Non è nuova la sensazione che una politica illuminata, generosa con i profughi e i migranti, aperta a riforme economiche in linea con la globalizzazione, europeista, culturalmente cosmopolita ed espressa con linguaggio sobrio stia diventando un genere di lusso, come il tonno a pinna blu o il tè verde da 3000 euro al chilo. La storia non è nuova, ha radici ormai lunghe – il conio «radical-chic», di Tom Wolfe, compirà cinquant’anni nel 2020 –, ma negli ultimi decenni ha prima preparato e ora raggiunto vertici spettacolari. Il distacco dei leader democratici e liberali, non solo di sinistra, dal popolo che una volta sapevano rappresentare, identificandosi emotivamente con loro, pur appartenendo ad élites assai distanti dalla gente comune – da Churchill a Mitterrand, da Brandt a Obama – si è compiuto. Oggi l’aristocratico John F.Kennedy farebbe più fatica a vincere le elezioni con un Salvini americano di quanta già ne fece con Nixon, figlio di un benzinaio.
Lo sconcerto per il nuovo paesaggio politico italiano, che è tale soprattutto per chi ha perso – per chi ha vinto è una conferma di quel che sapevano da un pezzo –, non è poi una sorpresa così stravagante. Anomalo è il fatto che il «trend populista» o «sovranista», non abbia incontrato resistenze. Eppure, mai avversari politici hanno giocato così allo scoperto senza nulla nascondere delle loro intenzioni. Perché, allora, l’impotenza che ha afflitto per esempio negli Usa i Democratici, ma anche i Repubblicani, come in Italia il Pd, ma anche quel che resta di una disastrata Forza Italia? Un’impotenza che riguarda anche i liberal dell’Est Europa e della Gran Bretagna. La Francia ha messo per ora uno stop al «trend», ma, attenzione, era sulla stessa china: al primo turno l’anno scorso Macron con 8,7 milioni era solo di una incollatura sopra Marine Le Pen (7,6) seconda, con Mélenchon e Fillon (pure sopra i 7 milioni): un piccolo margine dal precipizio.
Di fronte alle grida e ai tweet forsennati contro la globalizzazione, contro l’Europa, contro i migranti, messicani o musulmani, di fronte a proclami in difesa della «razza bianca», che cosa ha impedito agli altri di far valere parole più ragionevoli? di accendere simpatia ed emozioni per obiettivi di lavoro, prosperità, solidarietà, giustizia? Che cosa ha prodotto quella frattura che li ha buttati fuori dalla gara?
Nessuno ha il monopolio di questa risposta e tante ne sono già state fornite: limiti personali, inerzie cognitive e coazioni a ripetere di vario genere. Ma una ragione generale merita la preminenza: la gran parte dei leader politici, con pochissime eccezioni, non ha saputo farsi e mostrarsi partecipe dell’ansia di milioni di persone per gli sconvolgimenti in corso: guerre, disoccupazione, rifugiati, migrazioni. Non ha saputo mettersi dalla parte di chi queste paure le ha, indossando un «noi», in cui molti si potessero riconoscere. I liberal questo «noi» non riescono più credibilmente a farlo proprio – sostiene un brillante studioso ora all’università europea di Firenze, Liad Orgad – perché sono affetti da automatismi che fanno loro assumere come rilevanti esclusivamente i diritti delle minoranze – che sono davvero sempre un test fondamentale di libertà –, ma impediscono loro anche solo di parlare dei «diritti della maggioranza». Eccolo il concetto tabù, per i progressisti. In tempi tranquilli «le maggioranze fanno da sé» e possono essere, anzi, pericolose per chi non ne fa parte. Ma le società occidentali stanno attraversano una crisi di rilevanza storica nei rapporti tra vecchie maggioranze dominanti e grandi comunità di immigrati (Stati Uniti) e nel declino senza precedenti della popolazione residente che le rende dipendenti dall’immigrazione (Europa). Questi mutamenti hanno effetti destabilizzanti e ansiogeni che riguardano la vita quotidiana e alimentano la simpatia per i politici che catturano l’ansia. Che tra i fattori obiettivi e la percezione del fenomeno si inserisca il processo sistematico di «esagerazione» del problema, insieme alle provocazioni razziste, complica le cose, perché la reazione, specie ai piani più alti della società, dove l’ansia è molto minore, si carica anche di indignazione e disprezzo. E i dati di fatto che giustificano una certa «ansia demografica» passano in secondo piano.
Negli Stati Uniti questi fattori obiettivi sono imponenti. Le previsioni dell’epoca secondo le quali le riforme dell’immigrazione del 1965 negli Usa non avrebbero alterato essenzialmente la struttura della popolazione sono state smentite dai fatti; gli ispanici erano il 9% dei nati all’estero nel 1960 e ne rappresentano ora più della metà. Sul totale della popolazione saranno il 30% alla metà del secolo. Si capisce che attaccando Hillary Clinton, come una liberal capace di celebrare la varietà del popolo americano e incapace di celebrare la sua unità (come invece Obama), Trump ha avuto buon gioco, ovviamente non a New York e Los Angeles ma negli stati determinanti per il suo successo, nel batterla con una frase: «Noi siamo un popolo che parla inglese non spagnolo» e con una caricatura: il suo volto circondato di parole spagnole.
Nel suo The Cultural Defense of Nations (Oxford, 2015) l’israeliano Orgad, uno che rifiuta le politiche illiberali dell’immigrazione, spiega che in Europa il mutamento demografico non è altrettanto vistoso come in America o in Israele (dove la crescita degli ortodossi e degli arabi fa presagire un futuro sempre più difficile e conflittuale), ma l’invecchiamento e la vicinanza con la polveriera africana alimentano una comprensibile «ansia demografica», che certamente tocca i vasti strati della popolazione più povera, e che sta diventando il motore (difettoso) della politica europea. Il recupero di un riformismo democratico sarà opera lunga e deve concentrare qui la sua attenzione. La legislazione sulla cittadinanza, una prova che l’Italia ha ripetutamente fallito, e il governo dell’immigrazione, sono passaggi che possono ridefinire l’identità costituzionale di un popolo e un test formidabile per la ricostruzione di uno scenario politico democratico in tutte le sue componenti.
Pubblicato su La Repubblica il 3 marzo 2018
Credit: JORGE GUERRERO / AFP
Il sovrapopolamento mondiale, la riduzione delle già insufficienti risorse, il loro degrado per inquinamento e modifiche climatiche sono già FATTI reali che in futuro non possono che peggiorare.
L’inquinamento demografico del nostro pianeta è un FATTO grave che condizionerà pesantemente la vita delle prossime generazioni.
Non è ammissibile scriverne come se si trattasse di una ansia paranoica dovuta a razzismo o a “paura del diverso” e tacendo che si tratta di PROBLEMI VERI CHE IMPATTANO E IMPATTERANNO PESANTEMENTE SULLA VITA, non solo umana.
Geri Steve