Berlin, Petriplatz. Quando il dialogo interreligioso incontra l’architettura

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Una nuova iniziativa, tedesca, potrebbe far sì che Berlino diventi il centro europeo del dialogo tra le religioni e le culture. Si chiama Bet-und Lehrhaus Petriplatz, letteralmente “casa di preghiera e scuola”, o anche House of One, l’edificio che sorgerà nell’antica piazza di San Pietro nel centro di Berlino e che riunirà, sotto un solo tetto, cristiani, ebrei e musulmani. I fedeli, insieme a chiunque altro voglia, potranno frequentarlo per pregare, studiare, conoscersi in un clima di prossimità e di dialogo, in uno spazio che salvaguarderà l’identità di ognuno favorendo allo stesso tempo l’incontro e la collaborazione di chi vorrà recarvisi. È una sfida di cui Reset-Dialogues non poteva non parlare, perché ha il grande merito di riaccendere la speranza e la buona pratica del dialogo, in un’Europa che minacciata dai populismi e dalla violenza di vecchi e nuovi razzismi, dialoga a stento e, complice la crisi economica, sembra asfissiata dalla paura e dalla sfiducia in tutto ciò che è altro e diverso. Di questa sfida abbiamo parlato con Simona Malvezzi, architetto e cofondatrice, con Johannes e Wilfried Kuehn, dello studio berlinese Kuehn Malvezzi, vincitore del bando di concorso per la realizzazione del Bet- und Lehrhaus.

Come è nata l’idea di progettare un edificio che riunisse diverse religioni “sotto lo stesso tetto”?

L’impulso è venuto dalla comunità protestante di Berlino, a cui appartiene l’area in cui dovrebbe realizzarsi il nostro progetto, vincitore di un concorso bandito invece non da questa comunità bensì da un’associazione formatasi su iniziativa del prete Gregor Hohberg, il quale ha coinvolto sin dal principio le altre comunità religiose più importanti presenti in città, quella islamica e quella ebraica, con le quali un dialogo ‘interreligioso’ era già in atto da tempo.

Un altro impulso è venuto dalle autorità cittadine di Berlino, che hanno chiesto alla comunità protestante un suggerimento su che tipo di progetto si potesse realizzare in quest’area che è tra le più antiche di Berlino, anzi il luogo di origine della città di Berlino, chiamato Cölln. Infatti, l’edificio – che è ancora allo stato di progetto – si innesterà sulle fondamenta della chiesa neogotica di St. Petri, ultimo rifacimento di una serie di chiese distrutte e ricostruite partendo dalla prima antica costruzione gotica del 1230,. La chiesa neogotica fu distrutta alla finedella Seconda Guerra Mondiale e poi definitivamente abbattuta durante il comunismo nel 1964. Le sue fondamenta erano state coperte con un manto di cemento e, fino all’apertura degli scavi archeologici nel 2006, al suo posto sorgeva un parcheggio.

La riqualificazione dell’area avrebbe potuto dunque essere di tipo conservativo, semplicemente riportando alla luce le fondamenta della chiesa di San Pietro. Perché, secondo lei, questo interesse da parte delle autorità nel ‘costruire’ qualcosa di nuovo?

In questo momento storico, all’alba del Ventunesimo secolo, da parte della Germania e di Berlino in particolare, c’è la volontà da una parte di tornare a scoprire le origini, la storia di questi luoghi e di mostrare, in qualche modo, l’“archeologia” della propria identità attraverso la riscoperta delle fondamenta dell’antica chiesa di San Pietro; dall’altra, forse, proprio qui, dove un tempo sorgeva un monumento chiave dell’identità storica e spirituale della città, Berlino vuole rappresentare la propria identità contemporanea attraverso un edificio nuovo, che – come la città – sia unico ma che al suo interno conservi delle diversità, ed è proprio qui la complessità di questo progetto. Infatti, un aspetto fondamentale di questa iniziativa è che il progetto, sin da principio, doveva distinguersi dai soliti luoghi “multifunzionali” di culto diffusi per esempio negli aeroporti, dove c’è una stanza per tutti i culti. Qui, al contrario, la richiesta di preservare la diversità come fondamento di un dialogo era molto esplicita, perché l’obiettivo è quello di far fiorire dialogo tra le comunità in una reale dimensione di pluralismo, in cui diverse identità entrano in contatto l’una con l’altra, in uno spazio che le preservi nella loro differenza ma che allo stesso tempo le faccia incontrare. È proprio intorno a questa idea che il nostro progetto si è sviluppato.

Come hanno reagito comunità coinvolte nel progetto del Bet- und Lehrhaus?

