Da Reset-Dialogues on Civilizations
In cinque anni la guerra in Siria ha coinvolto diversi paesi: priorità economico-strategiche, legate all’espansione dello Stato Islamico, alla lotta al terrorismo, al mantenimento o al rovesciamento di equilibri su scala regionale e globale hanno indirizzato le scelte di intervento, e di sostegno più o meno manifesto, alla galassia dei gruppi di opposizione tanto quanto al regime di Damasco; con l’unico punto fermo, almeno nella teoria, che vede Daesh come entità nemica di tutte le forze in campo.
L’ultima nata fra le coalizioni anti Is è quella annunciata lo scorso 15 dicembre dall’Arabia Saudita, una sorta di alleanza militare islamica che coinvolge 34 paesi a maggioranza sunnita, che secondo il ministro della Difesa Mohammad bin Salman Al Saud avrà la sua base operativa a Riyadh e si occuperà del contrasto non solo allo Stato Islamico ma a tutti i gruppi terroristici. In Siria, Iraq, ma anche in Libia, Egitto, Afghanistan e Mali. Ne faranno parte Giordania, Emirati, Qatar, Bahrein, Kuwait, Libano, Egitto, Libia, Pakistan, Bangladesh, Benin, Turchia, Ciad, Togo, Tunisia, Gibuti, Senegal, Sudan, Sierra Leone, Gabon, Somalia, Guinea, Autorità Nazionale Palestinese, Comore, Costa d’Avorio, Maldive, Marocco, Mauritania, Niger, Nigeria e Yemen. Altri dieci, fra i quali l’Indonesia, daranno appoggio esterno e potrebbero subentrare in un secondo momento. Non sono stati coinvolti Afghanistan, Algeria, Oman ed Eritrea, oltre, com’era prevedibile, a Iran, Iraq e Siria. Dall’annunciata alleanza a guida saudita, la situazione fra Ryiad e Teheran si è poi ulteriormente deteriorata a seguito dell’esecuzione in Arabia Saudita dell’imam sciita Nimir al Nimir, oltre ad altre 46 persone, lo scorso 2 gennaio.
“È tempo che il mondo islamico prenda una posizione per fronteggiare i terroristi e chi promuove le loro ideologie – ha dichiarato Adel al-Jubeir, ministro degli Esteri saudita – e lo abbiamo fatto creando una coalizione. Quando ci chiedono se l’alleanza vuole dispiegare forze sul terreno, diciamo che nulla è escluso a priori”. Ma se bin Salman ha comunicato che tutti i partners lavoreranno insieme e avranno come obiettivo il contrasto del terrorismo, in accordo con le leggi locali e la comunità internazionale, di fatto non è stato diffuso alcun piano di intervento: nessun dettaglio tecnico rispetto a eventuali dispiegamenti di forze, o a metodi ed operazioni militari già programmate. Nonostante gli Usa abbiano accolto l’annuncio con favore e molti di questi stati siano già parte della coalizione a guida americana contro lo Stato Islamico, la nuova alleanza porta all’interno una serie di contraddizioni, oltre che di potenziali nuove fonti di instabilità.
L’esclusione di Teheran e dei due paesi territorialmente più coinvolti dalla presenza di Daesh manifesta la propensione saudita ad alimentare la divisione settaria, come già sperimentato in Yemen, con conseguenze distruttive se dagli annunci si passasse ad una fase operativa, che potrebbe portare l’Iran a pensare ad un’entità simile e contraria. L’obiettivo a breve termine per Riyad sembra quello di riaffermare la leadership regionale oscurata dall’accresciuta presenza russa nell’area. Una necessità condivisa anche dalla Turchia, che ha bisogno di riprendere credibilità dopo le dimostrazioni di forza di Putin e le pressioni americane per incrementare gli sforzi nella lotta al terrorismo.
