Negli ultimi vent’anni le scienze sociali sono state interessate dall’apertura di un nuovo campo di studi, quello dedicato all’analisi dell’esperienza religiosa online. Sviluppatosi nel mondo accademico statunitense, lo studio della religiosità su internet si propone di osservare come le istituzioni, le comunità e i gruppi religiosi comunichino online e come di conseguenza gli utenti vivano la loro esperienza religiosa in rete.
La prima fase di studi dedicata al fenomeno ha inizio nel 1996, con la pubblicazione del primo articolo scientifico dedicato all’argomento, The Unknown God of the Internet, scritto da Stephen O’Leary e Brenda Brasher. Siamo nella seconda metà degli anni Novanta e i primi studiosi osservano internet come un nuovo spazio attraverso il quale le religioni possono sia potenziare il loro messaggio, sia esperire la propria religiosità. A suggerirlo è anche la teologa Jennifer Codd che, nel 1998, pubblica il libro Cybergrace dove internet viene descritto come un nuovo “tempio elettronico”.
La seconda fase di studi ha inizio col nuovo millennio e ha tentato di comporre un’analisi sistematica del fenomeno, categorizzando le differenti comunità religiose apparse in rete. Fondamentale anche per i futuri sviluppi della ricerca in questo campo è il lavoro di Cristopher Helland. Con il saggio Online religion/Religion-online and Virtual Communitas, Helland distingue due tipologie di religioni in rete: religion online e online religion. Con la prima definizione fa riferimento a tutte le religioni storiche entrate nel web, come il Cristianesimo, l’Islam, l’Ebraismo, etc., mentre definisce come online religion tutti i gruppi religiosi per i quali la rete diviene determinante per l’esistenza stessa dell’esperienza religiosa.
La terza e attuale fase di studio, può essere definita la “svolta teorica”. La comunità scientifica si sta infatti interrogando su come si ricostruiscano e negozino le diverse categorie religiose in rete: come si può ricreare una comunità religiosa online? Come si ricostruisce o come viene riconosciuta un’autorità religiosa sul web? Cosa viene definito sacro in rete e come può essere riprodotto un rito online? Come possono essere circoscritti tempi e spazi sacri su internet? Quali trasformazioni subisce la comunicazione religiosa in rete?
Heidi Campbell, professoressa alla Texas A&M University, oltre ad essere stata una pioniera di questo campo di studi, attualmente è una delle voci più influenti nel dibattito accademico che si occupa di quella che lei definisce digital religion.
Che cosa è la religione digitale?
Le religioni digitali sono considerate come il ponte tra il contesto online e quello offline. L’idea è che a mano a mano che internet, come tecnologia digitale, si integra nella vita di tutti i giorni, questo diventa uno strumento con cui fare moltissime cose, incluso svolgere le nostre pratiche religiose. Le religioni digitali guardano a come le credenze religiose, i riti e la costruzione del significato di queste pratiche possano essere integrate online. Questo ponte digitale tra l’online e l’offline crea uno nuovo spazio ibrido dove si possono realizzare queste pratiche religiose. Quando pratichi una religione digitale ti ritrovi sia online che offline ed in più esisti anche in questo nuovo spazio.
Quando e perché le religioni digitali sono diventate oggetto di studio?
Io ho iniziato a studiare religioni e internet nel 1995. Mentre stavo lavorando alla mia tesi magistrale qualcuno mi raccontò di una discussione che stava avvenendo intorno al tema della religione su questo nuovo network chiamato internet. Così un mio amico che lavorava all’università, mi lasciò usare un computer ed entrai in questa bacheca chiamata Religious Board Service. Mi interessai algruppo chiamato Toronto Blessing, composto da persone che andavano in questa chiesa di Toronto, nella quale vivevano una sorta di esperienza carismatica ed estatica e dopo ne riparlavano online. Quindi iniziai a studiarli e rientrarono perfettamente all’interno del mio lavoro di tesi. Poi, nel 1996, finita la tesi, ho iniziato a vivere in Europa e a vedere l’importanza di internet già solo nello stare in contatto con la mia famiglia, per avere notizie, per ascoltare le stazioni radio della mia città di provenienza e essere connessa. Nel 1996, il mondo accademico – soprattutto quello della sociologia delle tecnologie e della comunicazione – iniziava a discutere di come le persone costruivano le loro comunità online e cosa questo implicava per le comunità offline; io avevo appena scritto il saggio della mia tesi magistrale sul concetto di chiesa virtuale, quindi decisi che quel lavoro doveva diventare la base per la mia ricerca di dottorato.
Su che cosa si concentrano i suoi studi attualmente?
