Dopo le grandi proteste di piazza di aprile e le dimissioni da primo ministro di Serzh Sarksyan, titolare del vecchio regime; dopo lo sciopero generale del 2 maggio e l’elezione alla guida del governo di Nikol Pashinyan, la guida del movimento democratico, la rivoluzione armena ha smesso di fare ogni giorno notizia. Il passaggio dalla piazza al palazzo, dalla protesta al governo, ha freddato gli entusiasmi della stampa: almeno quella occidentale.
Ma la rivoluzione va avanti. Nikol Pashinyan ha nominato il suo esecutivo, riempiendolo di esponenti dell’alleanza parlamentare da lui capeggiata, Yelk. Ed è stato presentato il programma, il 7 giugno. Come prevedibile, il nuovo primo ministro ha posto l’accento sulla necessità di scardinare il sistema oligarchico e corrotto che blocca il Paese strozzandone competitività e spirito di iniziativa. Al tempo stesso, ha spiegato che la conservazione di questo potere è stata resa possibile dalla periodica manipolazione del processo elettorale, favorita da una giustizia piegata alle logiche della politica.
Non sarà un governo dalla vita lunga. Lo stesso Pashinyan ha detto che entro un anno si dovranno tenere nuove elezioni, perché l’attuale composizione del Parlamento non rispecchia più ciò che il Paese vuole. Il gruppo con più deputati è del resto quello del Partito repubblicano, motore del vecchio regime. E l’ascesa di Pashinyan al potere è stata resa possibile proprio dai repubblicani, quando hanno capito che la protesta era appoggiata da tutto il Paese, esercito e polizia incluse. A questo, si aggiunge un altro limite per Pashinyan: il suo governo si regge sull’accordo con Gagik Tsarukyan, capo del blocco parlamentare che porta il suo nome (Alleanza Tsarukyan) ma soprattutto oligarca di primo piano.
L’obiettivo di Pashinyan, allora, potrebbe essere quello di dare in questi mesi qualche segnale di cambiamento, amministrare con trasparenza il processo elettorale e sperare che alle urne la rivoluzione si trasformi in un gran numero di voti, così da permettergli di guidare il Paese più liberamente. Magari da solo? Esito difficile, ma non improbabile. Le proteste di aprile hanno risvegliato un intero Paese. L’effetto è stato come quello di un’onda che, nata timida, si è rapidamente gonfiata, fino a sprigionare una forza dirompente.
Per capirne la dinamica è necessario partire dalla riforma costituzionale del 2015, che ha trasformato l’Armenia da repubblica presidenziale e repubblica parlamentare, spostando i poteri dalle mani del capo dello stato a quelle del primo ministro. Le opposizioni la interpretarono come un passaggio studiato a tavolino per permettere a Serzh Sargsyan di terminare il suo secondo mandato presidenziale, limite massimo previsto, insediarsi alla guida del governo e continuare a dominare la scena politica.
Sargsyan aveva promesso all’epoca che non si sarebbe fatto nominare primo ministro, ma poi, all’inizio di quest’anno, è iniziata a circolare con crescente insistenza l’ipotesi che si sarebbe appropriato anche di questa carica. Così è nato Reject Serzh, il movimento civile che insieme al Fronte armeno e a Contratto civile, il partito di Pashinyan, nonché colonna portate di Yelk, ha reso possibile la svolta attraverso una protesta diffusa, continua e anche molto ironica e festosa. Ampio è stato infatti il ricorso allo humour e alla fantasia, seguendo le prassi di precedenti rivoluzioni di piazza quali quelle in Serbia nel 2000 e in Cecoslovacchia nel 1989. In questo modo si è voluto anche rassicurare la popolazione e la stessa polizia, sgomberando il campo da ogni ipotesi di protesta violenta.
Maria Karapetyan, esponente di punta di Reject Serzh, ripercorre le tappe della vittoria. «Il nostro primo meeting in piazza c’è stato il 24 marzo. Abbiamo protestato tenendo in mano dei cartelli con su scritti i problemi che l’Armenia ha avuto in dieci anni di potere di Sargsyan. Per esempio, quando Sargsyan è diventato presidente l’Armenia aveva un debito di due miliardi di dollari, oggi siamo arrivati a 6-7. In questo stesso periodo di tempo, 400mila persone hanno lasciato il Paese”, spiega Maria Karapetyan, incontrata a Erevan, ricordando il grave problema dello svuotamento demografico e il fatto che questa rivolta è stata informata anche da una evidente frustrazione economica.
La protesta del 24 marzo non ha avuto un grande seguito. «Eravamo 120 persone», rammenta Maria Karapetyan. Eco mediatica: zero, o quasi. Ma c’era da aspettarselo. «Nonostante i grandi problemi del Paese e l’insoddisfazione economica e politica della gente, il regime in questi dieci anni ha lavorato con efficacia per tenere tutto sotto controllo, creando una finta opposizione e lasciando spazio ai media indipendenti, per far vedere che il potere può essere criticato».
Nonostante questo, gli attivisti di Reject Serzh non si sono dati per vinti. «Sapevamo che questa era la volta buona per rimuovere dal potere Sargsyan con la pressione popolare. E sapevamo anche che il momento decisivo per farlo sarebbe stata la finestra di tempo tra la fine del secondo mandato presidenziale (9 aprile) e l’inizio di quello da premier (17 aprile). Giorni in cui Sargsyan non avrebbe potuto dare ordini per reprimere. Il compito sarebbe spettato alla sola polizia».
