Da Reset-Dialogues on Civilizations
L’efferato omicidio del giovane ricercatore Giulio Regeni ha tristemente portato alla ribalta del grande pubblico quanto appassionati ed esperti della regione mediorientale avevano sottolineato per mesi: l’Egitto del generale al-Sisi si caratterizza per un altissimo livello di violenza statale. Certamente, per qualsiasi regime politico – sia nel campo delle liberal-democrazie sia nell’eterogenea galassia autoritaria – consenso e repressione sono due componenti essenziali per garantirsi la propria stabilità. Troppo spesso però, giornalisti e commentatori finiscono per suggerire una lettura semplicistica che collega la permanenza del dittatore di turno al vertice del potere politico come un portato diretto del sostegno concessogli dagli uomini in divisa. Non commettendo l’errore opposto di considerare l’appoggio degli apparati di sicurezza insignificante, sembra saggio relativizzare queste prospettive, assumendo consapevolezza che per quanto efferato possa essere un regime questo si basa sempre, almeno in parte, su forme – spesso più implicite che esplicite – di consenso. Chiarito ciò, appare interessante domandarsi le ragioni che spingono certi regimi a scegliere un maggiore ricorso al “bastone” rispetto alla “carota”. Come regola generale e senza un grande ricorso alla fantasia, possiamo evidenziare che un vasto utilizzo della repressione segnali un limitato consenso sociale e politico per il regime.
Se quanto scritto fino ad adesso è corretto, appare lapalissiano che il regime militare instaurato da al-Sisi fatichi non poco a scaldare i cuori – e soprattutto a riempire gli affamati stomaci – dei circa novanta milioni di egiziani. Numeri precisi sulla repressione non ne esistono ed i dati circolanti sono spesso soggetti a feroci dispute tra il regime e le organizzazioni non governative. Tuttavia, con oltre 40,000 detenuti politici, migliaia di torturati nelle prigioni, e centinaia di desaparecidos è facile individuare il trend in atto. Considerando che il golpe di al-Sisi ha defenestrato il primo presidente democraticamente eletto nella storia repubblicana egiziana, Mohammed Morsi, e determinato la messa al bando della Fratellanza Musulmana, organizzazione politica e sociale senza eguali per longevità e consenso nel paese, un alto grado di repressione può sembrare l’ingrediente necessario per la stabilità del regime. Ciò detto, quando il 3 luglio 2013, Morsi veniva rimosso allo scadere delle 48 ore di ultimatum concesse dalle forze armate, che esigevano le sue dimissioni da presidente, il nuovo governo nominato e sostenuto dall’esercito sembrava poter attrarre consensi trasversali a molti settori della società egiziana.
Per quanto critico possa essere il giudizio sulla decisione delle forze armate di entrare nell’arena politica, l’anno di presidenza Morsi difficilmente può essere ricordato come una felice parentesi. Certamente, il cosiddetto “stato profondo” – composto da burocrazia, apparati legati al precedente regime di Mubarak, ed alte gerarchie militari – ha provato in tutti i modi a mettere i bastoni tra le ruote all’inviso governo della Fratellanza. L’impreparazione di quest’ultima ha fatto poi il resto, determinando un’erratica politica estera, forti carenze di generi di prima necessità nei centri urbani, interminabili code alle stazioni di benzina, e costanti black-out che hanno lasciato l’intera capitale egiziana al buio anche per molte ore. In altre parole, nel giugno 2013 la presidenza Morsi aveva già deluso un buon numero di propri simpatizzanti ed elettori, oltre ovviamente a fomentare le critiche dei suoi avversari politici. Il crescente malcontento per le politiche economiche targate Fratellanza – sostanzialmente un refrain dei mantra neo-liberisti che avevano ispirato l’agire della classe dominante egiziana a partire dalla firma degli accordi con il Fondo Monetario Internazionale nel lontano 1991 – è facilmente deducibile dal numero di proteste di natura socio-economica che hanno preso piede. Secondo l’Egyptian Center for Economic and Social Rights (ECESR), tra gennaio e giugno 2013 si sono verificati ben 4.567 episodi di contestazione, di cui 2.239 legati al mondo del lavoro. Questo significa – con solo riferimento ai lavoratori – una stratosferica media di oltre 12 proteste giornaliere ed un impari confronto con l’era Mubarak quando l’apice di quella che è stata descritta come “la più lunga e forte ondata di proteste operaie a partire dagli anni quaranta” aveva fissato la propria asticella sotto i 700 episodi di mobilitazione. La sponda politica a questo diffuso malcontento sociale è stata fornita dal movimento Tamarod, che ha provato a riunire l’eterogenea e composita opposizione egiziana sotto l’ombrello di un’organizzazione che aveva come principale scopo una raccolta firme al fine di chiedere elezioni presidenziali anticipate. Oggi sappiamo che quel movimento è stato infiltrato ed eterodiretto dagli apparati di sicurezza fin dalla sua origine, ma come sempre la storia appare lineare e deterministica solo in retrospettiva. Non può infatti sfuggire che molte forze di opposizione, tra cui anche il combattivo e fiero Movimento 6 Aprile, abbiano inizialmente fornito il proprio endorsement a Tamarod. Quando questo ha poi chiamato ad una giornata di protesta in tutto il paese contro Morsi ed il suo governo, milioni e milioni di persone in tutto l’Egitto si sono riversate nelle strade il 30 giugno 2013, dando vita ad una delle più partecipate manifestazioni di tutti i tempi. I militari hanno così giocato un ruolo decisivo nel fornire quella cornice di senso che potesse legittimare il loro successivo ed imminente colpo di stato, ma il materiale umano presente nelle strade era indiscutibilmente reale.
