Afrin è solo l’inizio, assicura Erdoğan. La bandiera turca sventolava da poche ore sull’enclave curda, vittima sacrificale delle geometrie variabili nella guerra per procura siriana, e lui diceva già di guardare oltre. La questione, attuale quando ancora le sue truppe circondavano solo le colline attorno alla città, è ormai urgente: fin dove arriverà, la Turchia di Erdoğan?
Il primo obiettivo, più volte dichiarato prima e dopo Afrin, si chiama Manbij: strategico militarmente, geograficamente e diplomaticamente. È, per il ‘Sultano’, anche una prova d’orgoglio. Non dovrebbe contare, nella politica internazionale. Ma con lui accade anche questo. Perché vede Manbij come il simbolo del ‘grande inganno’ di Washington, che già con Obama gli avrebbe promesso almeno di contenere i curdi a est del fiume Eufrate. E invece a Manbij ci sono arrivati eccome, liberandola nel 2016 dall’Isis ma poi, naturalmente, restandoci, con le insegne delle Forze democratiche siriane (Sdf). Che siano una coalizione etnicamente mista, come dicono gli americani, per la Turchia è un bluff. Piuttosto, lo considera un mero rebranding dei combattenti curdi dell’Ypg, che vede come terroristi legati al Pkk. Dall’inizio del conflitto, del resto, non sarebbe l’unico. E Ankara giudica così anche l’ultima creatura dell’ingegneria politica sponsorizzata Usa, il multietnico ‘Partito del Futuro della Siria’, che vorrebbe mettere radici da Raqqa ad Aleppo.
La presa di Afrin, da cui proviene una bella fetta dei leader del cosiddetto Rojava, il Kurdistan siriano, è stata una mazzata. Per l’ennesima volta nella loro storia, i curdi vedono materializzarsi lo spettro dell’abbandono dopo la seduzione, e un amore stavolta piuttosto lungo, con le grandi potenze che battagliano in Medio Oriente. Quello che doveva essere il ‘Vietnam turco’, è stato conquistato nei due mesi stimati dall’intelligence militare di Ankara, con l’abbandono finale dei miliziani curdi per evitare un inutile massacro. I russi li avevano già mollati, segnandone una sconfitta apparsa solo questione di tempo e sangue ancor prima che entrambi iniziassero a scorrere – e con la copertura aerea di Mosca, viceversa, l’attacco turco sarebbe stato di fatto impraticabile (“Non avremmo potuto mandare lì neanche un drone”, ha ammesso Ilnur Cevik, consigliere politico di Erdoğan). A Manbij, ora potrebbero scaricarli gli americani, nonostante le smentite quotidiane a cui sono costretti dalle altrettanto quotidiane minacce turche. L’annuncio di Donald Trump su un prossimo disimpegno dalla Siria lascia sempre più spazio a questa ipotesi. Ma anche in questo caso, se le forze speciali Usa non se andranno a casa, o perlomeno a est dell’Eufrate, la Turchia poco o nulla potrà fare: un confronto militare diretto tra i due maggiori eserciti della Nato appare, a dispetto degli anatemi di Erdoğan, un esito irrealistico.
Vladimir Putin magari ci spera. Autorizzando di fatto l’offensiva turca su Afrin – in cambio di una parte di Idlib per i lealisti, e soprattutto del ritorno nelle mani di Bashar al Assad della Ghuta orientale, con il ritiro dei ribelli sostenuti da Turchia e Qatar – ha già parecchio frammentato lo sconnesso fronte occidentale, con l’Europa ancora una volta all’angolo. Ma uno scontro in armi Ankara-Washington, nonostante l’imprevedibilità degli attori e i basculanti equilibri del conflitto siriano, resta una soluzione ingestibile per tutti. Ecco perché la diplomazia. Come già avvenuto dall’inizio delle trattative di Astana, il terzetto Erdoğan-Putin-Rohani decide il futuro della Siria in modo ben più rapido ed efficace degli inconcludenti negoziati a Ginevra, specchio della sempre più frustrante irrilevanza delle Nazioni Unite su questo e molti altri dossier: praticamente, su tutto quello che conta. E nell’ultimo vertice dei leader ad Ankara, il 4 aprile, la spartizione della Siria in zone d’influenza ha fatto un altro passo avanti.
La questione, quindi, resta. Fin dove si spingerà Erdoğan? Davvero può essere a rischio anche Kobane? Quelli curdi restano gli unici stivali sul terreno a giustificare la presenza americana. Già in difficoltà di fronte al successo russo, che mantiene saldo Assad, Washington non può permettersi di mollarli, a meno di rinunciare alla partita chiave del futuro Medio Oriente, lasciando via libera anche all’espansione iraniana fino alle porte di Israele. Se per i curdi è questione di vita o di morte, quando si tratta dell’Iran Netanyahu non la pensa molto diversamente. L’asse Russia-Turchia-Iran rende Israele “molto preoccupata”. Eppure, l’America first di Trump potrebbe vincere le resistenze dei suoi generali, smobilitando dalla Siria.
Così alla fine potrebbe tornare la promessa ‘linea rossa’ dell’Eufrate, magari con altri garanti. I curdi ne uscirebbero ridimensionati, e privati anche della finestra sul Kurdistan iracheno con la cacciata del Pkk dalla regione di Sinjar. Una manovra a tenaglia, il soffocamento lento di quello che per Erdoğan è semplicemente il “corridoio del terrore”. Non la fine dei curdi, ma della rivoluzione del Rojava forse sì.
Credit: Louai Beshara / AFP
Una bandiera siriana sventola in una strada distrutta nell’ex città ribelle di Jobar, nel Ghouta orientale, 2 aprile 2018.