E la polizia, in quei giorni, non ha caricato. Non ha usato la forza contro i dimostranti. Che nel frattempo sono cresciuti. Un momento decisivo è stato l’arrivo a Erevan, il 13 aprile, della carovana civile di Pashinyan. Il nuovo premier, nei giorni precedenti, aveva attraversato le province del Paese fermandovisi a dormire in tenda. Il suo arrivo a Erevan e l’incontro con i manifestanti hanno dato carica e adrenalina al movimento. Il leader che trova la gente, la gente che riconosce un leader.
La seconda chiave di volta si è verificata dopo l’insediamento di Sargsyan, il 23 aprile per l’esattezza, il giorno in cui Pashinyan e alcuni protagonisti della protesta sono stati fermati dalla polizia: un ultimo tentativo con cui Sargsyan ha cercato di proteggere il suo potere. «Quella sera è quasi raddoppiato il numero delle persone andate in piazza ad ascoltare le richieste di un movimento che, proprio in quelle ore, non poteva contare né Pashinyan, né su altri personaggi di rilievo. Le autorità speravano che nessuno andasse in piazza. Ma è successo il contrario».
Poche ore dopo, il colpo di scena: Serzh Sargsyan si dimette. Ci vorranno però ancora alcuni giorni per far sì che Nikol Pashinyan sia nominato primo ministro. Nella sessione parlamentare del primo maggio, infatti, non si trova un accordo. Il Partito repubblicano non vuole cedere. Il giorno dopo, Pashinyan convoca uno sciopero generale e il blocco di tutte le principali strade del Paese, compresa quella tra l’aeroporto e il centro di Erevan. La partecipazione è totale. Nelle foto di quel giorno, oltre che di quelli precedenti, si vedono cittadini e soldati insieme, uniti nella voglia di cambiamento. I repubblicani si convincono che non c’è più nulla da fare, e lasciano strada aperta al governo Pashinyan.
La rivoluzione non si è fatta soltanto in Piazza della Repubblica, nella capitale Erevan. La sua eco è arrivata in tutto il Paese. Persino a Debet, un villaggio rurale del nord, non lontano dal confine con la Georgia, di circa mille abitanti. Qui non ci sono grandi prospettive economiche. Si lavora la terra, si allevano pecore e mucche, si taglia la pietra nelle varie cave del distretto. Nella scuola elementare la Children of Armenia Fund, una Ong finanziata dalla diaspora, ha promosso un programma per l’igiene dentale, problema serio nelle aree rurali dell’Armenia. E sempre la stessa Ong ha costruito un modernissimo smart centre, appena fuori dall’abitato, per fornire ai giovani del posto competenze tecnologiche e possibilità di socializzazione. Lì abbiamo incontrato Luiza Ghazaryan, 16 anni. Il 2 maggio, il giorno dello sciopero generale, lei e tanti altri coetanei e compagni di scuola, anche loro presenti allo smart centre, hanno avuto la prima esperienza politica della loro vita. Si sono recati a un tunnel stradale qui vicino e ne hanno bloccato l’accesso. «Né i miei genitori, né il preside mi hanno dato il permesso per recarmici. Però era troppo importante, e alla fine io e miei amici ci siamo andati lo stesso», rivela Luisa, evidenziando come nella grande provincia rurale armena certi entusiasmi non siano stati ben visti.
Luiza, che ha conosciuto le attività di Pashinyan su Facebook, dice che «tutti i cittadini hanno la responsabilità di essere membri attivi della società, e io voglio far parte di questo movimento per migliorare il mio Paese». Poi, nella grande sala centrale dello smart centre, ci mostra il video, caricato su Youtube, del blocco al tunnel. «Nikol Pashinyan, Nikol Pashinyan», cantavano lei e gli altri ragazzi, in quella che è stata una giornata di protesta, ma anche di spensierato divertimento, com’è forse giusto che sia per dei ragazzi di 15 o 16 anni che in quei giorni hanno vissuto qualcosa di diverso e inedito, sentendo che potevano dare il loro contributo a un passaggio importante. Uno dei tanti fotogrammi di una rivoluzione che ha contagiato tutti e tutto.
Non sarà facile farla trionfare, però, questa rivoluzione. I margini di manovra sono stretti. I repubblicani potrebbero riservare un colpo di coda, mentre i detentori del potere economico potrebbero storcere il naso davanti a possibili provvedimenti anti-corruzione. Anche il contesto internazionale rende le cose non semplici. È bene ricordare che sull’Armenia pesano sia il lungo confronto con la Turchia, per via del genocidio non riconosciuto da Ankara, sia il conflitto trentennale con l’Azerbaigian per il Nagorno Karabakh. Per fare riforme, per sbloccare l’economia e cambiare la società, potrebbe essere necessaria una qualche novità, possibilmente in termini di dialogo, su ambo i fronti. Ma ogni mossa è rischiosa.
E infine, la Russia. Mosca è la garante storica della sicurezza armena, è riuscita a trascinare Erevan nella sua Unione eurasiatica, ed è notoriamente angosciata da ogni regime change nell’arco post-sovietico. Qualcuno ha sostenuto che potrebbe non vedere di buon occhio l’ascesa al potere di Pashinyan. Ma quest’ultimo, finora, ha tranquillizzato i russi. In politica estera, nessuna capriola improvvisa.
Credit: Vano SHLAMOV / AFP