (Foto di Marco Longari / AFP)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *