Recensione a The Euro and the Battle of Ideas
Markus K. Brummermeier, Harold James, Lean-Pierre Landau
Princeton University Press, 2016
440 pagg
Idee e interessi.
“Non le idee, ma gli interessi materiali e morali governano direttamente i comportamenti degli uomini. Molto frequentemente però le ‘immagini del mondo’ che le ‘idee’ hanno prodotte hanno determinato, come se avessero azionato uno scambio, lungo quali binari la dinamica degli interessi avrebbe spinto le azioni degli uomini”. In questa famosa analogia di Max Weber, tutto dipende da dove ci si pone: se a valle dello scambio si parlerà di interessi, se a monte delle “immagini del mondo”, e quindi delle idee che le hanno prodotte.
Markus Brunnermeier, Harold James e Jean-Pierre Landau si pongono a monte: vogliono percorrere le vicende europee, da Maastricht a Brexit, come storia di concetti diversi su come funziona l’economia. Il metodo risulta efficace come strumento interpretativo, ma soprattutto consente di adottare un tono affatto diverso rispetto a quello polemico, a volte acrimonioso, prevalente nella ormai sterminata letteratura sul tema. In questo consiste l’originalità del libro. Non ci si aspetti quindi giudizi su persone, che siano Schaeuble o Tsipras, e neppure indicazioni di policy da adottare, che sia il ritardo delle riforme italiane o l’eccesso del surplus tedesco. Altro è l’interesse degli autori: mostrare come le tensioni che rischiano di spaccare l’Europa, siano riconducibili ad “immagini del mondo” profondamente diverse, quelle che si confrontano l’un l’altra dalle opposte rive del Reno.
L’idea di Monnet – che “l’Europa si costruirà attraverso le crisi e sarà la somma delle loro soluzioni” – ha prodotto una mental bubble nelle istituzioni comunitarie; può andar bene quando i problemi sono relativamente piccoli e possono essere risolti uno alla volta, non quando i problemi richiedono di essere affrontati come un unico grande viluppo. Gli autori ritengono che sia impossibile dare una risposta restando in chiave nazionale, ma che le due “immagini del mondo” abbiano bisogno l’una dell’altra per essere sostenibili. E’ quindi necessario che la coscienza di dover realizzare unioni, come si è formata nei campi bancario, dei mercati finanziari, della migrazione, dell’energia, si formi anche nel campo delle idee economiche. Un’unione di “immagini del mondo” che crei uno spazio politico europeo, in cui rappresentare gli interessi generali degli europei.
Due “immagini del mondo”.
“I Francesi e i Tedeschi sono all’estremità di una catena morale – citano gli autori da De l’Allemagne di Mme de Stael – perché i primi considerano i fatti esterni come motore di tutte le idee, e i secondi pensano che le idee producano tutte le impressioni. I due Paesi sono fondamentalmente d’accordo nelle relazioni sociali, ma nulla è più opposto dei loro rispettivi sistemi letterari e filosofici”. Sorprendenti contrasti, se si pensa alla vicinanza geografica e alle comunanze storiche: federalismo in Germania, potere dello stato centrale in Francia; autonomia della Bundesbank contro banca centrale soggetta al potere politico; Mittelstand contro national champions; Soziale Marktwirtschaft e Mitbestimmung contro Force Ouvrière.
Ancor più sorprendente che non sia sempre stato così, ma anzi che questo sia il risultato di un rovesciamento, prodotto dalla guerra, nella cultura politica ed economica di entrambi i Paesi. Fino alla metà del secolo scorso, la Francia era liberista e la Germania statista. La Francia era quella di Bastiat e di Say, quella di Pierre Nicole contro il mercantilismo di Colbert, dei liberali contro gli abusi inflazionisti di John Law e gli assegnati della Rivoluzione. All’epoca in Germania si parlava di Staatswissenshaft, e lo “smithsianesimo” veniva bollato come manchesterismo. Nel 1930 a François Perroux la Francia appariva basata sui concetti di regole e contratti, la Germania su un senso feudale di buona fede: gli attuali stereotipi a parti rovesciate. E’ la catastrofe nazista a cambiare tutto su entrambe le sponde del Reno: in Germania si prende coscienza di come il ruolo assegnato allo Stato abbia favorito l’ascesa del nazismo, in Francia di come il liberismo tradizionale e l’austerità fiscale abbiano impedito di reagire alla crisi del 1930.