La cosa interessante è che seppure questo dialogo tra i rappresentanti delle comunità era già in atto da anni, la vera attenzione da parte dei fedeli e della cittadinanza berlinese per il tema dei rapporti e del dialogo tra comunità è nata proprio nel momento in cui tale dialogo si è “concretizzato” in un progetto. Per quanto riguarda la comunità islamica, l’imam Kadir Sanci che partecipa al progetto è già da tempo impegnato nel dialogo interculturale ed è il direttore di un centro interculturale che ha sede a Berlino. Si è da subito mostrato molto interessato all’iniziativa, e lo stesso vale per il rabbino Tovia Ben-Chorin. Naturalmente ci sono state anche delle polemiche perché non tutti credono nel progetto e ritengono che il suo scopo sia impossibile da realizzare: non è ovviamente un progetto che può raccogliere il cento per cento dei consensi, perché come sappiamo anche il tema del dialogo tra religioni – ognuna delle quali difende una propria verità – è molto delicato.

È interessante però che tutti e tre i rappresentanti delle diverse fedi tendano a non mettere l’accento sul concetto di “religione”, quanto piuttosto su quelli di dialogo e di incontro. Dobbiamo ricordare che questo è certamente un luogo di preghiera, ma soprattutto un edificio pubblico e un centro di studi, nel quale è prevista anche una biblioteca delle religioni nella quale si potrà studiare e dove saranno organizzati incontri e conferenze.

E le reazioni dei fedeli? Avete fatto delle indagini in questo senso?

Dei contatti con i fedeli e con i membri delle tre comunità religiose rappresentate nel Bet- und Lehrhaus si occupano direttamente l’Imam, il rabbino e il parroco, in modo che le loro proposte per il miglioramento e il ‘raffinamento’ di tutti i dettagli del progetto definitivo siano anch’esse generate in un clima di dialogo e reciprocità. Per quanto riguarda noi architetti, come ho spiegato, siamo in constante dialogo con i tre rappresentanti, che insieme ad altri, si sono riuniti in un’ associazione, fondata appositamente per la promozione e poi per lo sviluppo del progetto. In questo caso, noi architetti siamo un po’ lo ‘strumento’ per la realizzazione architettonica di questo dialogo continuo tra comunità, fedeli, cittadini e autorità. Sono convinta che progetti di questo tipo possano nascere e avere senso se già a monte esiste un’esigenza e una pratica del dialogo, sta poi a noi architetti saperla interpretare e realizzare in un progetto che sappia soddisfare, e soprattutto avvicinare tutti coloro che vi sono coinvolti: in questo caso non solo i fedeli, ma tutti i cittadini, e, perché no, i turisti e i visitatori per i quali un edificio di questo tipo sarà sicuramente una sorpresa.

Perché il vostro interesse per il progetto?

Da una parte, ci interessava perché si tratta di un progetto molto urbano, che investe sulla rinascita di un’area del centro storico di Berlino che al momento versa ancora in uno stato di grande decadenza. È circondata infatti da una grande strada trafficata e dai grandi edifici residenziali prefabbricati della DDR, perché ci troviamo nella zona est della città. Dall’altra, naturalmente, ci siamo entusiasmati per la possibilità di progettare un edificio innovativo e che segni la presenza e l’identità non solo delle tre comunità rappresentate, ma anche della Berlino (e forse dell’Europa) del ventunesimo secolo, in cui ebrei, musulmani – che a Berlino sono soprattutto turchi – e cristiani convivono. Più che un edificio puramente religioso, si tratta quindi di un edificio “complesso” e con diverse valenze simboliche e pratiche per sostenere e favorire una dimensione, anche spaziale, di confronto interreligioso.

Concretamente, quando sarà realizzato l’edificio?

Non lo sappiamo ancora, è in corso di attivazione un sistema di crowd-funding, in modo che il finanziamento della costruzione possa essere pienamente democratico, e non legato alla generosità o agli interessi di un mecenate, perché una situazione del genere entrerebbe naturalmente in contraddizione con l’idea di pluralismo e orizzontalità insita nel progetto.

È interessante il fatto che, oltre alla costruzione di un edificio, qui ne vada anche dell’identità di Berlino stessa, una città policentrica che talvolta sembra ancora dover trovare una propria identità dopo la caduta del muro…

È vero. Inoltre, Berlino è una città molto laica e progressista, ed è naturale chiedersi perché ora, proprio qui, sia nata l’esigenza di investire su un grande progetto legato alla religione. A mio avviso la questione ha un grande rilievo politico, legato al bisogno di segnare e di rappresentare la presenza molto forte delle tre comunità religiose a Berlino e in Germania, ma di farlo da un punto di partenza che sottolinei con decisione le dimensioni dell’incontro, della prossimità, della collaborazione e della mutualità, ma anche della conoscenza reciproca: non a caso si tratta di un luogo di preghiera e di “studio”. Come spiegavo, il dialogo tra gli “alti” rappresentanti delle singole comunità già esisteva, ma ora che esso sembra potersi concretizzare in qualcosa di tangibile, in un progetto per tutti, l’entusiasmo per la collaborazione e l’interesse a dare ognuno il proprio contributo alla riuscita del progetto si sono fatti ancora più forti all’interno delle comunità e della cittadinanza tutta.

