La dottrina l’aveva dettata piuttosto chiara, prima di imbarcarsi nel suo ‘tour della rinascita’ in Europa: “Dobbiamo ridurre il numero dei nemici e aumentare il numero degli amici”. Dopo un esilio di un anno e mezzo, cominciato con lo shock del fallito golpe e seguito dal contro-shock della repressione post-golpe, quando nessuno in Occidente aveva voglia di farsi ritrarre con lui, Recep Tayyip Erdoğan è tornato. Un’offensiva diplomatica preparata a lungo e messa a punto rimpiombando a piedi uniti nel cuore di quell’Europa che pubblicamente continua a dire di non volerlo nel suo club – o non com’è oggi, almeno. In due mesi, il faraonico corteo presidenziale – ieri a Roma si contavano una trentina tra auto blindate e minivan al seguito – ha fatto tappa ad Atene, Parigi e Roma. Nel cuore della vecchia Unione, insomma, Erdoğan non è più un ‘impresentabile’, come non pochi nelle cancelliere avevano preso a considerarlo. O a dire di considerarlo.
Del viaggio in Italia del ‘Sultano’, negli ambienti diplomatici si parlava da almeno un paio di mesi. Un lavoro di preparazione sottile, tra scadenze elettorali ed esigenze d’affari. Occorreva trovare l’occasione giusta, perché a Roma – come a Parigi, del resto – Erdoğan è per molte ragioni benvenuto. A fornirla è stato Papa Francesco, con il suo invito al presidente turco maturato durante la telefonata a dicembre per la crisi su Gerusalemme capitale, dove il capo della chiesa cattolica e il leader forse più rappresentativo del mondo musulmano, e che comunque oggi lo rappresenta come guida di turno dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, hanno trovato subito una sintonia contro l’iniziativa destabilizzante di Donald Trump. Così, lo stesso Erdoğan che pochi mesi fa distribuiva etichette di “nazisti” a mezza Europa e di traditori all’altra mezza, ha vestito nell’occasione i panni del pompiere, rompendo diversi tabù diplomatici: primo capo di stato turco a visitare il Vaticano da 59 anni, poche settimane dopo essere diventato il primo capo di stato turco a recarsi ad Atene, capitale ‘nemica’ per eccellenza, dal 1952. Quando lui, per dire, non era ancora nato. Segnali della volontà di una nuova stagione. E della necessità.
“L’Europa deve mantenere le promesse”, ha ribadito Erdoğan, ritualmente, dopo l’altrettanto rituale lamentazione sugli ostacoli preconcetti all’ingresso turco. La questione non è questa, non lo è più da un pezzo. Nella commedia, ognuno gioca la sua parte. Ma l’entrata di Ankara nell’Ue non è all’ordine del giorno. Probabilmente non lo sarà più, almeno finché Erdoğan sarà in sella: un alibi perfetto per entrambe le parti, che nel negoziato di facciata non pagano dazio, come invece in ogni vera trattativa. Nella campagna d’Europa di Erdoğan c’è invece altro: gli affari, perché l’Ue resta il primo partner commerciale, e le partite geopolitiche. Spesso le due cose insieme.
“I rapporti tra Turchia e Italia sono eccellenti”, ha assicurato ripetutamente il ‘Sultano’ prima di salire sull’aereo per Fiumicino. Ed è vero. Roma è il terzo partner commerciale in assoluto di Ankara, con un interscambio che lo scorso anno ha sfiorito i 20 miliardi di dollari, tornando sui massimi assoluti. E le potenzialità, il leader turco ne è sicuro, sono ancora maggiori. L’obiettivo per i prossimi 3 anni è fissato: nel 2020 dovranno farsi affari per 30 miliardi. Target ambizioso, com’è abitudine per Erdoğan. Ma al di là della scadenza, non irrealistico nelle cifre. Molto dipenderà certo da quale Turchia commercerà con l’Italia. Quella che con Erdoğan premier viaggiava a vele spiegate, arrivando ad attrarre gli investimenti di oltre mille imprese italiane? (Oggi se ne contano ufficialmente 1.400, anche se la cifra, secondo gli esperti, locali è largamente sovrastimata, per imprecisioni nei processi di registrazione e cancellazione delle aziende). Oppure sarà la Turchia piombata nel caos dopo il golpe, con la lira sempre più svalutata? O ancora quella che Erdoğan si sta riprendendo in mano a forza di arresti ed epurazioni dei nemici ‘gülenisti’, curdi e d’ogni tipo, spingendo persino le odiate agenzie di rating a concedergli una revisione al rialzo delle già nutrite previsioni di crescita (terza tra i Paesi emergenti per Fitch, con un Pil in aumento medio del 4,8% per i prossimi 5 anni)?
