Da Reset-Dialogues on Civilizations
Il Partito Comunista Cinese, sotto la guida del suo Segretario Generale (e Presidente della RPC) Xi Jinping è attualmente impegnato, in tutta la sua capillare rete organizzativa, nella discussione del “Documento N. 9”, una sorta di Sillabo delle più minacciose sfide ideologiche che provengono dall’Occidente, nei cui confronti il Partito è chiamato a resistere confutandole con una vigorosa controffensiva ideologica. Eccole: 1. Valori universali; 2. Libertà di parola; 3. Società civile; 4. Errori storici del Partito Comunista Cinese; 6. Capitalismo corrotto (crony capitalism); 7. Indipendenza del potere giudiziario.
Non a caso il primo punto si riferisce ai valori universali, fra cui i diritti umani e il costituzionalismo. È ben nota la polemica non solo cinese, ma di molti altri Paesi del mondo “non-Occidentale”, nei confronti dell’ideologia dei diritti umani, intesi come valore universale al cui rispetto sono tenuti tutti i Paesi, quale che sia il loro sistema politico. Secondo questa polemica, ciascun popolo sarebbe portatore di valori originali e non universalizzabili, mentre il discorso universalista dell’Occidente sarebbe solamente uno schermo pretestuoso dietro il quale occultare la prepotenza imperialista e gli interessi economici. La storia recente ci mostra, è certo, che il discorso sui diritti umani può essere distorto e strumentalizzato, e soprattutto soggetto – svuotandone il preteso universalismo – ad un cinico meccanismo opportunista del “doppiopesismo”. Ma la stessa storia ci dimostra che non è vero che i valori definiti da dirigenti non democratici siano effettivamente condivisi da milioni di cittadini, o piuttosto sudditi. La pretesa del rispetto dei diritti umani – gli stessi diritti, ovunque – sta infatti dietro tutte le grandi ondate di protesta, le contestazioni delle ingiustizie, dei privilegi e delle prepotenze di dirigenti che si arrogano arbitrariamente la facoltà di definire i valori del proprio popolo. (Qualcuno si ricorda dei “valori spagnoli” definiti, e in realtà imposti, dalla dittatura franchista?)
Ma è proprio questo che teme il regime cinese, che non tanti anni fa, a Tien an Men, ha represso con i carri armati una protesta popolare che chiedeva il rispetto di valori assolutamente universali. Fra questi, la richiesta di poter vivere sotto uno stato di diritto, e in particolare in un sistema retto da una costituzione che fissi diritti e doveri dei cittadini, e soprattutto limiti l’arbitrio del potere.
La libertà di parola (con quella, strettamente associata, della libertà di stampa) è un altro nemico storico dei regimi non-democratici di qualsiasi colore e ideologia, e le restrizioni che le vengono imposte, di solito con il pretesto della tutela della sicurezza, sono un segnale d’allarme che chi ha cara la libertà dei cittadini non dovrebbe sottovalutare. Ma anche questa richiesta, secondo il PCC, sarebbe soltanto prodotto di una subdola manovra di chi vuole indebolire la Cina. In realtà quello che si teme non è l’indebolimento del Paese, che della libertà di parola e di stampa ha anzi bisogno per far funzionare un essenziale meccanismo di feed-back sullo stato reale del Paese, bensì di un potere che teme di non essere in grado di reggere una discussione aperta.
Non sorprende di certo che la terza delle minacce ideologiche venga identificata nel discorso relativo alla società civile, il terreno su cui negli ultimi tempi ha preso corpo, in diversi Paesi, la mobilitazione della protesta dei cittadini. Risulta che in Cina, mentre a livello politico non si registra l’emergere di qualsivoglia nucleo di opposizione, la protesta sociale sia endemica. Mossa da cause concrete, da una richiesta di giustizia alla protezione dell’ambiente, per il regime la mobilitazione della società civile non solo minaccia l’ordine pubblico, ma potrebbe alla lunga permettere un passaggio dalla protesta alla coagulazione di proposte politiche alternative al Partito. Anche qui, ovviamente, la denuncia della sovversione esterna è palesemente pretestuosa e francamente risibile: i contadini che bloccano una strada di provincia per protestare contro le angherie di un boss politico locale non leggono di certo il New York Times, né si muovono dietro ordine dei servizi occidentali.
