Da Reset-Dialogues on Civilizations
Pubblichiamo di seguito il contributo di Chiara Galbersanini (Università degli Studi di Milano) tratto dalla tavola rotonda con alcuni dottorandi delle università milanesi seguita alla lezione che Richard J. Bernstein, professore di filosofia presso la New School for Social Research di New York, ha tenuto lo scorso maggio in occasione del ciclo di incontri “Per una cittadinanza inclusiva“ organizzato da Reset-DoC e svoltosi a Milano presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
La promozione di un pluralismo impegnato, come quello americano, in cui ci si sforzava seriamente di allargare i propri orizzonti senza omologazioni a una cultura “dominante”, conserva la sua forza sicuramente anche oggi.
A causa dei fenomeni migratori degli ultimi trent’anni, la nostra società si caratterizza per la presenza di culture diverse. Risultano però, purtroppo, quasi totalmente assenti politiche culturali in grado di valorizzare la diversità culturale. Anche lo spazio comunicativo è cambiato, dal momento che si sono moltiplicate le identità linguistiche ad esso correlate, ma non esistono politiche in grado di disciplinare l’utilizzo della lingua d’origine, ad esempio, nella comunicazione con alcune amministrazioni pubbliche, in particolare quelle amministrazioni maggiormente coinvolte dai fenomeni migratori, come le questure o le prefetture. Si preferisce, invece, affrontare il tema dell’immigrazione sotto il profilo della sicurezza nazionale o dei migranti come “forza lavoro”. Oppure, si parla di “integrazione” dello straniero senza, però, fare riferimento al fatto che l’integrazione debba essere un processo e non un’imposizione e che, dunque, debba avvenire attraverso l’elaborazione di politiche specifiche nei confronti di chi arriva sul nostro territorio. L’elaborazione di tali politiche, in particolare, dovrebbe includere la possibilità che anche i nuovi gruppi di migranti possano esprimere un’opinione e possano influire sul processo decisionale, mentre invece risultano quasi sempre esclusi dal dibattito. In aggiunta, l’integrazione non può nemmeno prescindere da una valorizzazione delle tradizioni di appartenenza, che permetta una conoscenza delle reciproche culture, in nome di una pacifica convivenza all’interno di una società che è, di fatto, plurale. Più che di politiche di integrazione, si potrebbe parlare, allora, di politiche di “interazione” fra culture, poste in dialogo fra loro. Tale approccio aiuterebbe a valorizzare la diversità come possibilità di arricchimento reciproco e non come ostacolo alla convivenza.
Anche la recente giurisprudenza internazionale ha valorizzato il rispetto della diversità culturale: in particolare, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha recentemente giustificato il rispetto della diversità culturale non soltanto a valorizzazione della specificità di una minoranza (si trattava, nel caso specifico della minoranza nomade). Al contrario, il rispetto della diversità culturale della minoranza è stata considerata dalla Corte come valore per l’intera comunità, quasi una sorta di bene comune meritevole di tutela, a vantaggio non soltanto del gruppo minoritario, ma della società nella sua interezza.
Allora, anche l‘elaborazione di politiche in grado di valorizzare il pluralismo culturale potrebbe essere giustificata non tanto ricorrendo all’argomento “morale” (è giusto o sbagliato promuovere il pluralismo), ma all’argomento utilitaristico, per cui una società pluralista è una società vantaggiosa non soltanto per chi è culturalmente diverso, ma per tutti, dal momento che la diversità culturale costituisce un bene per l’intera comunità.
Nella stessa Costituzione italiana non troviamo degli ostacoli alla promozione di una società pluralista: al contrario, il pluralismo è considerato come un valore e la Costituzione lo tutela sotto molteplici aspetti. In particolare, il pluralismo di tipo culturale è tutelato dall’articolo 6 della Costituzione, che impegna la Repubblica a proteggere le minoranze linguistiche e culturali presenti sul territorio. Purtroppo, fino ad oggi, la tutela garantita dall’articolo 6 è stata indirizzata soltanto alle cosiddette minoranze storiche o nazionali, ovvero quelle minoranze presenti sul territorio nel secondo dopo guerra e che si collocano nelle Regioni di confine. Tuttavia, se tale tutela venisse estesa anche alle nuove minoranze, ovvero alle nuove comunità di immigrati, si arriverebbe, finalmente, ad un riconoscimento pubblico di tali gruppi, che compongono significativamente la nostra società, e ad un intervento del Legislatore che valorizzi e promuova la reciproca conoscenza delle culture.
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