I rapporti economici tra i due Paesi sono comunque solidi, con radici storiche ben salde – Pirelli e Fiat sono in Turchia dagli anni ’60, la Ferrero ha comprato l’anno scorso un terzo delle nocciole prodotte da Ankara per quasi un miliardo di dollari e le grandi infrastrutture targate Italia negli ultimi anni sono molte e strategiche. Secondo gli esperti del settore, poi, c’è un significativo equilibrio di fondo (con la bilancia comunque a favore di Roma), dettato anche dalla complementarietà delle rispettive reti di piccole e medie imprese. Insomma, Italia e Turchia hanno davvero “relazioni eccellenti”, anche perché la politica non le ha mai tradite. Qualunque fosse il colore del governo – a Roma, naturalmente, ché ad Ankara non cambia da 15 anni – la posizione di amicizia verso la Turchia e di sostanziale favore verso una sua (ipotetica) adesione all’Ue non è mai cambiata. Forse, maligna qualcuno, anche per la certezza che il lavoro sporco dei veti l’avrebbero comunque fatto a Parigi o Berlino. Berlusconi o Prodi, Renzi o Gentiloni, la Turchia è sempre rimasta un partner. Con la diplomazia personale dell’ex Cavaliere, che già nel 2003 fece da testimone alle nozze del figlio Bilal, persino di più. “Un caro amico”, lo ha ricordato Erdoğan alla vigilia del suo arrivo a Roma, dove avrebbe dovuto incontrarlo lontano da annunci e protocollo, come si fa appunto con gli amici, anche se poi le agende non hanno coinciso. Nessuna sorpresa che l’abbia citato prima ancora di esprimere la sua pur “grandissima stima” per Gentiloni, che nell’ottobre 2016 andò a trovarlo ad Ankara da ministro degli Esteri per portare la solidarietà italiana dopo il golpe.
A Roma, Erdoğan ha parlato dei nuovi affari. E soprattutto di uno, il più ‘politico’: la partnership delle aziende della difesa turche Roketsan e Aselsan con il consorzio franco-italiano Eurosam (partecipato da Leonardo) in vista di un progetto di produzione e sviluppo di un sistema di difesa aerea a lungo raggio, già perfezionata un mese fa a Parigi con Emmanuel Macron. Nelle scorse settimane, la Turchia ha ufficialmente acquistato i missili S-400 dalla Russia, facendo allarmare non poco la Nato per l’impiego da parte di un Alleato – il secondo esercito dell’Alleanza, peraltro – di un sistema pensato per abbattere (se necessario) i caccia americani, e comunque non interdipendente con le sue batterie di difesa. L’accordo con Eurosam serve anche a riequilibrare le cose, permettendo a Erdogan di continuare a giocare su più tavoli, e scegliere poi quello vincente, se proprio dovessero costringerlo.
Il presunto “gelo” verso il ‘Sultano’ delle autorità italiane è insomma percepito più all’esterno, di forma. I no che si devono dire, la condanna degli arresti di giornalisti e oppositori e delle bombe destabilizzanti sui curdi in Siria. Niente di esiziale, come già per Macron, del resto. Lui, il ‘Sultano’, difficilmente sarà rimasto deluso dalla tappa italiana, dove le cose si sono fatte come voleva, tenendo pure la stampa alla larga. Dietro le quinte, hanno dominato gli affari. La cena all’Excelsior con il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, e i vertici dei grandi gruppi industriali a vocazione internazionale, ne è stato il suggello. Con il governo aveva già messo il timbro alla cooperazione in materia di Difesa, su cui – beninteso – tanti altri sarebbero pronti a fare la fila davanti al palazzo presidenziale di Ankara. Stretta di mano e auspicio di un buon lavoro insieme con Leonardo. E probabilmente anche complimenti per l’efficacia degli elicotteri d’attacco T-129 Atak, la versione dell’A-129 Mangusta prodotta su licenza italiana, nei bombardamenti di questi giorni sui curdi di Afrin. E poi, tutti gli altri settori strategici per gli investimenti in un mercato chiave per l’Italia: la finanza (Unicredit), l’agroalimentare (Barilla e Ferrero), l’energia (Eni), Pirelli e le grandi infrastrutture: Astaldi, Caltagirone, Fincantieri e, con più d’un occhio al “progetto folle” (Erdogan dixit) del mega-canale artificiale di Istanbul da sostituire al Bosforo, Salini Impregilo. Nella dottrina di Erdoğan, vero filo conduttore del suo ritorno in Europa: “Chi è nostro amico ci guadagna, chi è nostro nemico ci perde”.