Da Reset-Dialogues on Civilizations
La pace sembrava finalmente vicina. Mancava l’ultimo sigillo, quello del popolo. Invece nel referendum del 2 ottobre scorso, in un voto che ha sorpreso analisti e politici, cittadini e comunità internazionale, i colombiani hanno respinto gli accordi fra governo e guerriglieri delle Farc che avrebbero dovuto porre fine a un conflitto che dura da oltre mezzo secolo, il più lungo e sanguinoso dell’America Latina.
220mila morti, 45mila desaparecidos, sette milioni di sfollati interni non sono bastati a far trionfare il “Sì” agli accordi di pace. Anche se solo per un pugno di voti, il fronte del “No” si è imposto facendo piombare il Paese in un periodo d’incertezza politica e istituzionale e assestando un durissimo colpo al presidente Juan Manuel Santos, che per quattro anni aveva faticosamente negoziato con le Farc ogni riga e virgola del documento da 295 pagine contenente gli accordi, siglati il 26 settembre in una cerimonia presenziata in abiti bianchi dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, dal Segretario di Stato americano John Kerry e da decine di capi di Stato stranieri.
Eppure non tutto è perduto. In soccorso alla pace è arrivato il Comitato del Nobel con la decisione di assegnare il prestigioso premio per la Pace al presidente Santos. Un riconoscimento al difficile lavoro raggiunto ma, soprattutto, un incentivo a continuarlo. A cinque giorni dall’umiliante disfatta referendaria, il grande sconfitto interno, uno dei presidenti meno amati nella storia del Paese, è stato trasformato dal Comitato norvegese nel politico colombiano più stimato di sempre nel mondo. Paradosso al quale se ne aggiunge un altro: Santos, identificato fino a qualche anno fa con la destra belligerante, è arrivato alla presidenza nel 2010 anche grazie ai risultati militari ottenuti in veste di ministro della Difesa, fra cui l’uccisione di diversi leader delle Farc. Ma questi risultati non hanno evidentemente offuscato agli occhi del Comitato il traguardo ottenuto da presidente al tavolo dei negoziati: “Speriamo – è stato il messaggio arrivato da Oslo – che il premio le dia la forza per culminare il suo compito”, che non è solo la pace, ma anche “la riconciliazione e la giustizia”.
“Il Nobel rafforza la posizione del governo e farà da stimolo al tentativo di riconciliare un Paese che oggi risulta quanto mai polarizzato”, osserva lo storico Gonzalo Sanchez, direttore del Centro nazionale per la memoria storica e uno dei massimi conoscitori del conflitto. Ma per riconciliare un Paese così diviso di fronte agli accordi di pace non basterà l’aurea di un Nobel. Come ha sottolineato un editoriale del settimanale Semana, “il riconoscimento reitera l’entusiasmo della comunità internazionale per lo sforzo colombiano, ma non riduce la polarizzazione interna fra il Santismo e l’Uribismo”. L’ex presidente Alvaro Uribe, il più eminente e fragoroso rappresentante del fronte contrario agli accordi, è stato infatti il vero vincitore del referendum. Le ragioni del sorprendente esito referendario sono molteplici, ma in buona parte legate proprio all’abilità di Uribe di far leva sul diffuso risentimento verso per Farc.