Non è certamente questa la sede per discorrere su quanto l’azione dei militari rispondesse ad una precisa richiesta popolare, oppure la strumentalizzasse soltanto. Probabilmente, entrambe le considerazioni contengono una parte di verità. Tuttavia, e questo risulta significativo per noi, il nuovo regime poteva presentarsi come un umile servitore di quanto la piazza chiedeva a gran voce. Questo primo importante supporto veniva poi ulteriormente rafforzato dall’appoggio che le forze liberali e nasseriste hanno, almeno inizialmente, concesso ad al-Sisi. Le due figure chiave qui sono Mohamed El Baradei e Kamal Abu-Eita. Il primo – certamente la personalità egiziana più nota a livello internazionale per essere stato a lungo direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ed aver vinto il Premio Nobel per la pace nel 2005 – accetta nel luglio del 2013 l’incarico di vicepresidente nel momento della formazione del governo ad “interim” promosso dai militari. Il secondo – figura storica del sindacalismo egiziano e principale animatore della straordinaria protesta di alcuni dipendenti pubblici nel dicembre 2007, che avrebbe poi portato pochi mesi più tardi alla formazione del primo sindacato indipendente ufficialmente riconosciuto in Egitto dagli anni cinquanta – diviene invece ministro del lavoro. Una spia importante di questo implicito sostegno al nuovo governo è data dal numero delle proteste, che scendono drasticamente nella seconda metà del 2013 a soli 665 episodi. Insomma, il regime di al-Sisi – pur scontando le ovvie antipatie, per non dir di più, dell’Islam politico – prende il potere in una cornice segnata da un discreto sostegno da parte della società. Per questo, il grande nodo irrisolto rimane spiegare perché dopo solo due anni e mezzo l’Egitto si sia trasformato in uno degli stati più repressivi di una regione che non brilla certamente per rispetto delle libertà civili e politiche.
La risposta – per quanto questa possa suonare laconica – risiede nel fatto che al-Sisi non è Nasser. Infatti, nonostante il primo sia stato per mesi ritratto come un’incarnazione moderna del secondo, la realtà è alquanto diversa. Sia chiaro, non si tratta qui di esprimere un giudizio di merito sui due uomini in questione, ma di comprendere come il regime di Nasser dopo un iniziale favore per il blocco Occidentale ed un’economia di mercato avesse – grazie ad un capitalismo di stato basato sulla vicinanza al polo sovietico – instaurato e mantenuto un implicito patto sociale che garantiva consenso per il regime. Il forte intervento statale in economia, le nazionalizzazioni delle imprese straniere operanti nel paese, la riforma agraria volta ad una parziale ridistribuzione delle terre coltivabili, e le politiche espansive in materia di welfare furono infatti quelle colonne portanti di un sistema che divenne famoso come “socialismo arabo”. La retorica del regime era fomentata da un forte sentimento anti-imperialista ed anti-israeliano che trovava piena espressione nel pan-arabismo. I lavoratori rinunciavano a qualsiasi forma autonoma di espressione politica, ma ricevevano come ricompensa alla loro quiescenza benefici economici e sociali. Nel 1964, per esempio, i salari erano – in termini reali – il 68 percento più alti di quattordici anni prima, mentre la settimana lavorativa era scesa dalle 50 ore del 1959 alle 44 del 1964. Insomma, ad una completa esclusione politica delle masse faceva da contraltare un certo grado di loro inclusione sociale, che assicurava al regime consensi e legittimità.
Il modello che al-Sisi ha proposto fino a questo momento è invece basato su una doppia esclusione. Non solamente infatti le più elementari forme di dissenso e partecipazione politica sono severamente proibite e punite, ma il varo di riforme che hanno ottenuto il plauso del Fondo Monetario Internazionale hanno determinato – seguendo una sinistra continuità con le presidenze Mubarak e Morsi – tagli ai sussidi sui generi alimentari di prima necessità e al welfare. Il forte risentimento che queste misure hanno prodotto, con le sole proteste dei lavoratori nuovamente impennatesi nel 2014 a quota 2.274, sono quindi state fronteggiate da una violentissima stretta poliziesco-militare. Ovviamente, l’eccessivo affidamento da parte di al-Sisi sul fattore repressione rende il suo regime meno e non – come invece supposto da molti commentatori – più stabile. D’altronde però, per il feldmaresciallo divenuto presidente le alternative non sono molte, data l’assenza planetaria di un modello alternativo di sviluppo. Il “suo” Egitto rimane – nonostante diplomatiche prese di distanza a giorni alterni dell’amministrazione Obama – iper dipendente dall’alleanza con Stati Uniti e petromonarchie del Golfo, che hanno tra investimenti ed aiuti già versato negli ultimi due anni oltre 8 miliardi di dollari nei dissestati forzieri egiziani. Questi attori internazionali rimangono così decisivi per la tenuta economica del paese, ma non concedono il loro supporto a buon mercato. In cambio richiedono infatti la creazione ed il mantenimento di un ambiente favorevole alle loro imprese che vogliono fare utili in Egitto. Tutti fattori che spingono al-Sisi lungo un versante di ulteriore riforme neo-liberiste, scontando un nuovo e crescente malcontento popolare. La dinamica innescatasi sembra così avvitarsi su se stessa, ma rimane difficile – almeno per il momento – vedere il punto dove potrebbe improvvisamente rompersi.
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