Dopo la guerra in Francia si affermerà la pianificazione sistematica, in Germania il rifiuto delle arbitrarietà dello Stato. La Francia sarà quindi quella del Plan Monnet del 1946, del Rapport Nora Minc del 1978, degli impianti nucleari, dei Caravelle e del Concorde, del Minitel, della denuncia dell’ ”ultraliberalismo angolsassone” (Jacques Chirac), di Jean-Paul Fitoussi (insieme ai non francesi Jospeh Stiglitz e Amartya Sen) e, per finire, di Thomas Piketty. La Germania sarà quella della scuola di Friburgo, dell’ordoliberalismo di Wilhelm Roepke e Walter Eucken, basato sulla responsabilità di tutti i partecipanti al sistema, attenti al rischio di azzardo morale fino al punto di diffidare del principio di responsabilità limitata per le società. Una visione economica, quella affermatasi in Germania, fondata sul principio che regole legali e morali sono condizione per il funzionamento del mercato; enfasi su responsabilità; diffidenza verso il concetto di prestatore di ultima istanza; controllo severo del tetto al deficit; crescita come risultato di riforme strutturali e non di espansione monetaria; virtù presente ricompensata da vantaggi futuri.
Le crisi finanziarie
Sono le crisi finanziarie a rendere le divergenze particolarmente marcate, sulle cause che le producono e sui mezzi con cui curarle. I tedeschi temono che debiti eccessivi possano indurre a finanziarli via inflazione, e contano sull’indipendenza della Banca centrale e sulla no bailout clause, come garanzie ultime di un sistema in cui sono i tassi di interesse a indicare il rischio di default e il Patto di Stabilità e Crescita (SGP) il mezzo per evitarlo. I francesi vedono piuttosto i costi di un sistema di regole rigide. I tedeschi sono preoccupati di evitare le crisi future, i francesi di gestire le crisi presenti. Regolare ex ante o intervenire ex post? C’è incoerenza temporale tra le promesse fatte dai governi in tempi tranquilli e i loro comportamenti in tempi di crisi: in assenza di regole che li vincolino, come Ulisse all’albero maestro, c’è il rischio che i governi si lascino sedurre dalle sirene della monetizzazione del debito, della svalutazione, e perfino del default. Che impegno può prendere un governo se sovrano è per definizione chi fa (e cambia) le leggi? L’indipendenza della politica monetaria è necessaria, ma in tempo di crisi le autorità monetarie e fiscali devono lavorare insieme. Lo si constaterà nel momento di massima crisi dell’euro: senza l’implicito supporto di Berlino la famosa frase di Draghi a Londra non sarebbe riuscita a risolverla.
La crisi finanziaria è anche all’origine dei movimenti tellurici, gli spostamenti di potere che rende più evidente il contrasto tra queste “immagini del mondo”. Il primo, nel gennaio 2010, sposta potere da Bruxelles alle capitali degli Stati membri. Il secondo, a marzo, lo sposta dalle capitali a Berlino e Parigi, e infine, a Ottobre, a Berlino. Quando in Grecia, dopo le elezioni del 2009, scoppia la crisi, si apre un dilemma: o si rinnega la no bail out clause, o si accetta un intervento esterno. Il Fondo Monetario Internazionale ha i mezzi e l’esperienza per situazioni del genere. Contrari al suo coinvolgimento sono Parigi, per l’inimicizia tra Sarkozy e Dominique Strauss Kahn, Bruxelles e la BCE, per motivi istituzionali; favorevole la Germania, che vede nel FMI chi può far la parte del poliziotto cattivo: è chiaramente suo l’imprinting a favore di una modalità intergovernativa. La Germania spinge per inserire la disciplina di bilancio in un quadro istituzionale, disposta per questo a trasferire un po’ di sovranità fiscale, Sarkozy è totalmente contrario a un controllo ex ante dei bilanci da parte di un’autorità europea. Il compromesso si trova a Deauville: la Germania rinuncia al controllo ex-ante, Sarkozy accetta il principio del PSI (private sector involvment). “Distruggerete l’euro” ammonisce Jean-Claude Trichet: per la prima volta viene messa in dubbio la sicurezza dei debiti sovrani. Succede che lo spread sul Bund, come già il cambio col marco negli anni ’80 e ’90, diventa il poliziotto dei governi. Merkel e Sarkozy avevano messo la Germania in posizione dominante. Ora l’asse che aveva retto gli equilibri in Europa diventa sbilanciato in favore della Germania.
Avendo così definito le idee, le “immagini del mondo” a confronto, i loro fondamenti culturali e la loro evoluzione storica, gli autori, negli otto capitoli e nelle quasi 200 pagine centrali del libro, rileggono i campi su cui queste idee si sono date battaglia, i compromessi in cui si sono ricomposte. E il recensore, credendo di essere riuscito a esporre le ragioni per cui il loro è un racconto diverso, nel tono e nell’analisi, da quello che finora si è perlopiù letto, si ritiene esentato dall’esporli, e si limita a dare sommario elenco dei temi che essi discutono.
Le contrapposizioni: responsabilità contro solidarietà, insolvenza contro illiquidità, austerità contro stimolo. Le “pietre dello scandalo”: gli interventi della BCE e la violazione della no-bailout clause, gli eurobond, l’impiego di EFSF ed ESM, il moltiplicatore keynesiano, i surplus commerciali; politica monetaria e politica fiscale, l’exit e il rischio di ridenominazione, la transfer union e il precedente dell’esperienza italiana nel Mezzogiorno.