L’immagine di una guerriglia marxista che lotta per ideali egualitari, come quello di una più equa distribuzione della terra, è stata infatti da tempo imbrattata dalla ferocia delle sue violenze e dalle attività illecite – narcotraffico in testa – intraprese per finanziarsi. Massacri, sequestri, arruolamento di minori sono stati perpetrati per decenni dalle Farc. Perché quindi – è stato il leit motiv della campagna uribista – appoggiare un accordo che prevede, fra le altre cose, una forma di amnistia per i ribelli, che impone anche a chi ha commesso le peggiori violazioni dei diritti umani solo limitazioni alla libertà personale, ma neanche un giorno di carcere? E perché, come prevedono ancora gli accordi, permettere a quest’organizzazione di trasformarsi in un partito politico con tanto di seggi in Parlamento? Puntando soprattutto su questi due temi, amnistia e rappresentanza politica, Uribe è arrivato a sostenere che Santos avrebbe consegnato la Colombia al “castro-chavismo”, accusandolo di essere troppo tenero con le Farc. Poco importa che lo stesso Uribe, da presidente, aveva approvato nel 2005 una simile legge di amnistia per i gruppi paramilitari. La sua campagna referendaria ha comunque convinto la maggioranza del Paese che la pace sarebbe arrivata a un prezzo troppo alto.
Il 2 ottobre i colombiani non hanno rifiutato la pace in sé: hanno rigettato l’accordo. E il “No” agli accordi si è imposto con appena il 50,2% contro il 49,7% del “Sì”. Solo 54mila voti di scarto. Troppo pochi perché si rinunci alle parole per tornare ai fucili, trasformando il settimo negoziato di pace con le Farc della storia colombiana nell’ennesimo fiasco. Troppi pochi anche per Uribe, che non vuole passare alla storia come l’uomo che ha resuscitato la guerra. Del resto neanche le Farc sono intenzionate a ritornare alle armi, visto l’indebolimento militare subito negli ultimi anni dai guerriglieri, diventati ormai circa 7000, un terzo di 15 anni fa. Non a caso, di fronte all’esito referendario, hanno annunciato la volontà di rispettare comunque il cessate-il-fuoco.
Cercare quindi un maggiore consenso nazionale attorno agli accordi è quel che tutti sembrano volere. E la strada che verrà percorsa sarà con tutta probabilità quella della rinegoziazione degli accordi, insieme all’opposizione. Ma il margine di manovra del governo è strettissimo, le istanze dell’opposizione troppo radicali per essere accettate dalle Farc. La destra uribista, notoriamente vicina all’esercito e agli agro-industriali, ha già chiesto un’amnistia per i militari incriminati e vorrebbe anche rivedere il capitolo agrario degli accordi, che prevede la redistribuzione di 3 milioni di ettari di terra alle vittime del conflitto. Soprattutto, l’uribismo intende imporre ai guerriglieri colpevoli di crimini il carcere, e non pene “alternative” come i lavori di sminamento attualmente previsti. Tuttavia la Storia insegna che nessun movimento insurrezionale che non sia stato sconfitto militarmente firma un trattato di pace se ciò che lo aspetta è la prigione.
A remare contro la possibilità di conciliare posizioni tanto distanti c’è poi il fattore tempo. L’obiettivo dell’uribismo è dilatarlo, possibilmente fino alle elezioni del 2018. Ma lasciare gli accordi in un limbo prolungato è pericoloso: il cessate-il-fuoco bilaterale, in vigore da fine agosto, non è sostenibile nel lungo termine. Anche perché di fronte a un periodo protratto di incertezza le Farc rischiano di disgregarsi e alcuni elementi potrebbero unirsi ad altre guerriglie ribelli tuttora attive sul territorio.
Lo scenario, dunque, è poco promettente. Eppure barlumi di ottimismo vengono offerti non solo dall’assegnazione del Nobel per la pace, che aiuterà a mantenere i riflettori internazionali accesi sul processo di pace colombiano, ma anche dalla società civile. “La mobilitazione sociale saprà imprimere fretta ai negoziatori e non permetterà che si ritorni alla guerra”, sostiene Sanchez. Ed è innegabile che dal 2 ottobre decine di migliaia di persone – studenti, indigeni, contadini, sfollati e vittime del conflitto in genere – continuano a sfilare ogni settimana nelle principali città della Colombia, senza ostentare bandiere di partito, chiedendo semplicemente “Paz”. E dimostrando quanto, al di là delle divisioni nelle urne, la democrazia colombiana sia vibrante.
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