Da Reset-Dialogues on Civilizations
Sembra esser stata soprattutto la foto di Aylan, il bimbo siriano di origini curde affogato nelle acque turche sulla spiaggia di Bodrum il 2 settembre, insieme alle ondate di profughi che tentano il passaggio dall’Europa orientale – provenienti soprattutto da Siria, Iraq e Afghanistan – ad avere finalmente ridestato il pubblico occidentale dal suo torpore rendendo spaventosamente tangibile il limite umano al quale ci hanno condotti le crisi politiche transnazionali e le controversie dell’assistenza umanitaria “nord-sud”.
Sull’onda degli studi di Lili Chouliaraki, il fenomeno che abbiamo di fronte è quello che potrebbe essere definito come l’emergere di un nuovo “spettatore ironico” della sofferenza altrui; l’utente del vocabolario compassionevole del “Facebook like”, che auto-celebra e pubblicizza i propri atti di carità, e scambia il consumo etico per solidarietà informata e sostenibile. Ancora una volta, la solidarietà effimera coltivata nell’ambiente mediatico, e la compassione di massa verso l’astratta moltitudine dei “disperati”, troppo raramente reclama la storicità degli eventi, e racconta le loro tristi storie per attivare le nostre intenzioni e difenderle.
Ancora una volta, la solidarietà che poco s’interroga sul perché del rapido passaggio dall’indifferenza alla compassione pubblica è promossa in termini di stile di vita, e non di una mentalità civico-politica davvero informata e reattiva.
Dopo la diffusione dell’immagine del corpo esanime del piccolo Aylan, i media europei hanno dato maggior spazio alla discussione degli aiuti informali e formali che le popolazioni forniscono ai profughi, e le proteste civili organizzate per esprimere lo spirito di solidarietà e accoglienza presenti nell’Unione europea. Iniziative che, finché l’emergenza colpiva soltanto il panorama mediorientale, non erano state attuate a pari livello.
La compassione pubblica suscitata dalla “crisi dei profughi” – un appellativo,peraltro, capace di coprire insieme cause politiche e responsabilità esterne alla radice di tale crisi – si è ora per fortuna trasformata in motore di assistenza transnazionale, oltrepassando la mera compassione da spettatori in poltrona.
Un’educazione “sentimentale”, come la chiamava Richard Rorty, sarebbe forse utile nelle scuole europee per coltivare un sentire condiviso nelle nuove generazioni e offrire un terreno comune di condivisione ed empatia. Se da un lato, infatti, è indispensabile che la sensibilità verso la differenza non sia data per scontata e che ci venga dunque insegnata, dall’altro lato, come si può evitare che la cultura dei diritti umani, di cui il cosiddetto “nord globale” si fa paladino, resti effimera tanto quanto l’interesse pubblico verso il disperato fenomeno di esodi e dispersioni? La sponsorizzazione dei diritti umani, che ha già da tempo assunto la fisionomia del liberalismo di stampo occidentale e paternalismo terzomondista, stenta ad offrire una migliore spiegazione delle ragioni alla radice di tali crisi nel marasma mediatico odierno.
Il cittadino europeo medio ha dimostrato ancora una volta di mobilitarsi e affrontare il proprio incontro con i profughi/migranti in termini squisitamente umanitari e in relazione a uno stato di eccezione ritenuto temporaneo, restando tra l’altro restio ad affrontare la fase successiva fatta di richiesta di diritti.
Nel caos dei mesi di agosto e settembre, il temporaneo ripristino dei controlli di frontiera in Germania e Austria, la costruzione del muro al confine serbo–ungherese, e lo sgambetto teso a un profugo siriano dalla giornalista ungherese Petra Laszlo, sono segnali evidenti di un rafforzamento delle frontiere non solo materiali, ma anche morali nei paesi più toccati dalle ondate migratorie. Tali episodi sembrano significare ben più che un’ingente “crisi di profughi”: sembra trattarsi piuttosto di una vera e propria crisi delle interazioni e degli incontri umani.
Inoltre, i recenti sviluppi hanno dimostrato che i paesi Ue non possono far fronte da soli a tali flussi migratori, e l’impegno da parte dell’Onu diventa quindi sempre più radicato al loro interno. La sfida maggiore consiste nella necessità improvvisa di integrare la convenzionale risposta umanitaria, offerta all’interno di strutture di accoglienza popolate da residenti intenzionati a divenire stanziali, con percorsi per l’accoglienza di quei migranti che a volte restano per pochi giorni, o addirittura per poche ore, prima di proseguire verso la destinazione desiderata. La gestione di quello che potremmo chiamare un “transito d’emergenza”, specialmente in Italia, Grecia, Serbia, e Ungheria, è ancora un ambito ignoto alle organizzazioni umanitarie europee, e ha richiesto l’apertura di nuove sedi locali di alcune grandi organizzazioni non governative internazionali come World Vision, Islamic Relief e Action Aid.
La vera sfida in ambito europeo è riconsiderare radicalmente l’approccio verticale nord-sud e comunque ‘occidente-centrico’ perpetrato nel nome degli storici stendardi della responsabilità internazionale morale, che ha gradualmente ridotto le politiche umanitarie e di cooperazione allo sviluppo a meri strumenti di sicurezza internazionale. L’altra sfida è quella di capire di essere tutti quanti soggetti e attori di uno stesso ordine geopolitico integrato. Prendere atto di tutto questo non solo risparmierebbe molte vite, ma potrebbe probabilmente evitare molti degli “effetti collaterali” dei ciclici conflitti internazionali.
La realizzazione dei diritti di asilo e protezione in materia d’immigrazione, in quanto diritti umani convenzionalmente riconosciuti, non dovrebbe dipendere dal carattere effimero di sfuggenti e non sempre pienamente informate solidarietà sociali. La vera scommessa sarà continuare a sostenere e implementare tali diritti quando l’attuale compassione di massa verrà meno dopo la foga ‘emergenziale’ di questi mesi.
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