Il video Haus der Drei Religionen di Armin Linke.

Vi siete ispirati a edifici di questo genere che già esistono? Ma esistono?

Non esistono: il Bet-und Lehrhaus è il primo edificio di questo tipo al mondo. Per ora, appunto, esistono degli spazi “multireligiosi” che però non hanno una definizione simbolica precisa. Sono delle stanze ibride e multifunzionali, come per esempio la Rothko Chapel, e le stanze di raccoglimento sempre più diffuse all’interno degli aeroporti o degli ospedali.

Perché il progetto è pensato per queste tre comunità religiose e non per le altre, che comunque, seppur minoritarie, immagino siano presenti in una grande città come Berlino?

L’idea è di rappresentare le tre religioni monoteiste presenti da più tempo a Berlino, poiché non solo hanno qui una presenza demografica molto forte, ma anche perché esse stesse hanno plasmato e stanno definendo uno dei volti della Berlino del ventunesimo secolo, crocevia di culture e fedi che convivono e si incontrano. Però l’edificio vuole essere uno spazio aperto a tutti, dal buddista al laico in cerca di raccoglimento e studio. Infatti c’è una grande sala centrale alla quale si accede direttamente dall’entrata principale del monumento: ricorda lo spazio del Pantheon di Roma, con la sua dimensione di luogo “pubblico” coperto ma aperto. In questa grande sala centrale, la cui forma è – come nel il Pantheon – quella universale del cerchio, saranno organizzate conferenze e dibattiti, e proprio a partire da essa si potrà accedere ai tre luoghi di culto. Più in alto ci sarà la biblioteca, mentre in cima all’edificio, a sovrastare la grande sala, abbiamo concepito una sorta di grande loggia urbana dalla quale si potrà vedere tutta Berlino. Inoltre, i promotori del bando di concorso volevano che questo fosse anche un luogo di silenzio aperto a tutti, che in qualche modo si distaccasse dal contesto caotico della città, aperto a tutti.

L’idea assomiglia a quella di una piazza classica, lo “spazio pubblico” per antonomasia, sul quale si affaccino i tre luoghi di culto…

È vero, infatti ci siamo ispirati anche a una pianta di Roma del 1748 di Giovan Battista Nolli, in cui la città è rappresentata come una massa omogenea nera, mentre tutti gli edifici e gli spazi pubblici come le piazze sembrano scavati, in bianco, al suo interno. Noi siamo partiti proprio da questa idea, classicissima: il nostro edificio è come se fosse una piccola città, con una piazza centrale tonda da cui si può accedere alle tre “case” delle tre diverse religioni, uno spazio pubblico condiviso, aperto e coperto.

Questo si comprende guardando l’edificio dall’esterno?

No, da fuori non si comprende esattamente la natura dell’edificio, perché volutamente non ci sono elementi che richiamino in maniera troppo risolutiva la simbologia le tre religioni in esso rappresentate. Né campanili, né minareti, né altro. La richiesta specifica del bando era che si potessero intuire le tre diversità nell’universalità. Certamente c’è anche un effetto “sorpresa” per chi viene da fuori.

E i tre spazi “religiosi” invece? Nell’architettura e nelle decorazioni, almeno al loro interno, seguono dei canoni classici?

Sì. Per esempio, la moschea è orientata verso la Mecca, la Sinagoga verso Gerusalemme, e entrambe hanno gli spazi dedicati alle donne. Un altro elemento è la luce, molto importante nel progetto, poiché essa – qui ricavata con dei tagli di diverso tipo all’interno delle pareti – ricopre un importante ruolo simbolico in tutte le religioni. Per quanto riguarda le decorazioni vere e proprie di ogni spazio è in corso un dialogo con i rappresentanti delle tre comunità, anche per rendere esecutivo e quantificabile il progetto, soprattutto per la ricerca di fondi.

Secondo lei, per quale motivo ha vinto il vostro progetto?

