Da Reset-Dialogues on Civilizations
La Primavera araba, sorprendente e ammirevole, è stata seguita sin dall’inizio da aspettative spesso irrealistiche, da una crescente e profonda confusione sulle condizioni che rendono possibile la democrazia e da una persistente impazienza non solo dei partecipanti, ma anche degli spettatori ficcanaso che tentano di fomentare la marcia per la libertà di altri popoli. Lo spirito delle insurrezioni originarie era radicato in un’impellente necessità storica e in una potente convinzione morale. Ma la storia non è sempre prevedibile e i principi morali non possono ergersi a guida per la politica.
È la politica della democrazia reale che ha generato difficoltà: perché democrazia e rivoluzione non sono la stessa cosa e non sono necessariamente legate tra loro da un nesso di causalità. In questa burrascosa estate di una primavera araba in difficoltà è fondamentale riesaminare alcune lezioni storiche. Senza dubbio non si può tornare indietro – non possiamo riavvolgere la storia – ma per andare avanti occorre comprendere quanto sia stato contradditorio e incerto il cammino delle precedenti rivoluzioni democratiche. Di seguito sono elencate undici lezioni che la storia ci insegna:
1. Le rivoluzioni non producono democrazia: producono caos, instabilità, anarchia, violenza. Una nuova tirannia è un risultato probabile tanto quanto la libertà. Quella francese nel 1789, quella russa nel 1917 e quella iraniana nel 1979 erano tutte ribellioni ispirate da nobili principi, ma nessuna è sfociata in una democrazia. Anche negli Stati Uniti una rivoluzione nel nome dell’indipendenza ha portato a otto anni di repubblica schiavista e a una guerra civile sanguinosa prima di generare qualcosa di simile alla libertà e alla giustizia per tutti gli uomini (per non parlare delle donne).
2. La violenza è amica della rivoluzione ma nemica della democrazia. Rovesciare i dittatori può portare non al disprezzo per la tirannia ma alla venerazione della violenza. I ribelli libici hanno ucciso Gheddafi in un momento di giusto furore; poi hanno fatto lo stesso con l’ambasciatore statunitense a Bengasi. I rivoluzionari egiziani hanno cacciato Mubarak e i suoi alleati militari e hanno eletto Morsi; poi hanno ingaggiato i militari per farsi aiutare a cacciare Morsi e gli altri membri del governo appartenenti alla Fratellanza musulmana, nonostante la loro legittimità democratica. Chi sarà la prossima vittima dei militari? I ribelli siriani ora sperano di eliminare Bashar Al Assad, ma il loro successo dipenderà dai jihadisti che non mostrano più amore per la democrazia del regime che cercano di rovesciare. Con ciò non si vuole negare che la violenza sia spesso un indispensabile artefice della libertà, ma solo sottolineare che la libertà come risultato finale spesso non si realizza.
3. Le elezioni sono essenziali per la democrazia, ma per molti aspetti rappresentano la meno importante tra le sue condizioni fondanti. A contare non sono le prime elezioni, ma le seconde e l’Egitto ha già mancato quel banco di prova. Naturalmente si tratta di una strada a doppio senso: la maggioranza dei voti dà legittimità al governo, ma non garantisce di per sé che chi è al potere governi in modo legittimo. Chi ha perso le elezioni deve aspettare fino alla tornata successiva perché le sue rivendicazioni siano prese in considerazione, ma i vincitori possono rinunciare alla propria legittimità rifiutando di riconoscere i diritti e i bisogni di chi ha votato contro di loro. Si possono vincere le elezioni di misura o con una solida maggioranza, ma si può governare solo con il consenso di chi è stato sconfitto alle urne. Questa è la lezione che la Fratellanza non è riuscita a imparare al Cairo.
4. La democrazia si costruisce dal basso verso l’alto, non viceversa. Dipende tanto dalla competenza dei cittadini, quanto da quella dei politici, da una società civile libera e plurale come da una costituzione legittima, dal rispetto della legge non meno che dalla passione per l’ideologia. Come altre rivoluzioni, le rivolte della Primavera araba sono state guidate da combattenti per la libertà spinti dalla passione, ma in paesi in gran parte privi di cittadini. Questo è l’enigma della democrazia: chi combatte per la cittadinanza deve avere le virtù dei cittadini per vincere la battaglia. Senza libertà non ci può essere cittadinanza, ma solo i cittadini sanno come conquistare e mantenere la libertà.
