Da Reset-Dialogues on Civilizations
“Non mi hanno mai rispettato, sin dal giorno in cui sono diventato presidente con il 52% dei voti. Qualcuno chieda a questi signori quale sia la loro idea di democrazia ”.
Può permettersi di rispondere così alla stampa straniera che lo ha coperto di accuse e dubbi, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il giorno dopo le elezioni in Turchia che hanno decretato la sua vittoria e la sconfitta di tutti i suoi oppositori.
Il partito della giustizia e dello sviluppo Akp infatti, con il 49,4% delle preferenze ha ottenuto 316 dei 550 seggi del parlamento turco, un numero ben più alto della maggioranza assoluta (276), un bottino che consentirà al partito del presidente di formare da solo il governo, ma anche assai vicino alla maggioranza qualificata (330) necessaria per cambiare la costituzione e realizzare il tanto anelato disegno presidenzialista. Una crescita enorme, considerando che lo scorso 7 giugno il partito della giustizia e dello sviluppo con il 40,8% aveva perso tutto, conquistando appena 258 seggi, il minimo della sua breve storia, iniziata nel 2001.
I repubblicani del Chp, con il 25,38% hanno avuto un lievissimo incremento rispetto alle elezioni di giugno e 134 seggi, 3 in più rispetto a 5 mesi fa, confermandosi principale partito di opposizione, primo partito in appena 6 delle 81 provincie della Turchia, tutte situate sulla costa del Mar Egeo, rivelandosi per l’ennesima volta carenza di programmi e leadership.
Amarissimo risveglio per i nazionalisti del Mhp, che dal 16,2% di giugno sono calati all’11,9%, i lupi grigi quasi estinti in Parlamento, da 80 a 41. Il segretario Devlet Bahceli ha rassegnato le dimissioni.
I filo curdi dell’Hdp, che a giugno avevano passato per la prima volta la soglia di sbarramento del 10%, ottenendo il 13% dei voti, sono scesi al 10,7, passando da 80 a 59 parlamentari. I voti ottenuti nel sud-est del Paese, a maggioranza curda, gli consentono comunque di guadagnare più seggi dei nazionalisti e diventare la terza forza in Parlamento.
Per quanto riguarda il collasso dei nazionalisti dell’Mhp, sembra evidente che ad averne beneficiato sia stato l’Akp, che ha guadagnato punti grazie alla bombe sganciate sui ribelli separatisti curdi del Pkk negli ultimi 4 mesi.
Più complesso capire il calo dei filocurdi. Se a giugno la sfida del partito guidato dal giovane Selattin Demirtas era il superamento della altissima “diga” di sbarramento del 10%, a distanza di 5 mesi ogni dubbio a riguardo è sparito, erano tutti convintissimi che la soglia sarebbe stata superata e i voti sarebbero aumentati. È andata così ma i sostenitori hanno tremato, poiché fino a quasi il 90% dello spoglio l’Hdp oscillava tra il 10,1 e il 10,2%. Questo non è sufficiente a giustificare la perdita di 1 milione di voti in 5 mesi, le cui cause sono molteplici. Le bombe esplose a Suruc lo scorso 20 luglio e ad Ankara il 10 ottobre uccidendo rispettivamente 33 e 102 attivisti vicini al partito, hanno spinto Demirtas ad annullare meeting e comizi. Una campagna elettorale sottotono che da molti è stata vista come sintomo di debolezza, specie nelle regioni curde, dove l’Hdp ha comunque perso i voti della fetta di popolazione più oltranzista. Allo stesso tempo i proclami di indipendenza del Kurdistan, gli attacchi del Pkk, le barricate costruite nelle zone sottoposte a coprifuoco e gli scontri avvenuti nella regione, hanno fatto perdere all’Hdp i voti di molti moderati delle regioni non curde che solo 5 mesi fa gli avevano dato fiducia.
