Da Reset-Dialogues on Civilizations
All’inizio della settimana (24 e 25 novembre) si è tenuta la visita di Stato ufficiale del Presidente egiziano al-Sisi in Italia in occasione del Business Council, un grande incontro bilaterale dei due mondi imprenditoriali: prima tappa di un viaggio europeo che avrebbe portato il Presidente prima nella Città del Vaticano e successivamente in Francia. L’Egitto, alla disperata ricerca di investimenti esteri, vuole mandare un segnale di stabilità all’Europa, puntando sulle relazioni bilaterali con i Paesi con cui lo scambio commerciale è più intenso –l’Italia è il primo partner europeo- e le tensioni minori, soprattutto sulla delicata questione della repressione delle ONG straniere. Non a caso, né l’Italia e né la Francia hanno sollevato critiche durante la visita di stato del Presidente al-Sisi sulla controversa legge antiterrorismo appena approvata dal Gabinetto egiziano, secondo la quale per “entità terroristiche” si intendono non solo i gruppi che minacciano la sicurezza dello Stato o i suoi interessi, ma anche coloro che disturbano l’ordine o il trasporto pubblico o “impediscono il lavoro delle autorità pubbliche e giudiziarie” o “minacciano l’unità nazionale”: un’accezione decisamente molto estesa. Nemmeno una parola, infine, è stata spesa dai governi europei (e dal Vaticano) sulla legge precedente che deferiva tutti coloro che danneggiassero proprietà dello Stato alle corti militari, come avvenuto nel recente caso della protesta di cinque studenti all’Università al-Azhar lo scorso dicembre.
Lo scenario che al-Sisi ha lasciato in patria, inoltre, assomiglia sempre di più ad un bollettino di guerra. Domenica scorsa è stato ucciso l’ennesimo militare da un’esplosione mentre attraversava nella sua auto la città di el-Arish, nel nord del Sinai. All’uccisione del militare è seguita una retata militare che ha ucciso 10 militanti e ne ha arrestati altri 18: episodi come questi sono ormai la norma nelle due province (o governorati) in cui è divisa la penisola del Sinai e in cui recentemente il gruppo terroristico Ansar Beit al-Maqdis (letteralmente “I Campioni di Gerusalemme”)ha giurato fedeltà allo Stato Islamico. Solo un mese fa, il 24 ottobre, si è registrato l’attacco più violento: 31 militari uccisi dal gruppo in un attentato rivendicato soltanto il 15 novembre con un messaggio via twitter. Alcuni giorni dopo il messaggio è stato seguito da un video inquietante ispirato ad altri analoghi girati dai militanti dell’IS: un attentato suicida e poi l’uccisione in serie di soldati scampati all’esplosione. Infine, il vero messaggio a parole: “Si tratta solo dell’inizio… perché il Presidente egiziano al Sisi è un tiranno e un servo degli ebrei”. Se l’appellativo di “tiranno” intende rimarcare all’opinione pubblica egiziana il fatto che al-Sisi faccia parte di quel Consiglio Supremo delle Forze Armate egiziane che il 23 luglio del 2013 ha sovvertito il Presidente Mohammed Morsi attraverso un colpo di stato (per quanto sostenuto da imponenti manifestazioni di piazza), il secondo riferimento rimanda non solo a Gaza, ma anche al ruolo attivo svolto dall’Egitto nella cooperazione militare con Israele.
Tale cooperazione non si è incrinata a seguito del recente sanguinoso conflitto nella Striscia di Gaza, definito “Operazione Barriera Protettiva”, ma anzi, approfondita: Hamas rappresenta, infatti, un nemico anche per l’Egitto, non solo per la sua appartenenza all’odioso movimento dei Fratelli Musulmani (attualmente illegale in Egitto), ma anche e soprattutto per i traffici illegali che la chiusura della Striscia e la creazione di migliaia di tunnel hanno fatto fiorire nel nord del Sinai e dal lato egiziano della città di Rafah. Da Gaza, infatti, si infiltrano non solo merci, armi clandestine e droga, ma anche terroristi pericolosamente addestrati alla guerriglia e dotati di armi, come i lanciagranate anticarro e razzi a propulsione, in grado di abbattere, alcuni mesi fa, un elicottero militare. Generali come Sameh Beshadi hanno così dichiarato che i beduini non erano in possesso di tali armi e nemmeno del training necessario a compiere attacchi simili prima di entrare in contatto con i Palestinesi, il che ha automaticamente trasformato i Palestinesi di Gaza da oggetto di solidarietà panaraba a problema interno di sicurezza. In questo modo, quando il Governo egiziano ha dichiarato di posticipare a data da destinarsi i colloqui informali tra Israele e Hamas per la ricostruzione della Striscia (sospesi dallo scorso 2 novembre), il fatto è passato quasi inosservato di fronte a un’opinione pubblica compiacente.