Forse siamo riusciti a vincere questo bando proprio perché nel nostro progetto la rappresentazione spaziale e architettonica delle tre religioni avviene rigorosamente sullo stesso piano, in una dimensione estetica di spiritualità diffusa e ‘universale’ che – questo nella nostra idea – le coinvolga tutte pur preservando le differenze e le identità di ognuna. La verticalità dunque esiste nel nostro progetto, ma non è una verticalità volta a definire una gerarchia tra i tre luoghi di culto – come invece accadeva in altri progetti che hanno partecipato al bando – quanto piuttosto una verticalità spirituale, religiosa, rispetto alla quale le tre fedi possano identificarsi in una dimensione di pari dignità e reciprocità. Per questo non abbiamo costruito torri o altro: al contrario, l’aspetto esterno dell’edificio è il risultato diretto del graduale ‘crescendo’ di volumi interni che culmina nel volume più alto che però si relaziona pariteticamente con ognuno dei luoghi di culto, nonché con il grande spazio centrale che essi condividono. Inoltre, la costruzione realizzata interamente in mattoni all’ interno e all’ esterno darà l’impressione di un blocco unico, di un monolite, scavato al suo interno.

Una volta realizzato, il Bet- und Lehrhaus come si collocherà nel contesto urbano di Berlino? Avete coinvolto anche degli urbanisti?

In questo caso – come del resto in molti altri progetti del nostro studio – gli urbanisti siamo noi stessi. Per noi l’architettura, anche quando progettiamo l’allestimento di una mostra, deve sempre presupporre un ragionamento di tipo ‘urbanistico’ che deve prendere in considerazione il ‘modello’ di città in cui il progetto viene a collocarsi. Prima accennavo alla pianta di Roma del Nolli e alla sua rappresentazione della città come costellazione di spazi pubblici in relazione tra loro: è a questa idea che anche noi ci ispiriamo nel progettare un monumento o uno spazio che deve prendere forma in un contesto urbano, perché siamo convinti che certe relazioni debbano avvenire – e comunque essere prese in considerazione – per forza, soprattutto quando si parla di progetti dal forte impatto estetico o simbolico da costruire in luoghi nevralgici della città, come l’area in cui verrà costruito il Bet- und Lehrhaus. In questo senso siamo degli ‘urbanisti’, seppur non nell’accezione classica del termine.

Naturalmente ci interessa molto anche il dibattito pubblico intorno a progetti di questo tipo, come anche il cosiddetto ‘display politico’. Per esempio, tempo fa partecipammo a un concorso per l’ambasciata tedesca a Belgrado. Era prevista la demolizione dell’ ambasciata esistente, un edificio costruito nei primi anni Settanta, con una facciata brutalista in cemento armato dal forte impatto visivo. Ritenemmo importante invece che la facciata fosse conservata per il suo valore architettonico legato anche alla storia politica della svolta distensiva che dal 1968 in poi ha segnato la politica della Repubblica Federale Tedesca nei confronti dei paesi socialisti; la facciata fu costruita proprio perché l’allora Cancelliere Willy Brandt, in questa logica di apertura, aveva cominciato a finanziare e sostenere le relazioni diplomatiche anche con quei paesi che riconoscevano la Germania dell’Est come paese sovrano. La facciata dell’edificio di Belgrado ha quindi un valore storico, e sicuramente simbolico, per il suo aspetto e per la sua collocazione geografica. Di questa dimensione politica dell’architettura , secondo noi fondamentale, abbiamo voluto tener conto, proprio come nel progetto della Bet- und Lehrhaus – una ‘casa’ che accolga in sé le tre religioni monoteistiche in una dimensione di orizzontalità e dialogo – e, soprattutto non potevamo non tener conto dell´importante valore simbolico e pratico di questa iniziativanel mondo di oggi.

Guarda il video Haus der Drei Religionen di Armin Linke

 

Vai a www.resetdoc.org

House of One – la campagna di raccolta fondi per realizzare il progetto Bet- und Lehrhaus

Kuehn Malvezzi è stata fondata a Berlino nel 2001 dagli architetti Simona Malvezzi, Wilfried Kuehn e Johannes Kuehn. Musei e spazi espositivi sono al centro della loro ricerca progettuale. Hanno disegnato l´architettura  per Documenta 11 a Kassel curata da Okwui Enwezor (2002), l’ampliamento dell’Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart per la Friedrich Christian Flick Collection (2004), e la  Julia Stoschek Collection di Düsseldorf (2007). Attualmente  Kuehn Malvezzi, oltre  ad aver completato l´ampliamento del Museum Berggruen a Berlino, sta portando a termine la nuova presentazione della collezione del museo Herzog Anton Ulrich a Braunschweig, la Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen e il Kunstgewerbemuseum a  Berlino. Il loro lavoro è stato apprezzato a livello internazionale in mostre personali e collettive, come per esempio il Padiglione Tedesco della X Biennale di Architettura di Venezia nel 2006. Nel 2012 sono stati invitati  a partecipare alla XIII Biennale di Architettura di Venezia nella mostra principale dal titolo “Common Ground”. Inoltre sono stati nominati per il Mies van der Rohe Award con il progetto per la Julia Stoscheck Collection.

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