Caos o stabilità, coalizione o partito unico al governo
A partire dalle elezioni dello scorso 7 giugno la Turchia ha vissuto uno dei capitoli più neri della propria storia. La ripresa degli scontri con i separatisti curdi del Pkk hanno causato più di 250 morti tra forze di sicurezza turche e civili, mentre i bombardamenti dell’aeronautica di Ankara avrebbero ucciso più di 2000 miliziani del Pkk. Molte provincie del sud est soggette a coprifuoco durissimi. La tensione è cresciuta anche al confine siriano, sia con la Russia, ma anche con l’Isis che i turchi hanno attaccato dopo aver raggiunto un accordo con gli Usa per far parte della coalizione anti califfato. A sconvolgere la Turchia sono stati però gli attentati di Suruc e di Ankara, quest’ultimo il più grave della storia del Paese, dei quali sono stati accusati cittadini turchi legati all’Isis. A questi fattori va sommato il collasso della lira turca, che rispetto al dollaro e all’euro ha fatto registrare i minimi storici.
“Istikrar” significa stabilità. Questa è stata la parola chiave della campagna elettorale dell’Akp. La ricetta contro i problemi degli ultimi 4 mesi. La stabilità è il prodotto che l’Akp ha venduto al Paese riuscendo nell’operazione di mettere l’elettorato di fronte a 2 alternative. Il partito unico al governo o la coalizione. Da un lato l’Akp, che dal 2012 al potere ha portato benessere, sviluppo economico e infrastrutturale, ma soprattutto stabilità. Dall’altro la coalizione, ovvero il ricordo di anni di crisi, parlamento bloccato, inazione, debolezza, ma soprattutto instabilità.
La Turchia che è andata a votare era reduce dagli anni del potere Akp, messo in stand by il 6 giugno, ma allo stesso tempo reduce dal sangue degli ultimi 4 mesi. Un periodo coinciso con le consultazioni per formare una coalizione, trascinatesi fino al fallimento, costringendo il Paese alle elezioni anticipate, elezioni in cui ai turchi è stato chiesto di scegliere tra una Turchia come quella degli anni dell’Akp o come quella degli ultimi 4 mesi in cui l’Akp non ha governato.
Erdogan e il premier Davutoglu hanno abbandonato la retorica islamico conservatrice, rispetto alla quale, a mio parere, in Europa si è sempre enfatizzato oltremisura, per puntare sul sempre vivo sentimento nazionalista e identitario dei turchi. È stata questa la mossa che ha portato alla grande vittoria di Erdogan. Da un lato la solita campagna elettorale faraonica e i media a favore hanno contribuito, ma con il paese al centro dello scacchiere geopolitico attuale, Erdogan ha messo in moto la narrativa di una Turchia nella quale ai turchi piace immedesimarsi. La Turchia che impone alla Merkel le proprie condizioni per il piano rifugiati. La Turchia che non esita a bombardare il Pkk, reo di voler dividere il Paese. La Turchia che a cadenza giornaliera sbatte in carcere decine di persone accusate di essere legate all’Isis. La Turchia che torna centrale nella Nato alleandosi con gli Usa. La Turchia che fa la voce grossa con la Russia per la violazione del proprio spazio aereo.
Erdogan, Putin e Ataturk
Erdogan ha azzeccato tutte le sue mosse, ma il presidente turco ha fatto anche altro. Ha usato la questione curda come mezzo d’accusa nei confronti dell’Hdp, ha chiuso televisioni e commissariato giornali,ha portato in tribunale e sbattuto in carcere giornalisti e scrittori, ha lasciato campo libero alla polizia durante le manifestazioni e i cortei. Tutti avvenimenti che dall’esterno hanno spinto molti a celebrare la fine dell’ascesa del presidente turco. La Turchia ha invece deciso che è lui l’uomo capace di risollevare le sorti del Paese. “Un presidente deve essere come un padre e un padre deve essere un po’ dittatore”. Questa frase riassume il sentimento del 50% dei turchi, quelli che lo hanno scelto. Da sempre perso nel rimpianto di Ataturk, reduce da decenni di oscillazioni tra colpi di stato e crisi economiche, il Paese sa che l’Akp è riuscito a dare alla politica turca una continuità sconosciuta. La necessità di uscire dall’incubo degli ultimi 4 mesi coincide con la ricerca di un padre che, anche usando il pugno di ferro, risolva i problemi. Un padre cui mancano 14 seggi in Parlamento per cambiare la costituzione e acquisire poteri assoluti, che gli consentano di diventare un altro Putin per i suoi oppositori, un altro Ataturk per i suoi sostenitori.
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