Il mio attuale progetto di ricerca si concentra sul concetto di autorità nella cultura dei new media. In particolare su come gruppi religiosi o individui costruiscano e rappresentino la loro autorità online e come nello specifico nuove forme di autorità o nuovi leader religiosi emergenti, possano sfidare le tradizionali istituzioni. Un esempio: ora mi sto dedicando allo studio dei teologi che hanno un blog e quelli che definisco theoblogians. I teologi sono persone che hanno delle credenziali per insegnare teologia, sono riconosciuti nella loro professione e i loro blog servono per trascrivere le loro idee in un contesto non professionale, diverso da quello degli articoli o dei paper accademici. Volendo semplicemente rendere il loro lavoro un po’ più pubblico e accessibile, i teologi blogger non fanno altro che riproporre online, quella che è la loro autorità offline. Al contrario i theoblogians sono persone che non hanno fatto il seminario, non hanno la dovuta preparazione, ma raccolgono intorno a sé persone con le quali condividono le stesse idee da discutere online. In realtà questi vengono riconosciuti al pari dei teologi per il lavoro che fanno intorno al discorso teologico, ricevendo, però, attenzione e legittimità solo sull’online. È una legittimità data esclusivamente dall’ambiente digitale, che viene per l’appunto chiamata autorità algoritmica. Ovviamente tra questi due gruppi si viene a creare tensione soprattutto su argomenti come chi ha l’autorità, i valori e la legittimità per dare certe interpretazioni in questo contesto teologico.
Secondo la sua opinione quale istituzione religiosa è riuscita meglio a capire e a sfruttare le potenzialità di internet?
Credo che alcune istituzioni religiose abbiamo compreso l’importanza dei media. La Chiesa cattolica, ad esempio, è stata in grado di adottare e adattarsi alla cultura di internet soprattutto grazie alla sua lunga tradizione nell’utilizzo dei mezzi di comunicazione. Lo si vede dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali e da altri documenti, come Communio et Progressio, dai quali si avverte come i media giochino un importante ruolo nella vita della Chiesa e come questi vengano considerati un dono fatto da Dio per esprimere concetti di giustizia sociale, di comunità… Lo si è visto già dagli inizi del Novecento: sin da subito la Chiesa cattolica ha adottato la radio, poi la televisione, fino ad arrivare ai media dei giorni nostri. E parte del motivo per cui ha avuto così successo è perché ha una chiara teologia che giustifica e spiega non solo perché i media devo essere utilizzati, ma anche come farlo. Comunque ci sono tante altre istituzioni e gruppi che stanno lavorando in maniera interessante sui media – i gruppi evangelici, ad esempio. Ogni gruppo religioso ha fondamentalmente capito come i media possono essere utilizzati per uno scopo religioso, adattandoli al loro quadro teologico. Pensiamo appunto alle comunità che mettono un forte accento sulla maniera in cui evangelizzare e che fanno dell’evangelizzazione un vero e proprio lavoro: i media sono sicuramente lo strumento più potente che hanno per farlo e quindi non possono non adottare internet. I gruppi che approcciano i media con esitazione lo fanno perché non capiscono che quando si utilizza un mezzo di comunicazione è il suo valore che viene prima e non quello del loro messaggio.
Internet sta cambiando il modo in cui le istituzioni religiose comunicano, ma sta cambiando anche il modo in cui le persone vivono la propria spiritualità?
Una delle grandi sfide nell’utilizzo della rete a fini religiosi e per la spiritualità è un termine coniato da Berry Wellman, networked individualism. Internet sta realmente potenziando l’individuo. Nel campo della religione dà accesso a informazioni che un tempo si potevano avere solo frequentando il catechismo, o andando dal prete, o consultando dei libri;veicola insomma tante di quelle informazioni, che non c’è più bisogno di rivolgersi ai tradizionali gatekeepers. Inoltre su internet puoi andare su sito e avere centinaia di hyperlink che ti incoraggiano a spostarti su tantissimi altri siti. Tutto questo incentiva una forma di spiritualità che è in continua ricerca, in continua condivisione, che fa riferimento a una molteplicità di fonti… Questo è ottimo per l’individuo, ma non per la comunità che vorrebbe mantenere i fedeli all’interno dei suoi confini e soprattutto dei confini delle sue idee. Perciò la teologia può diventare problematica, perché internet spinge a trattare tutto equamente e a muoversi in diversi posti, piuttosto che stare in uno solo. Il networked individualism sostiene infatti che al centro della struttura sociale delle persone non c’è più né una comunità, né un’istituzione, ma ci sono solo gli individui. Internet permette alle persone di essere libere di fare tutte queste cose e automaticamente questo significa lanciare una vera sfida alle comunità e alle tradizioni religiose.
Quali sono le sfide e le opportunità future che internet offre alle religioni?
Una delle sfide è offerta alle comunità religiose: devono decidere se immergersi nella cultura digitale e nelle tecnologie digitali, capire come utilizzarle, come gli utenti le utilizzano e adottarle – o adattarle – alle proprie comunità. Le comunità religiose devono anche capire che con questo medium tecnologico incentivano anche un altro lavoro, di tipo individuale. Quindi se da una parte hanno bisogno di immergersi nella cultura digitale, di usare la tecnologia, di creare risorse, dall’altra devono accettare che così facendo incoraggiano anche valori e modelli individuali, che potrebbero entrare in conflitto con la loro tradizione. La sfida quindi non è solo adottare o adattare le tecnologie ma anche capire come queste possano essere inculturate in una comunità.