Da Reset-Dialogues on Civilizations
Rio de Janeiro – “Il gigante si è svegliato”. È stato questo il mantra che, un anno fa, ha accompagnato l’inizio della fase di contestazione del popolo brasiliano contro la propria classe politica e l’ingiustizia sociale di un Paese dalle feroci diseguaglianze. Mai si erano viste centinaia di migliaia di persone sfilare per le strade di Rio de Janeiro e di altre città. Mai dall’epoca dell’impeachment dell’ex presidente Collor negli anni ’90. Mai per urlare al mondo la realtà asfissiante del Paese, tanto vittima dei propri pregiudizi e di un’immagine patinata e irreale, da non riuscire a mostrarsi nella sua drammaticità più profonda. Di certo non all’estero dove il ‘mito’ del brasiliano sempre felice ha dovuto fare finalmente i conti con le immagini di proteste enormi. E stavolta conquistare la platea non è stata, come sempre negli ultimi anni, la spettacolarizzazione della piaga dei bambini di strada o della marginalità delle favelas, ma qualcosa di diverso che ha investito anche la classe media e, talvolta, quella ricca. Tutti uniti e con lo stesso obiettivo a portare avanti un movimento di protesta che, inaspettatamente per chi non ‘sentiva’ il paese, ha fatto capire in maniera chiara che i brasiliani tra il calcio d’élite e la sanità o l’istruzione, nel caso, scelgono queste ultime. Mostrando anche il coraggio di un popolo, unito pure nelle enormi differenze interne, capace di scagliarsi contro il potere sportivo internazionale della Fifa, la classe dirigente e la politica, senza timore alcuno. E questo è già un risultato raggiunto: vincendo anche il tentativo di strumentalizzare le proteste da parte dei media nazionali (e il pressappochismo dettato da mancanza di conoscenza della stampa estera), che hanno cercato di mettere in primo piano come motivo delle proteste dello scorso giugno, l’aumento dei biglietti degli autobus. È stata la gente, urlando la propria verità in continue manifestazioni, spesso anche usando la violenza dei black block, a far si che sì vedesse quello che c’era dietro. “Não é por centavos. São direitos.” Non è per centesimi, sono diritti. Ora un concetto chiaro a tutti.
Il momento di inizio delle proteste dello scorso giugno, soprattutto quelle spontanee dei primi giorni, ha realmente visto scendere in strada vari settori della società in particolare carioca, sconvolgendo tutti: politici e strutture di polizia soprattutto. Istituzioni riorganizzatesi però in poco tempo per una reazione portata avanti con leggi restrittive e una lettura dell’ordine pubblico, ancora una volta, in chiave repressiva. Le manifestazioni si sono così ridotte, ma non si sono mai arrestate. I cortei in strada hanno perso l’appoggio della maggioranza della popolazione, in particolare di classe media e medio alta, ma quasi tutti i giorni c’è stato qualcuno che è sceso in strada, rischiando arresto e manganellate. Così è stato possibile portare avanti la protesta fino all’inizio dei mondiali di calcio, dove la possibilità di esplosione finale della violenza è una terribile incognita per il governo federale e per i governi degli stati.
La violenza
Per contenere la manifestazioni, la violenza è stata strumentalizzata: stigmatizzando quella delle frange di manifestanti più avvezzi allo scontro; intensificando quella di Stato, con una repressione sempre più dura. E ancora una volta parte della stampa nazionale ha avuto un ruolo fondamentale. Stavolta nell’enfatizzare la violenza di parte dei manifestanti, per limitarne l’appoggio da parte dei figli delle classi abbienti e facendo si che i più pacifici rimanessero alla finestra. Lo scorso febbraio, durante una protesta contro il nuovo aumento di prezzo dei biglietti dell’autobus, il cineoperatore della tv Bandeirantes, Santiago Andrade, è stato colpito a morte da un petardo fatto esplodere da due manifestanti, poi identificati, arrestati e in attesa dei processo dove rischiano pene di oltre 30 anni. L’episodio, gravissimo, costato la vita di un professionista dell’informazione, è stato sfruttato dalla stampa per infondere paura nella popolazione, soprattutto nelle classi più alte, già allontanatesi in parte dalla piazza per una estrema politicizzazione delle proteste, all’inizio totalmente spontanee e ‘laiche’.