5. La democrazia dipende da una collettività, da individui che mettono il bene pubblico davanti al bene del partito, che si considerano come l’incarnazione di un “noi” repubblicano e non come un insieme di interessi di uno specifico “io”. Morsi e i suoi discepoli della Fratellanza hanno pensato che la vittoria elettorale avesse assegnato loro il diritto di governare in nome dei propri interessi e principi. Ma in realtà la vittoria ha assegnato loro solo il diritto di governare in nome del bene comune dell’Egitto, cioè dell’interesse pubblico. Quando si sono rifiutati di capirlo, hanno rinunciato a gran parte della loro legittimità.
6. L’interpretazione che i seguaci della Fratellanza stanno dando al colpo di Stato è che “la democrazia non è per i musulmani”. Hanno ragione, ma non nel modo in cui credono. La democrazia non è neanche per i cristiani o per gli induisti; non è per gli ultra-liberisti del Tea Party né per i socialisti radicali. La democrazia è per i cittadini e i cittadini sono definiti da ciò che li accomuna, non da ciò che li divide, dal terreno comune su cui si trovano e non dai feudi rivali dai quali fanno propaganda. Come tutti gli altri gruppi, i musulmani hanno ogni diritto di condurre una campagna per la leadership democratica. Ma quando vincono devono governare come cittadini sulla base di ciò che condividono sia con i vincitori sia con i vinti.
7. Un golpe è sempre un golpe. Anche un “golpe del popolo” è un golpe, altrimenti noto come dominio della piazza. La legge senza le elezioni (dispotismo illuminato) può essere caritatevole, ma difficilmente è democratica; le elezioni senza la legge possono essere democratiche, ma sono poco più che demagogia. Sono necessarie entrambe. Tendiamo a chiamare golpe quello che avviene quando i nostri nemici rovesciano i nostri amici, non quando i nostri amici rovesciano i nostri nemici. È per questo che possiamo tranquillamente prevedere che l’amministrazione Obama si illuderà di credere che la violenta cacciata di Morsi non sia un “golpe” e gli Stati Uniti potranno continuare a offrire il loro aiuto.
8. La democrazia ha bisogno di tempo e il suo insediamento richiede una pazienza infinita. Spesso per affermarsi necessita del lavoro di generazioni. Ma i moderni mezzi di comunicazione e le nazioni straniere ingerenti cercano di escogitare risultati fulminei che soddisfino i loro interessi. Le vittime di una tirannia prolungata sono comprensibilmente impazienti: l’invito alla pazienza suona come il via libera a una maggiore sofferenza. Quindi a meno di una saggia leadership locale che raccomandi e incarni la pazienza (come ha fatto Mandela in Sud Africa), la ricerca della democrazia sarà giustamente precipitosa – e altrettanto fallimentare.
9. Non si dovrebbe parlare di democrazia, ma di democrazie: perché ci sono molte versioni della vita democratica e nessun popolo ha il monopolio della sua autenticità. Non si dovrebbe parlare della strada verso la democrazia, ma delle strade verso la democrazia; perché ci sono tanti cammini verso la libertà quanti sono i popoli e le storie culturali. Non si può conquistare la libertà imitando la costituzione di un altro paese o facendosi spedire la dichiarazione dei diritti dei propri amici. Un popolo deve generare la propria forma di auto-governo. Ci sono costituzioni scritte e non scritte, sistemi di gestione del potere esecutivo parlamentari e presidenziali, forme di governo pluripartitico e monopartitico, nessuna è privilegiata. Le comunità di villaggi indiane, i consigli dei lavoratori russi (“soviet”), le confraternite tribali africane, la Loya Jirga afgana (consiglio nazionale tribale), tutti hanno riflessi democratici e offrono versioni generiche dell’esperienza democratica.
10. Il ruolo delle forze armate nelle democrazie emergenti è cruciale. Spesso si tratta dell’istituzione più avanzata dal punto di vista dell’istruzione, della professionalità e della competenza in una società in via di sviluppo. E quindi è facilmente tentata dal pensiero di dover governare. Ma solo forze armate reticenti che si comportano come garanti non politici del processo democratico possono rafforzare la democrazia piuttosto che comprometterla. I generali devono imitare il guerriero romano Cincinnato e ritirarsi dal campo di battaglia sul quale hanno contribuito a salvaguardare le sorti di una nuova repubblica (come fece il generale Washington dopo la rivoluzione americana). L’esercito egiziano dovrà imitare quello turco, che negli ultimi anni ha salvaguardato e contenuto il governo islamico moderato senza insistere sulla gestione del potere. Se un popolo libero prende l’abitudine di fare affidamento sull’esercito come garante della propria libertà, non ci vorrà molto prima che se ne ritrovi privato. I generali che si disfano del governo eletto dai vostri oppositori quando quel governo non è più di vostro gradimento non esiteranno a disfarsi del governo eletto da voi, quando non sarà più di loro gradimento.
