Bahrein, la primavera continua. Arrivano le denunce sui diritti umani

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Minuscolo e spesso trascurato dalla stampa internazionale, se non in occasione del Gran Premio di Formula 1, il Regno del Bahrein è in fermento. Da tre anni, nel solco delle primavere arabe, si susseguono le manifestazioni contro il regime dei Khalifa, la dinastia sunnita che guida il regno a maggioranza sciita da quasi due secoli e che sta mostrando i muscoli con i dissidenti. La repressione delle piazze è sistematica, avallata dall’approvazione di leggi liberticide, e mina il complicato dialogo nazionale iniziato un anno fa, ha denunciato l’organizzazione statunitense per la difesa dei diritti umani Human Rights Watch (HRW) nel suo rapporto appena pubblicato.

L’opposizione è tornata nelle piazze del regno a fine gennaio, per chiedere libertà di espressione e un governo rappresentativo del popolo, ma anche per celebrare il prossimo anniversario dell’inizio delle proteste, il 14 febbraio. Intanto, la casa reale negli ultimi giorni ha rilanciato il dialogo nazionale, dopo un lungo stallo, incontrando la cauta apertura di un’opposizione che negli ultimi tre anni ha visto diversi suoi esponenti finire dietro le sbarre con accuse di terrorismo. Nonostante le gravi violazioni dei diritti civili e umani, questo piccolo arcipelago che si affaccia sul Golfo Persico, stretto alleato di Riad e Washington, resta lontano dai riflettori. La comunità internazionale, ha fatto notare HRW, si è limitata a risoluzioni di condanna (due del Parlamento europeo e una, lo scorso settembre, del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite) senza esercitare reali pressioni su Manama per il rilascio dei detenuti politici. Inoltre, lo scorso aprile il governo per la seconda volta ha rinviato a data da destinarsi la visita dell’inviato speciale dell’Onu sulle torture Juan Mendez.

Il Bahrein ha un ruolo strategico rilevante nella regione e può contare sul sostegno delle monarchie della penisola arabica, oltre a essere il bastione dell’Occidente contro le mire espansionistiche di Teheran: ospita la V Flotta della marina Usa, quella impegnata nel conflitto in Afghanistan, e si trova al centro del confronto tra due potenze regionali, l’Iran sciita e il regno sunnita dei Saud. Le stesse proteste hanno preso una piega settaria in un Paese da sempre segnato da tensioni religiose, con gli sciiti che scendono in piazza per denunciare discriminazioni e vessazioni, e il tentativo di rovesciare la composizione demografica del regno concedendo la cittadinanza agli immigrati sunniti. Il governo, dal canto suo, accusa l’opposizione, rappresentata soprattutto dal blocco sciita Wefaq (i partiti sono vietati), di essere una pedina nelle mani di Teheran e i manifestanti di essere terroristi.

La protesta

Per circa un mese, dal 15 febbraio alla metà di marzo del 2011, piazza della Perla, nella capitale Manama, è diventata il teatro di una grande sollevazione pacifica. Migliaia di persone, sciiti e sunniti insieme, chiedevano riforme politiche ed economiche e le donne sfilavano per le strade rivendicando i loro diritti, ma la risposta del governo, dominato dai Khalifa, è stata una dura repressione, con il suo carico di morti e feriti i cui numeri sono ancora incerti e un giro di vite tra gli oppositori che ha portato in carcere, con pene pesantissime, persino i medici e gli infermieri che avevano soccorso i manifestanti sgomberati con la forza dalla piazza. Sono stati arrestati e torturati, alcuni di loro sono spariti, perché avrebbero potuto fornire “le prove delle atrocità commesse dalle forze di sicurezza”, spiega HRW. Ed è stato il Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG), sorta di Nato dei Paesi della Penisola arabica dominato dall’Arabia Saudita, a dare man forte ai Khalifa inviando le sue truppe (formate da soldati sauditi, qatarioti e degli Emirati arabi) a sedare le rivolte: dal 14 marzo 2011 è iniziato l’attacco ai manifestanti in presidio da settimane in piazza della Perla, mentre il sovrano Hamad bin Isa Al Khalifa proclamava la legge marziale e il governo imponeva la chiusura del quotidiano Al Wasat, colpevole di avere criticato l’esecutivo. Le truppe del CCG si sono ritirate nell’estate di quell’anno, lasciando dietro di sé una scia di sangue e di abusi, commessi da forze di sicurezza composte in maggioranza da mercenari sunniti, tali da spingere lo stesso re Hamad a nominare una commissione d’inchiesta: la Bahrain Independent Commission of Inquiry (BICI) ha stabilito che tra febbraio e marzo del 2011 c’è stata una sistematica violazione dei diritti dei manifestanti e contro gli arrestati è stata usata la tortura fisica e psicologica, ma non ha fatto i nomi dei colpevoli.