Due proposte di legge, una per vietare la maschera e l’altra per processare chi compie disordini in strada come terrorismo (con pene enormi), hanno causato un ulteriore riduzione delle presenze, indebolendo il fronte violento, impaurendo i manifestanti con arresti e il rischio di decine di anni di carcere per una molotov. La violenza della polizia e la presenza sempre maggiore di agenti in strada ha fatto il resto: in una relazione della Ong “Artigo 19”, almeno 837 persone sono state ferite lo scorso anno durante le manifestazioni, 117 le aggressioni a giornalisti. Lo scorso luglio il fotografo Sérgio Silva ha perso un occhio, perché colpito da un proiettile di gomma esploso da un poliziotto. La gestione dell’ordine pubblico inquieta molto anche Amnesty International che ha lanciato l’allarme rispetto allo schieramento di forze massiccio messo in campo dal governo e dagli stati per evitare scontri durante la coppa. “Coloro che scenderanno in strada per manifestare rischiano di andare incontro a una violenza indiscriminata da parte della polizia e dell’esercito. Il comportamento inadeguato da parte di chi svolge funzioni di ordine pubblico, l’affidamento di tali compiti ai militari, l’assenza di addestramento e il clima d’impunità hanno prodotto una miscela pericolosa in cui gli unici a rimetterci sono i manifestanti pacifici“. Nel report vengono analizzate le violazioni dei diritti umani da parte delle forze di polizia. “Si va dall’uso indiscriminato dei gas lacrimogeni e delle pallottole di gomma contro manifestanti pacifici, agli arresti arbitrari e all’uso improprio della legge per fermare e punire le persone scese in strada. E si prevede che queste tattiche proseguiranno durante i Mondiali”. Questo mentre “il parlamento brasiliano sta esaminando una serie di proposte di legge che rischiano di limitare ulteriormente il diritto di manifestazione pacifica“.
Effetto sulla coppa
Nonostante tutto questo, e forse anche a causa di tanta violenza e repressione, l’appoggio alle manifestazioni, anche se non in strada, è rimasto comunque alto. La corruzione ha fatto arrabbiare, la speculazione ha tolto capacità di acquisto e ricchezza anche alla classe media, che sebbene non indigente, ormai deve far fronte a una crescita continua dei prezzi, soprattutto di affitti, che a Rio (complice la pacificazione delle favelas) ha raggiunto livelli incredibili. Il Brasile secondo uno studio pubblicato da un quotidiano francese, è il paese più tassato del mondo, ma è anche quello dove le tasse meno si percepiscono come ben spese. I trasporti affidati a poche ditte private cambiano solo nelle tariffe, aumentate più volte nel corso dell’ultimo anno. Privata è la sicurezza, la scuola di qualità, la sanità accettabile. Chi può permettersi questo almeno ha la possibilità di vivere, chi non può è fuori. Avere un buon posto di lavoro, anche nel settore pubblico, significa ottenere un’assicurazione privata per poter accedere a servizi privati, soprattutto la sanità, lasciando ai lavoratori poveri quella pubblica, la cui efficienza è stata definitivamente compromessa a causa della scarsità degli investimenti.
Per questo la protesta è avanzata per un anno, avendo l’appoggio anche in disparte di tutti. E non è difficile, parlando con i carioca, sentire opinioni forti, sentire chi ammette di gufare per la nazionale al mondiale, perché una sconfitta sarebbe la giusta punizione per un governo che ha puntato tutto su questo evento, e che ha speso in maniera poco trasparente miliardi di dollari destinati ad altri capitoli di bilancio. Il messaggio è chiaro: i brasiliani non si fanno più stordire dall’oppio calcistico. La corruzione, la politica di interesse proprio, sono presenti in tutto il mondo. Ma in Brasile i cittadini hanno deciso di ribellarsi, di urlare, di arrabbiarsi. Qualsiasi analisi venga fatta, e per quanto gli sponsor e le televisioni del mondo cerchino di raccontare il contrario, la festa è stata rovinata. L’immagine del Brasile, compromessa a causa delle numerose denunce e soprattutto delle manifestazioni che sono servite a veicolare il messaggio. Le strade si stanno colorando di verde oro, ma solo negli ultimi giorni a ridosso dell’inizio della coppa, e realmente molto meno rispetto al passato. Incredibilmente meno se si pensa che il mondiale è in Brasile. La voglia di festeggiare quello che si è contestato per un anno non c’è. Non a caso l’indice di gradimento dei mondiali è sceso dal 75% del 2008 al 48% del 2014. Ai brasiliani appare assurdo che il governo abbia speso 11 miliardi di dollari e mezzo, di cui circa 3,6 miliardi provenienti dall’erario pubblico, per allestire i mondiali quando nel paese mancano i servizi sociali fondamentali, dalla sanità alla scuola. Sarà pur vero che con i soldi spesi non si riusciva a costruire un sistema sanitario di qualità o una scuola con standard migliori, ma il fatto è che i Brasiliani hanno urlato che non è più concesso il totale arbitrio da parte della politica. La gente protesta, lotta, e questo è segno di vitalità di dignità e di amor proprio. Il problema, al massimo, è dove questo non succede.
Leggi “Brasile, luci e ombre della “pacificazione delle favelas”
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