L’Arabia Saudita però è stata oggetto di analisi, come le altre monarchie del Golfo, in relazione alle fonti di finanziamento dello Stato Islamico. Se, come confermava lo scorso anno il Washington Institute for Near East Policy, non esistono evidenze circa un coinvolgimento del governo, che dal mese di marzo 2014 ha definito Daesh un’entità terrorista al pari di Jabhat al Nusra, i Fratelli Musulmani, e gli Houthi yemeniti, la maggior parte delle donazioni private sono arrivate da sauditi, come pure da soggetti del Qatar e del Kuwait, e in misura minore da Emirati e Bahrein, ma non dall’Oman. Secondo il Dipartimento del Tesoro Usa, solo con le donazioni di “sponsor” Is avrebbe accumulato almeno 40 milioni di dollari in due anni, e tutte le leggi anti riciclaggio promulgate recentemente negli stati del Golfo non avrebbero di fatto ridotto il fenomeno. Certo è che almeno fino al 2014, quando il re Abdullah ha dichiarato illegale lasciare il territorio nazionale per andare a combattere all’estero, almeno 7 mila giovani sauditi sono partiti come foreign fighters. Allo stesso tempo però la strategia di destabilizzazione messa in moto dallo Stato Islamico con attacchi alla comunità sciita, come gli attentati del 22 maggio alla moschea di al Qadayh, e del 6 agosto alla moschea di Abha, ha messo in allarme il governo, perché rischia di riaccendere le proteste degli sciiti, che più volte hanno lamentato politiche discriminatorie da parte della monarchia al potere.
L’alleanza anti terrorismo a guida saudita è all’incirca sovrapponibile a quella a guida americana, e parallela a quella russo-iraniana. Putin, sostenitore di Damasco, è sceso in campo siriano nel settembre scorso, a fianco di Assad, con il supporto dell’Iran e dell’Hezbollah libanese. L’asse putiniano-sciita ha finora ottenuto il risultato di sostenere il regime, consolidandone le aree di influenza, soprattutto nella zona costiera e della capitale, oltre che riportare la Russia al centro delle trattative internazionali, dopo la crisi con l’Ucraina. E in fondo, nonostante le condanne iniziali ai raid aerei di Mosca, che hanno incrementato le vittime civili, spesso in aree controllate dalle opposizioni ad Assad ma non dallo Stato Islamico, gli Stati Uniti hanno tirato un sospiro di sollievo, tanto che Washington è ora impegnato nella ricerca di una strategia comune con la Federazione. Per gli Usa una Siria smembrata in zone sotto varie influenze ha perso di interesse, come pure l’impellenza di far cadere Assad per indebolire l’asse sciita con l’Iran, che ormai ha firmato gli accordi per il nucleare. La discesa in campo della Russia gioca a favore degli americani, che non hanno mai avuto la reale intenzione di aprire un fronte di terra in Siria, anzi, secondo quanto riportato da Defense News la frequenza dei raid aerei americani è nettamente diminuita da quando sono iniziati quelli russi.
Tra l’altro, il 17 dicembre gli Usa hanno annunciato che ritireranno i dodici caccia dalla base di Incilik, vicino ad Adana, che erano stati inviati un mese prima a protezione dello spazio aereo turco da eventuali incursioni russe. La decisione è stata ufficialmente motivata come manovra di routine, per un dispiegamento temporaneo di mezzi che avrebbero comunque dovuto lasciare l’area, ma sta di fatto che dopo la sfiorata crisi del Sukhoi 24 russo abbattuto da Ankara, la notizia lascia spazio a letture più ampie. Prima di cominciare i raid la Russia aveva schierato mezzi militari, inclusi 32 aerei da guerra, e soldati a protezione della base di Latakia, e in accordo con gli Usa, i suoi droni avevano condotto missioni di ricognizione sulle aree controllate dalle opposizioni di Assad. Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre, Putin ha stretto un’alleanza con Hollande per le operazioni congiunte in Siria, intensificando il coinvolgimento della Francia, già presente nella coalizione a guida Usa dal 2014.
Anche la Turchia che oggi partecipa anche alla coalizione a guida saudita, fa parte di quella coordinata dagli Usa, e tacitamente ha anche dato appoggio alle forze ribelli in Siria, contro il regime di Assad. Accusata di mantenere una politica ambigua nei confronti dello Stato Islamico, di fatto ha finora rappresentato una via di passaggio per i jihadisti diretti in Siria, ed una rotta di esportazione del petrolio. Dopo gli attentati di Diyarbakir e Suruc, lo scorso luglio la Turchia ha lanciato una campagna aerea con incursioni militari nel nord dell’Iraq, che più che contro Daesh era diretta a colpire le basi del Pkk. Un’offensiva giustificata dalla lotta al terrorismo dello Stato Islamico che ha portato nel Kurdistan turco una nuova fase di scontri armati e operazioni di polizia con decine di vittime anche fra i civili.