Da Reset-Dialogues on Civilizations
L’11 settembre il premio della giuria al Festival dei giornalisti del Mediterraneo di Otranto è stato assegnato a Asmae Dachan, giornalista italo-siriana, nata ad Ancona da genitori di Aleppo. Un riconoscimento non solo per il suo reportage da Molenbeek, il quartiere dei terroristi delle stragi di Parigi e Bruxelles, pubblicato su Panorama, ma per il suo impegno quotidiano per la pace, il dialogo, e la voglia di non spegnere la luce sulle conseguenze della guerra in Siria per i civili.
È un premio che mi onora e mi rende molto felice perché riconosce questo tipo di inchiesta: non si è trattato di un servizio “di pancia”, e nemmeno di un lavoro fatto a distanza, ma realizzato camminando in mezzo alla gente dei quartieri dove hanno vissuto gli attentatori, e dove poi si sono nascosti. Sentire le reazioni delle persone ti fa capire che non bisogna generalizzare, che lì si vive con lo stesso terrore che viviamo noi da lontano, ma che allo stesso tempo esistono per questi attentatori delle reti di complici abbastanza invisibili ma assolutamente innegabili.
A Molenbeek provi a capire cosa spinga un giovane nato e cresciuto in Europa a diventare un terrorista: che risposte ti sei data?
La risposta è che è difficilissimo trovare una risposta. Ho provato ad entrare nella mentalità di un giovane che nasce e vive in un contesto di pace, dove gli viene garantita la libertà, dove non viene malmenato come invece accade magari nel paese d’origine, suo o dei genitori, o dei nonni, e che non riesce comunque a godere di questa pace perché ha un’insoddisfazione personale. Questo non significa necessariamente che sia un giovane povero, ma magari non si sente riconosciuto, inserito nella società, non si sente parte di nulla. E io penso che la cosa preoccupante sia proprio questa: sentire di non avere nulla da perdere porta questi giovani a diventare delle facili pedine di organizzazioni criminali, perché dobbiamo ricordare che gli esecutori di questi attentati sono magari dei ragazzi comuni, ma le menti pensanti sono in giacca e cravatta.
Da musulmana praticante, cosa provi quando la tua religione viene accostata alla parola terrorismo?
Sdoganando il termine “terrorismo islamico” si sta facendo esattamente ciò che vogliono i terroristi. Oggi per loro l’Islam è diventato un brand. Tutte le loro malefatte sono associate a questo brand, allo scopo di vendere propaganda, e darsi una parvenza di credibilità su qualcosa che è assolutamente assurdo. Come musulmana inorridisco ogni volta che questi terroristi, questi seminatori di morte e di odio usano il nostro nome, perché per me è una bestemmia vera e propria; come giornalista sono altrettanto indignata quando l’informazione fa il loro gioco sdoganando questi termini, perché processiamo un’intera comunità di oltre un miliardo di persone nel mondo per qualcosa di criminale che non rappresenta assolutamente la quotidianità e il sentire dei musulmani.
Come cerchi di combattere la disinformazione sul mondo islamico, e mantenere accesi i riflettori sul conflitto siriano?
Con l’arma della parola e dell’impegno costante e quotidiano per non cedere alle provocazioni, non scadere nella polemica. Continuo a parlare a voce bassa e a vivere la normalità della vita alla luce del sole, nella legalità e nel rispetto degli altri, e penso sia la più bella e onesta condanna al terrorismo e al pregiudizio. Per quanto riguarda la guerra in Siria, dopo sei anni c’è quasi una sorta di assuefazione mediatica, ed è difficile continuare a parlare quotidianamente della Siria. Oggi si assiste a una narrazione del piano politico e diplomatico, mentre non si sente la voce dal basso dei siriani, che pure esiste, perché se è vero che noi giornalisti non possiamo più entrare da diverso tempo, è altrettanto vero che si è sviluppata una forma bellissima di citizen journalism, che permette a tanti colleghi di realizzare dei reportage, dei video, anche semplicemente delle interviste e delle fotografie e condividerle in rete. Ogni giorno abbiamo un flusso di informazioni importanti che arriva dalla Siria, anche se chiaramente bisogna filtrarlo perché c’è pure tanta propaganda. Negli ultimi giorni molti medici, grazie all’intervento di questi giornalisti, hanno denunciato il fatto di aver accolto nei propri ospedali da campo civili fra i quali bambini feriti dai bombardamenti con armi al cloro e al fosforo: ecco, questa dovrebbe essere una notizia d’apertura, dovrebbe indignarci. Quotidianamente facciamo vedere che cosa ha detto il terrorista di turno e non facciamo sentire le voci di denuncia. Fa rabbia, ma dobbiamo anche ricordarci che se una notizia non trova spazio nei canali tradizionali di informazione possiamo crearcene di nuovi. (Il blog di Asmae Dachan è www.diariodisiria.com)
Sei stata ad Aleppo nel 2013 e hai documentato la situazione, già gravissima allora. Cosa resta, oggi, di Aleppo?
Soprattutto in quest’ultimo anno e mezzo Aleppo ha subito dei bombardamenti scellerati, devastanti, che ne hanno mutato aspetto e demografia. Prima della guerra contava tre milioni e mezzo di abitanti, quattro con la periferia, oggi sono rimaste, nei quartieri assediati, solo 300 mila persone. Molti sono fuggiti, molti sono morti. Quello che resta di Aleppo è sicuramente la sua storia millenaria perché è e resterà per sempre la più antica città del mondo, la più antica metropoli. Resta la cultura, lo spirito di un popolo che nel 2011 non chiedeva altro che riforme e libertà. Aleppo oggi sta morendo: pensiamo agli ospedali che sono stati quasi tutti bombardati, persino l’ultima banca del sangue, alle migliaia di medici che c’erano, e che oggi si contano sulle dita. È una città che sta cercando di sopravvivere alla situazione. Ma quello che mi preoccupa di più, quando un giorno finirà questo massacro, non è tanto la ricostruzione fisica di Aleppo o di tutto il resto della Siria, quanto la ricostruzione di quella coesione sociale che nonostante tutte le difficoltà che viveva il popolo siriano esisteva.
C’erano tante etnie, tante religioni che vivevano in armonia, si rispettavano reciprocamente. Oggi si rischia che con il prolungarsi di questo conflitto aumentino le ostilità, aumenti il desiderio di vendetta, perché rimettere in pace gli animi di persone che in questo momento si stanno combattendo non sarà facile.
Molti sono fuggiti, e non solo da Aleppo: cosa ne pensi della strada che sta prendendo l’Europa in fatto di immigrazione?
Per molti paesi l’Europa è un modello di riferimento, a livello di rispetto dei diritti umani e dell’armonia tra diversi, perché è un continente che raccoglie persone che parlano lingue diverse, che fino a cinquanta, sessant’anni fa si sono anche fatte la guerra, ma che poi hanno deciso di sedersi a un tavolo per negoziare, per costruire un’Europa che attualmente è più economica che dei popoli. Mi rattrista vederla mortificata nella sua storia perché ad esempio un paese come la Grecia storicamente ha dato tantissimo a tutti noi e ora si trova in difficoltà; un’Inghilterra che vuole costruire un muro mi porta davanti a un paradosso: gli inglesi che hanno colonizzato tutto il mondo, sono arrivati ovunque, e oggi hanno talmente paura da pensare di erigere un muro. Ma non saranno sicuramente queste barriere a tenere lontano le persone.
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Non una parola su chi ha fomentato e organizzato questo orrore. Non posso non vederla come complice involontaria di tutto ciò.