Da Reset-Dialogues on Civilizations
A pochi giorni dalla conclusione del processo elettorale per il rinnovo del Parlamento e dell’Assemblea degli Esperti in Iran, l’interpretazione degli esiti è materia di controversia soprattutto all’estero: i media internazionali, con un effetto domino inarrestabile, celebrano il trionfo storico dei riformisti. Ma è davvero così – con conseguenze dal potenziale dirompente sull’intero sistema repubblicano islamico – oppure i desiderata occidentali stanno deformando la realtà? ResetDoC ne ha discusso con l’analista politico Pejman Abdolmohammadi, ricercatore in Middle Eastern Studies presso la London school of Economics and Political science e docente alla John Cabot University of Rome. Il Professor Abdolmohammadi sottolinea come 15 milioni di iraniani su 75 non siano andati a votare, rifiutandosi così di legittimare il sistema.
Professor Abdolmohammadi, si aspettava un risultato del genere? Inoltre, l’affluenza è stata davvero così significativa come riferito dalla stampa mondiale?
Certo l’affluenza è stata sì significativa, però ci tengo a sottolineare che per gli iraniani il 60% non è un dato eccezionale. Gli iraniani ci tengono a partecipare, desiderano influenzare l’arena politica per quanto è in loro potere. E poi, si è trattato di un voto importante, ma non determinante. Sarei cauto nel definirlo storico, come hanno fatto molti media occidentali.
Una lettura entusiastica delle elezioni come quella fornita dalla maggioranza degli organi di informazione è dunque non realistica?
Direi che è un’interpretazione molto “interessante”, ecco. Si è fatta una gran confusione fra pragmatisti e riformisti utilizzando categorie politiche improprie: quelli che si sono affermati al voto per il Majlis sono i pragmatisti dell’arena politica iraniana. Prendendo a prestito una categoria della vita politica italiana li chiamerei i centristi. Il presidente Hassan Rouhani, lo stesso Ali Akbar Hashemi Rafsanjani sono centristi. I riformisti, invece, come ad esempio l’ex presidente Mohammad Katami, hanno avuto un ruolo in queste elezioni, ma molto inferiore. Anche perché la selezione dei candidati effettuata in partenza è stata attenta.
In questa “confusione” imputata ai media occidentali osserva più ignoranza circa la politica iraniana oppure si tende a capovolgere l’immagine dell’Iran che abbiamo percepito in questi anni?
Un po’ tutti e due: sicuramente c’è poca conoscenza dei domestic affairs iraniani, delle alleanze, degli equilibri. Poi, però, c’è anche dell’altro: prima, i media italiani mostravano spesso le donne iraniane con il chador, ora mostrano giovani ragazze moderne. Eppure c’era tutto anche prima, non è cambiato niente. Ma indubbiamente, a seguito dell’accordo sul nucleare e dell’apertura economica avviata, i media riflettono il rasserenamento delle relazioni.
Si potrebbe dire che Rouhani ha fatto bene il proprio lavoro, allora…
Sì, è stato scelto dai Guardiani della rivoluzione proprio per fare uscire il Paese dall’isolamento politico ed economico. Eletto, ha interpretato il proprio ruolo in modo eccellente, pur continuando a godere dell’appoggio dell’establishment. I pasdaran e gli ayatollah gli hanno rinnovato il benestare per un altro biennio, poi si vedrà.
Quali sono le priorità dell’attuale fase politica iraniana? Penso al Presidente e all’elezione del Parlamento, elezione popolare, ma comunque in un certo modo ‘filtrata’ prima della competizione?
Per il prossimo biennio l’obiettivo è garantire l’afflusso degli investimenti stranieri e la crescita del turismo. In termini regionali, Rouhani cercherà di allentare le tensioni con i vicini del Golfo Persico, all’insegna del pragmatismo. Non è detto però che fra due anni Rouhani sia ancora nelle grazie dell’establishment.
E il dissenso politico verso il sistema come trova spazio in questo quadro?
Ecco l’elemento che dovrebbe fare notizia. Dormiente nella società iraniana, c’è un potenziale critico in crescita. Attenzione: 15 milioni di cittadini non sono andati a votare. Vuol dire che, in un Paese in cui c’è per tradizione un’alta partecipazione, 15 milioni hanno deciso di non legittimare la Repubblica islamica. Questo è l’unico strumento in loro possesso per esprimere una critica. E infatti per la prima volta la Guida suprema ha rivolto un appello al voto in questi termini: “votate per la nazione”. Non ha parlato di Repubblica islamica. C’è consapevolezza anche fra gli ayatollah quindi. I critici non sono organizzati in un unico partito o movimento, non hanno colori. Sono giovani, ma non solo. Ci sono anche coloro che hanno fatto la Rivoluzione e si sono pentiti. Prima o poi la Repubblica islamica dovrà fare i conti con loro.
Finora, il “nizam” (sistema) della Repubblica islamica è sempre riuscito ad adattarsi e a resistere a pressioni interne ed esterne. In che modo?