La storia, per tutti i regimi, è tutt’altro che materia accademica. Essa viene scritta, riscritta e interpretata in modo rigido e ufficiale per legittimare il presente. Non vi è dubbio che l’attuale sistema cinese abbia ben poco in comune con quello maoista, almeno se ci riferiamo – per usare la terminologia marxista che Pechino non ha mai abbandonato – alla struttura socio-economica invece che alla sovrastruttura politica. Dalle comuni, l’egalitarismo, il collettivismo esasperato la Cina è passata, con risultati straordinari in termini di crescita e modernizzazione, a un sistema che mantiene un forte ruolo dello Stato, ma che certo rientra nell’ampia galassia capitalista. Non dovrebbero esserci dubbi, quindi, nel registrare il cambiamento e anche nel criticare le follie ideologiche del passato, che fra l’altro hanno comportato non solo arretratezza ma anche spaventose perdite umane.
Ma il Partito rimane ambiguo. Nei fatti va oltre (e contro) Mao ma non vuole abbandonare la legittimazione che si può derivare dalla sua figura. Basti menzionare il fatto che per celebrare il 120° anniversario della sua nascita è stato stanziato oltre un miliardo di dollari. E allora la critica della storia del Partito è un terreno pericoloso, che va controllato per evitare che dalle critiche agli “eccessi” si passi alla critica del sistema, soprattutto sotto il profilo strettamente politico del potere incontrastato del Partito.
Sesto punto, il capitalismo. Un sistema economico che il Partito Comunista si è dimostrato capace di gestire in modo brillante, conseguendo in pochi anni risultati che hanno sconvolto i rapporti di forza nell’economia globale. La Cina ha confermato che il capitalismo – a differenza dal comunismo, storicamente realizzatosi soltanto in una forma e con un modello, quello dittatoriale (da Stalin a Mao, da Pol Pot alla dinastia dei Kim nella Corea del Nord) – è forte perché proteiforme, capace cioè di prendere corpo con il liberalismo politico o con la dittatura, con la monarchia o la repubblica, nel rigore o nel consumismo più edonista. I risultati, per il regime, costituiscono la migliore legittimazione, e la stragrande maggioranza della popolazione cinese sembra essere d’accordo. Ma non può essere d’accordo con una patologia certo non solo cinese, ma che in Cina ha raggiunto livelli clamorosi: la corruzione. Ecco perché non si vuole permettere che si diffonda la polemica, capace più di ogni altro tema di alienare i consensi, nei confronti del crony capitalism, quel “capitalismo degli amichetti” che è inevitabile quando il capitalismo non si associa alla libera concorrenza, ma viene distorto e falsato da appoggi e privilegi basati sul favore del potere politico.
Infine, l’indipendenza della magistratura. Un tema anche questo non solo cinese, che identifica correttamente una delle più essenziali garanzie per il cittadino, in qualunque sistema. Una richiesta che certo scaturisce da una profonda esigenza e da una profonda indignazione del popolo cinese che, anche in questo non diverso dagli altri popoli, chiede che la giustizia sia, come nella simbologia classica, bendata, e non strabica, e soprattutto non soggetta al potere politico.
È utile vedere da dove scaturiscano le peggiori paure del regime cinese, perché la conclusione che se ne ricava è alla fin dei conti ottimista, nel senso che tutto ciò, tolta la pretestuosa polemica contro la sovversione occidentale, rivela in realtà che il regime ha ben chiaro quali siano i propri punti deboli, cioè da dove derivi la spinta al cambiamento e alla democrazia di un intero popolo. Un popolo la cui grandezza non potrà essere solo economica, ma dovrà tradursi in una profonda e saggia maturazione civile e politica.
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Immagine: Bandiere in Piazza Tienanmen
Assomiglia tanto al Sillabo di Pio IX. Ma era il 1864. Ridicoli, ma piu’ ridicoli ancora gli ancora comunisti di qua.