Da Reset-Dialogues on Civilizations
“I ringalluzziti servizi segreti egiziani martellano in modo crescente l’intera gamma delle opposizioni, dai riformatori secolari a qualsiasi tipo di islamista”. Così il settimanale edito a Londra The economist fotografa la repressione in corso nel Paese nordafricano, alle prese con i postumi di una seconda fatale ebbrezza rivoluzionaria. Lo slancio popolare che ha condotto, con il sostegno decisivo delle Forze armate, alla destituzione del presidente islamista Mohammed Morsi (3 luglio 2013, ndr), fa i conti ora con un brusco risveglio: la nuova compagine dirigenziale non tollera nessun genere di dissenso e pare non curarsi dei cosiddetti indici di gradimento, secondo The economist in flessione a macchia di leopardo su tutto il territorio. Soprattutto là dove miseria e mancanza di prospettive aumentano in maniera costante, nelle campagne e nelle aree desertiche lontane dalla capitale. E nella penisola del Sinai, penetrata da sigle jihadiste in guerra con il governo centrale.
I generali di oggi, guidati dal feldmaresciallo Abdel Fattah al-Sissi (la carica gli è stata attribuita lo scorso 27 gennaio dal presidente della Repubblica ad interim Adly Mansour), hanno tratto un insegnamento prezioso dal precipitare rovinoso del regime di Hosni Mubarak: non esitare in alcun modo nel reprimere i focolai di insurrezione. Nell’ottica di riprendere il pieno controllo delle istituzioni e del territorio, le stragi di sostenitori di Fratelli musulmani del luglio e dell’agosto del 2013, seguite da una campagna di arresti e violenze definita da Amnesty International “senza precedenti” per l’Egitto, seguono un preciso postulato: come spiegava una fonte militare europea nei giorni della massima violenza cairota, si tratta del “principio strategico della concentrazione delle forze”, preferibile a logoranti scontri di bassa intensità, che avrebbero potuto precipitare il Paese in un conflitto civile. La manovra a tenaglia non pare terminata e probabilmente continuerà finché gli islamisti, moderati e non, non saranno ricacciati nella clandestinità del passato. Oppure finché il gruppo di potere facente capo al Murshid (Guida suprema) Mohammed Badie non sarà rinnegato e il successore scenderà a patti con i militari, come già successo sotto Mubarak.
Questa prospettiva, però, non sembra bastare alle Forze armate egiziane: negli ultimi mesi, le manovre congiunte di forze di sicurezza, sistema giudiziario e dirigenza provvisoria si sono concentrate su intimidazione e sradicamento di qualsiasi voce libera, non solo confessionale. Sia che essa avanzasse dei dubbi sul nuovo testo costituzionale, sia che criticasse l’operato dei giudici, sia che ironizzasse sulla mitizzazione del generale al-Sissi, la reazione censoria è stata la medesima. Le voci contrarie alla nuova Carta costituzionale, approvata mediante Referendum popolare il 15 dicembre scorso, sono state zittite: membri del Movimento 6 aprile e attivisti di spicco come Ahmed Maher, Mohammed Adel e Ahmed Douma sono stati condannati a tre anni di reclusione per aver violato la nuova legge anti-manifestazioni, che obbliga i cittadini ad avere l’autorizzazione del ministero degli Interni prima di riunirsi pubblicamente.
Quanto alle voci critiche nei confronti dei giudici, all’inizio di gennaio Amr Hamzawy, politologo di fama internazionale ed esponente di spicco del partito Egitto della libertà, ha scoperto di essere indagato per un tweet datato del 5 giugno 2013: in quell’occasione, l’intellettuale liberale “ha insultato la magistratura” criticando una sentenza di condanna di tre ong egiziane (sostenute da fondi americani) pro-democrazia. Allora, una corte egiziana aveva disposto l’arresto di 43 dipendenti delle tre sigle, giudicandoli traditori al servizio di interessi contrari alla nazione. Inequivocabile l’opinione di Hamzawy, per il quale il verdetto era “politicizzato, privo di consistenza, frutto di una messinscena”. Come lui, centinaia di altri cittadini espressero simili commenti via Twitter o Facebook, ma la visibilità di cui gode Hamzawy lo ha esposto alle rappresaglie della Procura generale. Il suo caso è emblematico dell’attuale frangente politico. Avvocato, professore universitario, consulente del Carnegie Middle East Center di Beirut, Hamzawy ha partecipato alla prima rivoluzione anti-Mubarak e aderito alla petizione Tamarrod anti-Morsi senza mai smettere di denunciare i metodi fascisti dell’esercito. Critico nel 2011 nei confronti dell’allora direttorio guidato dal generale Hussein Tantawi così come nel 2013 verso il nuovo Consiglio supremo a guida al-Sissi, le sue critiche non avevano però neanche risparmiato il governo dei Fratelli Musulmani guidato da Mohamed Morsi. In un’intervista a Resetdoc nel maggio 2013 aveva accusato il governo della Fratellanza di utilizzare la religione come “forza demobilitante” che aveva la funzione di distrarre da una politica economica confusa e di stampo neoliberista criticabile sotto molteplici aspetti, ma soprattutto dai giri di vite che ogni giorno avvenivano intorno alle libertà civili e all’eguaglianza uomo donna. “Pago il prezzo di essere un vero liberale”, ha dichiarato Hamzawy poco tempo fa dalle colonne del quotidiano al-Masri al-youm.
Meno conosciuto al grande pubblico, ma attivo politicamente dal 2011, anche il professore dell’Università americana del Cairo Emad Shahine è finito in una lista di 35 personalità accusate di “cospirazione con il movimento palestinese Hamas per destabilizzare l’Egitto”: negli ultimi mesi ha messo in guardia l’opinione pubblica – con editoriali o interventi in tv – da nuove derive totalitarie.
Anche il satirista Bassem Youssef, protagonista della trasmissione al-Birnamig (il Programma) ha pagato, e probabilmente pagherà ancora, il prezzo per non aver aderito all’euforia generale pro-esercito: nessuno più di lui, cardiologo convertito alla comicità, ha osato ridicolizzare il nuovo uomo forte del Cairo, al-Sissi appunto, e la propaganda messa in atto dal suo entourage in vista delle elezioni presidenziali. All’inizio del novembre 2013, i telespettatori che attendevano l’ennesimo episodio di al-Birnamig, in onda sul canale privato Cbc, sono rimasti a bocca asciutta: l’emittente ha cancellato lo show perché non rispettoso delle linee editoriali concordate e offensivo per molti cittadini. “Spesso, per chi gestisce il potere non è necessario dare un ordine diretto – ha spiegato il satirista alla testata The observer – Può essere sufficiente creare un clima ostile a chiunque non la pensi come la massa”. Youssef aveva già sperimentato la diffidenza della magistratura sotto la presidenza Morsi eppure il suo programma non era mai stato sospeso: “Siamo scesi nelle strade il 30 giugno contro il fascismo religioso chiedendo la democrazia. E ora guarda che cosa ci sta succedendo”, è stata l’amara riflessione del comico, probabilmente condivisa da un numero crescente di concittadini. Bassem Youssef è ora in onda su Mbc Masr il venerdì.
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