Quello iraniano è un sistema ibrido, diverso da tutti gli altri in Medio Oriente: non si tratta di autoritarismo puro, ma neanche di democrazia, visto che i Guardiani della Rivoluzione effettuano una selezione dei candidati prima di qualsiasi voto. L’Iran è una Repubblica, ma islamica: una realtà unica, nata 37 anni fa. Il sistema ibrido appunto ha in sé una notevole capacità di adattamento, cioè a seconda della domanda emergente dalla società, è in grado di irrigidirsi oppure di distendersi, sia negli affari interni sia nelle relazioni estere.
Qualche esempio?
L’elezione di un presidente più conservatore, come Mahmoud Ahmadinejad, quando i Guardiani hanno ritenuto utile per il Paese una figura dai toni nazionalisti aggressivi. Hassan Rouhani, invece, è funzionale a riprendere i rapporti con Stati Uniti e Unione europea. Nella sua campagna elettorale, inoltre, ha parlato del coinvolgimento crescente della donna nella vita sociale, interpretando il sentimento della componente secular della società civile. Non dimentichiamo che dopo 36 anni di Repubblica islamica, l’Iran ha maturato la società civile più laica del Medio oriente. Pensiamo al percorso inverso in Turchia, che aveva un’apparenza laica molto forte e vediamo ora come si è islamizzata la società. Il sistema ibrido iraniano è in grado di adattarsi ai cambiamenti. Non vedo, tuttavia, un’apertura ad ampio raggio con l’esterno, perché la Repubblica islamica non ha interesse a tessere un’alleanza di lungo termine con l’Occidente. Cina e Russia rimangono i partner privilegiati nonostante un leggero spostamento verso Ovest.
Allo stesso modo, nonostante un biennio di presidenza ‘centrista’, la repressione del dissenso politico interno è immutata…
Esatto. I diritti civili e umani continuano a essere violati esattamente come prima. La polizia etica esiste ancora. Non ci sono stati cambiamenti di rilievo. D’altronde, Rouhani stesso è parte del sistema e ne condivide le politiche regolative caratterizzanti.
Quale è stata la reazione della stampa iraniana di fronte ai risultati elettorali?
Se parliamo delle analisi ‘ufficiali’, i media che riflettono lo schieramento pragmatista e riformista hanno celebrato la vittoria, enfatizzandola. Quelli conservatori hanno cercato di giustificare la sconfitta, perché c’è stata eccome, con illustri ayatollah esclusi dagli Esperti. E l’Assemblea degli Esperti appena nominata, con tutta probabilità, eleggerà il successore di Ali Khamenei. Ci sono però anche i blog e gli organi stampati all’estero che a questo voto, appunto filtrato in partenza, non riconoscono un particolare ruolo in quanto emerge come i candidati accettati alla competizione siano già di per sé graditi all’establishment.
E adesso allora che cosa aspettarsi dalla variabile persiana?
Questo è solo l’inizio dell’inevitabile ritorno su scala regionale e allargata. Per 36 anni nel condominio mediorientale si sono dimenticati dell’esistenza dell’appartamento persiano. Questo ritorno è supportato dagli americani, certo. Ed è questo elemento che innervosisce enormemente il Regno saudita e la Turchia.
Riyadh, per la verità, sembra aver perso lucidità politica…
Sì, A Riyadh si sentono orfani dell’appoggio di Washington. Hanno cercato di marcare il proprio potere sul mercato petrolifero e stanno diventando sempre più aggressivi in Siria e Yemen. Sono sempre stati abituati a gestire la situazione con i soldi, ora non è più così. Kuwait, Emirati, Qatar sono nella medesima situazione. Gli americani sono ancora amici, ma lo sono anche di altri, altrettanto competitivi sul piano energetico.
Nel prossimo biennio prevede ancora più nuvole nere sul Medio Oriente?
Di recente, alla Conferenza Nato di Roma (dal 25 al 27 febbraio scorsi, il summit su Difesa e Sicurezza), ho avuto la possibilità di confrontarmi con esponenti di Paesi arabi: ho percepito una forte ostilità nei confronti dell’Iran, direi anche un indirizzo aggressivo. Quando Riyadh parla di intervento armato in Siria non scherza. D’altronde, Teheran ha fatto molto per irritare i paesi arabi: in Yemen, ad esempio. Lo ha fatto anche lo Shah nel 1971, sentendosi troppo forte e spaventando i vicini. Si rischia davvero, a mio parere, un guerra diretta, anche se non converrebbe ai persiani. Le ragioni sono troppe, energetiche, confessionali, geografiche e via dicendo. E di conservazione del proprio regime politico, per il quale sia Riyadh sia Teheran temono per la sopravvivenza.
Quali altri nervi scoperti nella regione?
Io temo la caduta di Giordania e Libano, Paesi a rischio. Nel frattempo, per quanto riguarda le guerre in atto, l’Iran non rinuncerà mai ad esercitare la propria influenza diplomatica su Siria e Iraq. C’è da dire che Rafsanjani è una figura molto rispettata dai sauditi e questo potrebbe giocare a favore di una distensione dei rapporti. In ogni caso, però, prima o poi, ci sarà una resa dei conti. Io credo nell’arco di un decennio.
Pejman Abdolmohammadi è Visiting Fellow presso il Middle East Centre della London school of Economics and Political science e docente alla John Cabot University of Rome
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