Ancora qualche giorno e il piccolo sultanato del Bahrain tornerà a far parlare di sé, seppure per poco, per la lunga odissea giudiziaria che ha per protagonista l’attivista Nabeel Rajab.
Presidente del Bahrain center for human rights, Rajab rappresenta la punta di un iceberg che i regnanti al-Khalifa non sono mai riusciti ad affondare, nonostante la metodica persecuzione delle voci dissenzienti attuata nel Paese: è così che il regno a guida sunnita, e a maggioranza sciita, ha scongiurato la Primavera democratica, dopo la massiccia rivolta del febbraio 2011.
Il prossimo 11 settembre – salvo ulteriori rinvii – avrà luogo l’ennesima udienza di uno dei processi che vedono Rajab imputato: in esso, l’attivista è accusato di «aver diffuso false voci in tempo di guerra, di aver insultato un Paese vicino e un’istituzione dello Stato». Tutto questo mediante tweet e re-tweet riguardanti l’intervento militare a guida saudita in Yemen e le torture inferte ai carcerati nella prigione di Jaw, a Sud di Manama. Il processo ha avuto inizio nell’aprile del 2015, dopo l’arresto dell’attivista e la sua detenzione preventiva per tre mesi. Rilasciato per motivi di salute, Rajab è stato poi nuovamente arrestato nel giugno 2016: dopo nove mesi in isolamento, nell’aprile di quest’anno è stato trasferito presso una struttura ospedaliera gestita dal ministero dell’Interno. Le sue condizioni di salute sono critiche. Tuttavia, altri procedimenti lo attendono. Due riguardano un editoriale pubblicato sul New York Times il 4 settembre 2016 e un articolo pubblicato su Le Monde il 19 dicembre 2016: la guerra yemenita, lo strapotere saudita nella regione, la violazione dei diritti umani in Bahrain sono argomenti “delicati” che Rajab non ha mai temuto di trattare.
Nel frattempo, il 10 luglio 2017 l’attivista è stato condannato a due anni di reclusione in relazione ad alcune interviste concesse a emittenti tv straniere sempre sul tema delle libertà fondamentali e della politica estera bahrainita: riconosciuto colpevole di «screditare il prestigio del Paese», l’uomo è stato giudicato in absentia.
La sua vicenda di certo non offusca quella ancora più drammatica di Abdulhadi al-Khawaja, condannato all’ergastolo nel 2012.
Messo sotto accusa da svariate organizzazioni non governative, il sultanato si difende mediante una campagna di comunicazione soppesata, ma poco originale, che batte sullo spettro contemporaneo per eccellenza: il terrorismo. Il rafforzamento dei poteri dell’Agenzia nazionale per la sicurezza (i servizi segreti) sarebbe dunque motivato proprio dall’emergenza sicurezza.
L’attivista Ebtisam al-Sayegh, che ha denunciato lo stupro e le torture subite da un’altra attivista, è stata arrestata grazie alle leggi emergenziali. Sono vittime della legislazione anti-terrorismo anche l’unico quotidiano indipendente del regno e il maggiore partito di opposizione, che hanno chiuso i battenti quest’anno.
Tutto ciò non pare inquietare i maggiori sostenitori degli al-Khalifa: dal 2012 a oggi, il Regno Unito ha investito oltre 5 milioni di sterline nell’addestramento degli agenti bahrainiti. I generali del sultanato ricambiano i favori britannici recandosi regolarmente a Londra per acquistare armamenti: così anche quest’anno, in occasione della Fiera Dsei – Defence and security equipment international.
Ma è poi vero che il Paese dei due mari (questo è il significato della parola bahrain in arabo) è strategico per il blocco sunnita e il mondo occidentale?
Fedele alleato dei Saud, il sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa promuove, al pari dei suoi predecessori, il wahhabismo in aperto contrasto allo sciismo (maggioritario) e alla minoranza ismaelita. E conferma un orientamento filo-occidentale ospitando una base navale statunitense (la Quinta flotta) sotto il naso del nemico assoluto, l’Iran. Il Bahrain come appendice dell’Arabia Saudita, insomma, nel contenimento di Tehran.
Non mancano però i detrattori di Manama quanto a effettivo peso politico: secondo questa prospettiva di analisi, per l’Iran l’accendersi di una ribellione riformista in Bahrain rappresenterebbe solo un grattacapo, un virus da tenere a tutti i costi fuori dalla porta. Perché mai, allora, supportare gli hezbollah libanesi sciiti – come sostengono le autorità del principato – nel loro tentativo di destabilizzare il Bahrain?
Periodicamente gli al-Khalifa lanciano l’allarme per presunte interferenze iraniane.
Dalla tarda primavera, però, l’avversario numero uno di Manama è diventata Doha: il Bahrain è uno dei Paesi boicottatori del Qatar – al fianco di Arabia Saudita, Egitto e Yemen – accusato di destabilizzare l’area finanziando diversi movimenti jihadisti e di “flirtare” con l’Iran.
La stretta contro i dirimpettai è avvenuta contemporaneamente a una nuova ondata di arresti arbitrari (sono 60 i cittadini accusati di recente di affiliazione a un gruppo terroristico), come se gli al-Khalifa avessero riguadagnato fiducia nella tenuta del proprio casato, al potere da 200 anni. Sembrerebbe quasi che, da lontano, fosse giunta “carta bianca”.
E di fatto, è successo così: sotto la presidenza americana di Barack Obama, la vendita di armi al sultanato è stata vincolata a (timidi) passi in avanti in materia di pluralismo politico; all’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, invece, la questione “diritti umani” è stata stralciata. Senza giri di parole e pubblicamente.
Con il risultato che anche il più piccolo dei regni mediorientali ora può sentirsi ago della bilancia fra i pesi massimi della politica regionale.
E la sua leadership ammutolire il dibattito politico interno senza conseguenze di sorta, all’ombra dei padrini di Riyadh.