La Banca Centrale Europea: un’altra “immagine del mondo”
Parlandosi di idee, di scambi e di binari, la mente va subito alla famosa frase di Mario Draghi alla Global Investment Conference del 26 Luglio 2012: è la dimostrazione della capacità della BCE di determinare il corso degli eventi.
Le banche centrali sono state le star della crisi, perché la politica monetaria può spostare le aspettative future degli asset, e quindi il loro valore attuale. La BCE ha fatto di più, ha ridisegnato il proprio profilo istituzionale. Aveva una sua propria “immagine del mondo”, diversa, e sovente in contrasto, con quella della Germania. Si è già detto di come fosse contraria prima al coinvolgimento del FMI, e preveggente poi sulle conseguenze del Private Sector Involvment di Deauville.
Ma furono soprattutto gli interventi non convenzionali della BCE, volti a garantire la trasmissione della politica monetaria e ad abbassare i tassi a lungo, a provocare un chiasmo tra BCE e Germania. Quando nel 2010, cinque anni prima del lancio del QE, la BCE decise di comperare debito sovrano, un membro del consiglio espresse il suo dissenso: fu la prima volta, su una decisione importante. Fu l’occasione anche di una divergenza di principio: per i tedeschi la sola loyalty dei membri del consiglio è verso il mandato della BCE, per i francesi verso il presidente della BCE e il consiglio.
“La BCE appare insieme un eroe e una vittima della crisi, un eroe da tragedia.” Come eroe prese iniziative, corse rischi, resistette a pressioni e infine salvò l’euro quando tutto sembrava perduto. La sua reputazione aumentò, la sua indipendenza fu preservata: ma pagò con tensioni interne, due dimissioni, pesanti attacchi dalla Germania. Il QE, per la BCE , era giustificato dal mandato della stabilità dei prezzi, non pensava alle sue politiche come strumenti con effetti sulle riforme, né che molte di queste avessero a che fare con la crisi. Invece la Germania era dell’idea che solo la crisi avrebbe potuto indurre paesi bloccati ad attuare riforme.
Mario Draghi ha parlato della necessità di completare l’Unione Europea, mosso dalla sensazione che la BCE si fosse troppo ampliata durante la crisi e che dovesse avere una controparte istituzionale in una Unione rafforzata. Che diventando troppo potente, la BCE fosse diventata anche più vulnerabile.
Il sovranismo: una guerra, ma non un’idea.
Oltre alla guerra delle idee tra Paesi, sull’euro se ne sta combattendo un’altra, del tutto diversa dalla polemica tra euroscettici ed eurofili che circola in Europa da sempre: quella tra sovranisti e comunitari, tra patrioti e protezionisti, tra chiusura e apertura. L’uscita dall’euro comporterebbe costi immani, paragonabili a quella di una guerra perduta: eppure quel proposito viene agitato come obbiettivo, raccoglie voti. Alle elezioni presidenziali francesi, le prime in Europa dopo lo shock della Brexit, ci ha lasciato con il fiato sospeso fino ai primi exit poll. Proprio perché tutt’altro che scontato, il risultato rende Emmanuel Macron straordinariamente forte in Europa: appare come l’unica novità dopo anni di sclerosi prima e di irrigidimenti poi. Tant’è che Angela Merkel, prima ancora di sapere il risultato del ballottaggio, ha annunciato di voler partire proprio dalla ricostituzione dell’equilibrio franco-tedesco perduto dopo Deauville per rilanciare l’Europa. Un vero e proprio programma elettorale: un gabinetto permanente franco-tedesco per concordare strategie sui grandi temi di politica estera e sicurezza; e in economia la possibilità di emettere bond sul mercato (e, aggiungiamo noi, di adottare in casa propria una politica fiscale espansiva). Entrambi, francesi e tedeschi, avrebbero tutto da guadagnare agganciando anche l’Italia: un’occasione, se non la sprecassimo impuntandoci a Bruxelles e sprecando in cassa, riducendo cose serie, come legge elettorale ed elezioni, a pedoni di giochetti politici. Ma soprattutto dimostrando, a casa nostra e fuori, di avere chiaro in testa che questa è, ancora, una guerra di idee; che non si può stare con con chi vuole rilanciare l’Europa, e strizzare l’occhio a chi vuole affossarla, i sovranisti conclamati e i Mélenchon di turno. Non è più il tempo, se mai lo è stato, di esibire sui tavoli europei la propria debolezza come fosse una forza, e di usare in casa leggi elettorali ed elezioni per modeste schermaglie politiche. Perché in Europa è in corso “una guerra di idee”, più insidiosa di tutte quelle che abbiamo visto negli ultimi vent’anni.
Articolo pubblicato su Il Foglio il 7/5/2017