Dichiarazioni sullo stesso tono rilasciate da parte di politici e militari alla stampa egiziana hanno fatto sì che si creasse un vasto consenso trasversale nel Paese –che non include, però, gli ex sostenitori di Morsi- a favore delle dure misure intraprese dall’esercito nella “bonifica” dell’area a ridosso della Striscia di Gaza. L’esercito sta difatti operando per creare una vasta “zona-cuscinetto”, profonda quasi un chilometro dal lato egiziano di Rafah, per rendere inoffensivi le decine di tunnel i cui accessi sono nascosti dalle abitazioni e protetti da una popolazione civile parzialmente “complice”. Il piano di riorganizzazione dell’area per ragioni di sicurezza prevede inoltre la demolizione di 1000 abitazioni e la costruzione di una barriera dotata di telecamere di sorveglianza e sensori capaci di cogliere qualsiasi movimento o traffico sospetto. Non si tratta di un progetto nuovo –era già stato tentato da Mubarak-, ma di un disegno che era sempre fallito per l’ostilità degli abitanti e la solidarietà dell’opinione pubblica egiziana, che invece ora appoggia integralmente l’operato del Governo. Non importa più a nessuno se il Governo Sisi ha promesso di compensare i cittadini danneggiati dall’operazione con solo 300 pounds egiziani (l’equivalente di 42 dollari) al mese per la durata di tre mesi, nemmeno sufficienti per un trasferimento di una famiglia nell’attigua el-Arish: gli abitanti del Sinai vengono sempre più percepiti come una “quinta colonna” sospetta, più che come vittime civili di un conflitto che non li ha visti protagonisti. Una lotta epica definita nelle parole del Presidente egiziano Sisi “una battaglia esistenziale” contro il terrorismo.
Sui giornali egiziani, infine, è scomparso completamente il collegamento tra i “fatti del Sinai”- ovvero i dati continuamente aggiornati del bollettino militare, sempre più riportato come una guerra al terrorismo- e la disarmante situazione socio-economica in cui versa la Penisola. Nei due governatorati il 45% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà (attestata a 1 dollaro al giorno) e piagata dalla malnutrizione in una regione abbandonata dallo Stato. I Governorati del Sinai contano insieme 400.000 persone, tra cui 250.000 Beduini e tra i 50.000 e i 70.0000 Palestinesi (non esistono cifre ufficiali complete): due dei gruppi più disprezzati dalla popolazione egiziana. I secondi non sono titolari di diritti, ma considerati profughi di terza o quarta generazione, mentre i primi sono popolazioni ex nomadi che non si identificano con la cultura e l’eredità faraonica, parzialmente analfabeti e considerati collusi con il nemico sionista per aver vissuto tra il 1967 e il 1982 del lavoro ebraico sotto l‘occupazione israeliana.
Tuttavia, nessuno si chiede quale sia il collegamento tra i vari progetti per la riqualificazione del Sinai e le infrastrutture annunciati e poi lasciati sulla carta dalle autorità egiziane e la rivolta dei beduini contro il governo centrale: cittadini di serie B che fino al 2007 non avevano nemmeno diritto di voto, che non partecipano alla leva e che non godono dei profitti dell’unica attività redditizia intrapresa nella loro regione, il turismo, che apporta un 1/3 del Pil del Paese. E’ normale che, in assenza di opportunità di provvedere alla propria sopravvivenza, alcuni gruppi di beduini si siano rivolti ai traffici illegali, tra cui il prospero commercio degli immigrati africani (eritrei, etiopi e sudanesi in primis) e delle prostitute oltre il confine israeliano. Una pratica che ha finito per pesare negativamente sulle relazioni israelo-egiziane, con Israele critico delle regole troppo permissive dell’Egitto in materia di migranti, scaturite nell’omicidio di 30 loro da parte della polizia di frontiera egiziana nel 2010.
Al di là dell’influenza israeliana, è evidente che il nuovo governo egiziano ha un’agenda molto netta nei confronti del “problema-Sinai” e di tutte le aree depresse: una soluzione basata sulla repressione, sul mantenimento della sicurezza a tutti i costi e sul sacrificio dei bisogni e delle necessità locali (vedi chiusura a tempo indefinito delle scuole nel Nord Sinai per motivi di sicurezza e interruzione delle principali vie di traffico per controlli militari). In definitiva, il Governo egiziano vuole mandare un messaggio chiaro al Paese: per rimettere in piedi l’economia (primo punto dell’agenda politica di al-Sisi) e combattere il terrorismo (suo secondo punto), occorre stringersi attorno alla bandiera e alle forze militari ed evitare derive critiche violente e non, che esse assumano il volto del terrorismo islamico o delle organizzazioni impegnate a difesa dei diritti umani.
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