Tempi di dannazione per «élite» ed «elitismo» e boati di disgusto per chi pronuncia quelle parole senza scherno e senza rendere omaggio alle «masse». Questi sono gli anni della «casta» e della diffusa repulsione che essa raccoglie nel mondo. Eppure la risposta a questa melmosa crisi delle «classi dirigenti» (altro concetto ora infetto, un tempo glorioso) potrebbe anche vedere una rivincita delle teorie di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, due italiani famosi nel mondo per le rispettive teorie, della «classe politica» il primo, delle «élites» il secondo: una minoranza di governanti al comando di una maggioranza di governati.
Il paradosso è stravagante solo per chi non abbia fatto attenzione alla rilevanza che quelle teorie non hanno mai smesso di avere negli studi politici, da quando uscirono Elementi di scienza politica nel 1896 e Systèmes socialistes nel 1904. Nel primo si affermava il principio che in ogni società è sempre soltanto una ristretta cerchia di persone che detiene il potere politico di contro a una maggioranza che ne è priva; nel secondo a questa classe politica si dà il nome di «classe superiore» o di «élite». Parole che non erano neutrali e connotavano positivamente questa minoranza, mentre esprimevano un sentimento negativo verso il socialismo allora emergente. Tuttavia la storia non finiva lì perché la teoria successivamente sviluppata dagli stessi iniziatori, e poi da Roberto Michels, con la sua «legge di ferro dell’oligarchia» ha mostrato di valere ben oltre gli usi politici conservatori, quando si è manifestato il potenziale emancipativo dei regimi democratici.
Non sorprende dunque che un giovane ricercatore riproponga oggi la teoria delle élites per la forza esplicativa che ancora manifesta in un brillante e analitico volume di storia delle idee (Giulio Azzolini. Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi nelle oligarchie nell’età globale, Laterza, 20€) ispirandosi ai successi che essa ha avuto in epoca democratica. Il principio organizzativo della vita sociale e istituzionale è implacabile: occorre una gerarchia e qualcuno che coordini e comandi, anche nelle forme più aperte di cooperazione. Michels usava il termine oligarchia, in maniera avalutativa, nell’analisi del partito socialdemocratico tedesco, e Azzolini tenta l’ardita impresa di riscattare la parola dal discredito in cui l’ha gettata la retorica corrente. «Tendenze oligarchica» (Pietro Ingrao) in politica continua a suonare come un insulto.
Eppure è chiaro a tutti i realisti democratici, da Joseph Schumpeter a Robert Dahl, da Norberto Bobbio a Giovanni Sartori (giganti della teoria politica contemporanea), passando per Lasswell, Aron, e arrivando fino alle generazioni successive dei Gianfranco Pasquino, Eva Etzioni Halevy e tanti altri contemporanei, che anche la democrazia prevede una minoranza ben organizzata che esercita il potere su una maggioranza, che è, al confronto, sparsa e meno organizzata. L’atto stesso di votare è un gesto elitista che delega e consegna il potere a una minoranza (Nadia Urbinati, Democrazia rappresentativa, Donzelli 2010).
L’idea di un governo diretto del popolo, attraverso le assemblee o i referendum, o addirittura il «cervello sociale» della rete (Casaleggio), non sono più che miti. Il «direttismo» (conio di Sartori) è una è una illusione – al di fuori di limitate popolazioni – perché suppone una competenza e una informazione dei cittadini, possibili solo in situazioni ideal-tipiche. Efficaci su alcune grandi opzioni binarie, sì o no, i referendum deludono quando applicati a materie complesse. Difficile oggi ripetere la formula elementare di Walter Bagehot, il classico ottocentesco della Costituzione inglese (1873), secondo cui quella che è «per abitudine o per scelta la maggioranza numerica della popolazione è contenta di delegare il potere a una minoranza scelta, di abdicare in favore di una élite educata e senza opposizioni». Rispetto ad allora non solo non si vedono più gioiose abdicazioni; non solo abbiamo riserve su quella «educazione» delle élite (Bagehot) o sulla qualità in generale dei quartieri alti della società, della politica e della burocrazia (Schumpeter). Il passaggio che ha creato lo sconquasso nelle relazioni tra governanti e governati è quello rappresentato dalla esplosione di un fattore che era rimasto implicito nella teoria delle élite: il nazionalismo metodologico, l’area nazionale statale in cui era concepito l’esercizio del potere.
Lo sfondo era delimitato perché il potere aveva confini, era «cartografico», mentre la globalizzazione, se vista in tutti i suoi aspetti, ha prodotto una deterritorializzazione, denazionalizzazione, fluidificazione del potere (Beck, Castells, Bauman) che lascia alle classi dirigenti «cartografiche» e alle loro campagne elettorali l’arduo compito di reggere la marea in condizioni di impotenza. Hanno qui le radici vari processi degenerativi, che muovono da ragioni obiettive e soggettive, di un’epoca in cui «ristabilire la visibilità delle frontiere serve a placare l’ansia». Muri ben radicati per terra sono la risposta, a volte politica, a volte solo retorica, di fronte al libero fluttuare di forze che appaiono minacciose e incontrollate. Di questi confini presidiati Manlio Graziano racconta la storia geopolitica, dalla pace di Westfalia al confine americano col Messico (Frontiere, Il Mulino, pp. 168, €13). L’implicito nazionalista – la lacuna – della teoria delle élites produce oggi una affannosa ricerca di barriere scaccia ansia e di protezionismo. Una terapia – spiega Graziano – il cui vizio consiste nel voler curare il «rallentamento dell’economia con un ulteriore rallentamento dell’economia». Gli «psicopatici delle linee di confine» sono sempre più numerosi nonostante la disconnessione delle ossessioni ideologiche dai fatti. Le espulsioni massicce di immigrati in difesa della purezza della nazione hanno storicamente provocato recessioni, accadde a Luigi XIV quando revocò l’editto di Nantes e cacciò dalla Francia duecentomila protestanti: erano buona parte dell’élite economica.
Articolo pubblicato su la Repubblica il 18/03/2017