In Bahrein le proteste non si sono mai fermate e da tre anni il regno è in fibrillazione. Ai gruppi politici già presenti, come Wefaq, Haq Movement e Bahrein Freedom Movement, si sono aggiunti nuovi movimenti, come la Coalizione del 14 Febbraio e il Tamarod-Bahrein, gemello di quello egiziano. Le sollevazioni sono avvenute soprattutto nei villaggi sciiti, e la risposta delle autorità è stata brutale. Le organizzazioni Bahrain Center for Human Rights (BCHR) e Bahrain Youth Society for Human Rights (BYSHR) hanno accusato l’esecutivo di alimentare il settarismo con azioni violente durante le cerimonie sacre, come accaduto durante le celebrazioni della festa religiosa dell’Ashura, lo scorso novembre: la polizia ha disperso raduni di fedeli nella capitale e nel villaggio di Nuwaidrat e le autorità hanno oscurato un sito internet che trasmetteva la cerimonia in 30 località del Paese. In un documento congiunto, le due organizzazioni hanno riportato i casi di attacchi ad opera della polizia nei villaggi e nei sobborghi sciiti: dal febbraio del 2011 sono state demolite 25 moschee e 18 sale di preghiera sciite. Ma anche la dissidenza si è talvolta espressa con la forza: ci sono stati attacchi con bombe molotov e ordigni rudimentali contro commissariati e forze di sicurezza nei villaggi sciiti, e anche autobombe contro i luoghi di culto e di potere dei sunniti.

Le tappe della repressione

Il regno non è affatto pacificato, al contrario la stretta repressiva del governo di Manama è stata inesorabile, mentre le riforme annunciate dall’esecutivo e dal sovrano non ci sono state né sono stati perseguiti gli autori di torture e maltrattamenti, perpetrati anche su minorenni. “Sembra che le autorità bahreinite pensino di ottenere la pace e la stabilità con gli arresti e le torture”, ha detto Joe Stork, vicedirettore di HRW per il Medio Oriente e il Nord Africa, “I discorsi sulle riforme sono una beffa quando i critici del governo sono etichettati come terroristi e tenuti in prigione”. Infatti, sono numerosi i casi di arresti arbitrari, processi farsa, verdetti iniqui denunciati nel rapporto di Human Rights Watch.

Lo scorso settembre cinquanta attivisti sciiti sono stati condannati a un totale di 430 anni di reclusione per reati di terrorismo, “confessati” dagli stessi imputati, nell’ambito del processo ‘Coalizione del 14 febbraio’. Tra loro ci sono anche due minorenni: Jihad Sadeq, 17, e Mohammed Al Meqdad,16, sono stati condannati a scontare dieci anni in un carcere per adulti. Erano stati fermati il 23 luglio del 2012 e trattenuti per 48 ore senza potere contattare le famiglie né un legale. Entrambi hanno dichiarato di essere stati torturati e costretti a confessare di avere bruciato un’auto della polizia, di stare pianificando un omicidio e di altri reati che rientrano nella legge anti-terrorismo. Nell’ambito dello stesso processo è stato condannato a 15 anni l’avvocato Naji Fateel che ha dichiarato a HRW di essere stato sottoposto a elettroshock mentre era in custodia cautelare. “Dal momento in cui gli imputati sono stati sequestrati, torturati e condannati, nulla è andato secondo le regole del diritto internazionale”, ha commentato all’indomani del verdetto il presidente del BCHR, Maryam Al Khawaja, “Se cinquanta persone erano davvero colpevoli dei crimini di cui le hanno accusate, come mai le uniche prove presentate sono state le confessioni estorte sotto tortura? È un processo vergognoso, un verdetto politico, dovrebbero rilasciarli tutti immediatamente”. La giustizia bahreinita ha usato invece molta clemenza nel caso di due poliziotti che hanno picchiato a morte un detenuto: pena ridotta da dieci a due anni di reclusione.

Leggi liberticide

Intanto, negli ultimi tre anni sono state approvate una serie di leggi liberticide. Dallo scorso agosto le manifestazioni devono essere autorizzate per iscritto e le autorità possono decidere i tempi e i luoghi delle proteste, e persino il numero di partecipanti: di fatto è stato sospeso il diritto di riunirsi. Gli esponenti dei movimenti politici devono chiedere l’autorizzazione al governo per incontrare diplomatici stranieri in Bahrein e all’estero, e devono sempre essere accompagnati da un funzionario degli Esteri. Sono state inasprite le pene (da due a cinque anni) per il reato di oltraggio al re e nel pacchetto di norme anti-terrorismo c’è pure il carcere “per negligenza” (fino a un anno) per i genitori di minorenni che commettono “atti terroristici”.

Basta poco per finire in manette: un commento sulla famiglia reale interpretato come un insulto, la richiesta di riforme o la denuncia delle violenze, come accaduto nel caso di Khalil al Marzooq, assistente del segretario generale di Wefaq, che lo scorso settembre è stato arrestato per avere denunciato durante un comizio le violenze del regime. Il suo arresto ha bloccato il dialogo nazionale aperto nel febbraio del 2013 e ripreso di recente su iniziativa del principe ereditario Salman bin Hamad al Khalifa, l’anima più moderata del clan Khalifa, che ha incontrato i leader dell’opposizione. Un piccolo spiraglio accolto con “cauto ottimismo”, poiché questa volta la casa reale, che ha l’ultima parola su tutto, partecipa al negoziato. Sono cinque i punti in discussione, che riguardano soprattutto la riforma dell’ordinamento politico, della rappresentanza dei cittadini e del ruolo della casa reale. Nel 2002 il sultanato divenne una monarchia costituzionale, ma queste riforme calate dall’alto non hanno minacciato l’oligarchia sunnita e la dinastia Khalifa, né lo hanno fatto i buoni risultati elettorali dei partiti sciiti, poiché è sempre il Consiglio della Shura, di nomina regia (la Camera bassa è eletta), a detenere effettivamente il potere esercitando il diritto di veto sulle proposte di legge. “Non siamo sopraffatti da questo cambiamento (l’iniziativa del principe ereditario, n.d.r.)”, ha commentato Khalil al Marzooq, scarcerato su cauzione, “tuttavia siamo aperti a discutere di una soluzione e siamo pronti a collaborare”.

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