Da Reset-Dialogues on Civilizations
Negli Stati Uniti gli osservatori di politica estera di ispirazione liberal hanno acclamato in coro la cacciata del primo presidente egiziano democraticamente eletto, Mohamed Morsi. Quello del 3 luglio scorso, a loro parere, è stato un “golpe militare buono” che i liberal statunitensi dovrebbero sostenere perché è stato fatto nel nome del popolo, porta avanti valori progressisti e, cosa più importante, rimuove l’islam politico dal potere e spalanca le porte ai laici egiziani.
Queste argomentazioni riportano alla mente una famosa battuta attribuita a un maggiore statunitense in Vietnam: “È stato necessario distruggere la città [per poterla] salvare”. Le premesse e i ragionamenti di questi analisti non reggono a un esame critico.
Il golpe segna una colossale battuta d’arresto per le prospettive di un Egitto democratico. Le forze armate, difficili da trattare e da contenere, sono tornate al centro della politica, cosa che rende l’esultanza statunitense per la cacciata di Morsi ancora più sorprendente. Questa approvazione, tuttavia, riflette un problema filosofico occidentale più profondo: come pensare lo sviluppo della democrazia nelle società musulmane.
Questo problema filosofico è sia storico sia culturale e ha contaminato il dibattito intellettuale sulle società musulmane in occidente per secoli. Si tratta fondamentalmente di un problema di eurocentrismo persistente: una riluttanza a comprendere il mondo islamico attraverso il prisma della sua propria esperienza storica piuttosto che di quella occidentale. Le domande essenziali sono: possiamo pensare in modo differente la relazione tra religione e sviluppo politico? Esistono percorsi alternativi alla modernità attraverso i quali i gruppi islamisti possono contribuire in modo efficace alla democratizzazione?
La sfida della democrazia nelle società musulmane non può essere compresa ricorrendo alla stessa cornice interpretativa abitualmente utilizzata per valutare la politica statunitense. Gli americani dovrebbero fare attenzione a paragonare – e quindi giudicare – le società sviluppate a quelle in via di sviluppo.
Mettere a confronto la politica delle società post-industriali moderne – dove il consolidamento della democrazia è avvenuto tempo fa e le norme fondamentali della società sono state negoziate democraticamente – con quella delle società che sono state a lungo sotto il dominio autoritario e dove le regole fondamentali della società non sono ancora state negoziate, produce analisi distorte. Ciò vale soprattutto per il ruolo normativo della religione nella vita pubblica, di cui nel mondo arabo si comincia appena a discutere.
Questo problema intellettuale è connesso alla tendenza naturale ma erronea di presumere che l’esperienza storica occidentale sia universale, soprattutto sulle questioni legate alla religione e al secolarismo. La premessa sbagliata è che siccome l’occidente – dopo secoli di eccidi ed esperimenti – è arrivato a un ampio consenso liberale e laico, lo stesso dovrebbe valere per il resto del mondo. Una visione così limitata ha ostacolato lo sviluppo politico nelle società musulmane dove il cammino della democrazia è ancora lungo e non si può evitare il passaggio obbligato della politica religiosa.
L’esperienza modernizzatrice del mondo arabo-islamico è stata qualitativamente diversa da quella occidentale. Per ragioni complesse che risalgono ai fallimenti dello Stato post-coloniale, la modernizzazione ha prodotto forti movimenti di opposizione fondati sulla religione e gruppi laici deboli in società profondamente polarizzate.
Con la primavera araba era nata la speranza che questa polarità potesse gradualmente diminuire con la scomparsa di dittatori di vecchia data e con la transizione alla democrazia. La logica della politica pluripartitica, la responsabilità democratica e una solida società civile avrebbero inevitabilmente condotto alla trasformazione ideologica, al compromesso politico, all’apprendimento democratico. Ciò dipendeva, però, dal fatto che il processo democratico procedesse sui giusti binari.
Dopo la caduta di Hosni Mubarak nel 2011, l’Egitto ha intrapreso una transizione, con tutte le sue prevedibili sfide, controversie e caos – in gran parte eredità del vecchio regime. I militari erano in ritirata e gli egiziani sono andati ai seggi sei volte (per diverse road-map, per le elezioni presidenziali e parlamentari e per un referendum costituzionale). Ogni volta ha prevalso la Fratellanza Musulmana.
Come molti avevano previsto, il primo tentativo della Fratellanza di esercitare il potere ha messo in evidenza la sua incompetenza. Morsi ha preso una decisione sbagliata dopo l’altra e la popolarità del suo partito è crollata. La Fratellanza era destinata a una sconfitta sicura alle prossime elezioni parlamentari. Ciò avrebbe verosimilmente portato a un periodo di esame di coscienza e dibattito interno. Ne sarebbe potuto emergere uno scenario più moderato e inclusivo. Adesso non lo sapremo mai.
Quello che i liberal occidentali non riescono a comprendere è che integrare gli islamisti nella politica ufficiale è una parte essenziale della battaglia per la democrazia nel mondo arabo-islamico. Le probabilità che questo accada ora hanno subito un duro colpo. La lezione che gli islamisti impareranno è che rispettare le regole della democrazia non conta, perché anche se vincono le elezioni i loro oppositori non seguono le stesse regole. Ora è verosimile che un processo di radicalizzazione avvelenerà la politica egiziana e l’intero mondo islamico negli anni a venire.
Vent’anni fa l’ambasciatore statunitense Edward Djerejian si chiese, in un famoso discorso, se si poteva confidare nel fatto che gli islamisti avrebbero rispettato le regole della democrazia. Riflettendo una preoccupazione diffusa, suggerì che il problema fosse una concezione di democrazia che corrispondeva a “un uomo, un voto, una volta”. I recenti avvenimenti in Egitto hanno ribaltato tale equazione. Non sono stati gli islamisti tradizionali, ma alcuni gruppi liberal e laici, in alleanza con i militari, a sovvertire il processo democratico.
Tutto ciò suggerisce la necessità di ripensare l’approccio occidentale e i presupposti relativi alla battaglia per la democrazia nel mondo arabo-islamico. Le formule e i paradigmi standard, derivanti dalla storia occidentale, in base ai quali le elezioni sono i migliori agenti di democratizzazione, non superano l’esame. Lo stesso vale per le battaglie politiche nelle democrazie musulmane “consolidate”, come Turchia e Indonesia, e in quelle “in via di sviluppo”, come Tunisia e Marocco.
Se si vogliono comprendere davvero le sfide che la democrazia in Medio Oriente si trova ad affrontare, in questo momento occorre mostrare un certo grado di umiltà e riflettere su un golpe che rovescia un governo civile, a prescindere da quanto questo possa essere incompetente.
(Traduzione di Francesca Gnetti)
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata il 9 luglio 2013 su The Christian Science Monitor.
Nader Hashemi è il direttore del Centro per gli Studi Mediorientali all’Università di Denver. Il suo libro più recente è “The Syria Dilemma” (Mit Press, 2013).
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