11. La lezione finale che possiamo trarre dalla storia – la lezione di tutte le lezioni – è che domani non assomiglia mai a ieri e che gli insegnamenti della storia devono essere presi con le pinze. L’unica certezza è l’incertezza. Tutte le lezioni qui esposte sono inoppugnabili, fino a quando non vengono smentite. Perché l’unico vero significato della storia è che il genere umano contribuisce a plasmarla: è per questo che la storia è sostanzialmente la storia della libertà.
Traduzione di Francesca Gnetti
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata l’8 luglio 2013 su The Huffington Post
Barber apre orizzonti infiniti, respiro e voglia di lavorare perchè le persone trovino la loro strada emancipativa! l’ostacolo è l’identità rigida( denunciata da A. Sen) che invece è l’ideale irrinunciabile di molti gruppi religiosi e laici : è la paura del vuoto sentito e vissuto come non essere-non significato assoluto, invece che come spazio di ricerca di novità di evoluzione verso l’alto verso il meglio verso l’arricchimento degli uomini.
L’accusa di razionalismo lanciata dal mondo religioso a quello democratico non è certamente tipica della fede islamica. Se è ragionevole constatare il diverso evolvere della cultura laica e di quella religiosa e del loro continuo intrecciarsi e distanziarsi tra il “mondo occidentale” e le altre parti della Terra, è altrettanto constatabile che in nessuna parte del mondo si sia giunti ad un termine dell’evoluzione “democratica”. Il concetto occidentale (laico) di “merito” non trova significati concreti se non in una traduzione verticale di dipendenza della persona da un “alto” non meglio identificato, di origine religiosa. Nè il tentativo di diffusione dell’occidente e delle sue modalità di sviluppo nel resto del mondo sembra essere così distante dal tentativo opposto di riscatto del mondo islamico sul mondo occidentale. Il problema della democrazia “mondiale”, dunque, sembra pericolosamente raggiungibile attraverso nuovi conflitti di parti che ritengono i propri “bisogni” e le proprie “verità” superiori a quelle di altri. Gli undici punti elencati sopra possono allora essere interpretati come un vademecum logico da tener presente da tutte le parti in causa, se intendono farlo, per raggiungere una modalità nuova di convivenza democratica. Se un punto non è stato infine contemplato, non mi sembra dunque la difettosità di questa o di quella ideologia colta in un particolare momento della sua evoluzione, ma la costante delle debolezze umane, che andrebbero sorrette in momenti di così grave responsabilità
Sì, diciamo che sono d’accordo! Per la cultura islamica fondamentalmente non c’è distinzione tra ciò che noi definiamo razionalismo e fede. E’ questa è una grande cosa che andrebbe analizzata e capita meglio anche da parte degli stessi islamici soprattutto gli Arabi-Islamici. Basti pensare che per l’Islam c’è un unico libro che racchiude anche la Legge. L’analisi degli 11 punti è sinteticamente molto pregnante e vera: aggiungerei che ci sono dinamiche sociali e politiche la cui evoluzione ed i cui esiti si perdono per la nostra memoria e sulla base delle comuni conoscenze nella notte dei tempi.
Pare che l’autore tenda ad ignorare le contrapposizioni tra Islam (ovvero Corano) e Democrazia. Quest’ultima vorrebbe, in molte circostanze, prevalere sul Corano e cio’ e’ impossbile.
L’espansione del concetto ‘dai a Cesare . . . .’ e la divisione tra Stato e Chiesa e’ avvenuta in Europa dopo parecchi secoli ed e’ stata possibile grazie ad un’evoluzione nelle interpretazioni dei Vangeli e della Bibbia accompagnata nell’ultimo secolo da un’emersione dei laici.
E’ impossibile che cio’ avvenga nel mondo Musulmano.
Le elites colte e borghesi (ristretta minoranza)sono considerate ‘peccatrici’ ed i peccatori, secondo il Corano, vanno convinti a cambiare strada dapprima con le buone poi con le cattive.